venerdì 21 giugno 2019

"Fratello cattivo" di Sandro Gros-Pietro, Neos Edizioni, Torino, 2018



Vari sono gli aspetti che si possono individuare e sottolineare nel nuovo romanzo di Sandro Gros-Pietro “Fratello cattivo” (Neos Edizioni, Torino, 2018). Tra i tanti ne vorrei privilegiare uno, che è poi dettato anche dal titolo: fratello cattivo. Dove il termine fratello non è certamente inteso in senso cristiano né tanto meno laicamente massonico. L’espressione fratello si coniuga come una specie di diade, come un alter ego ingombrante e spesso alienante o alienabile. Ed anche l’aggettivo cattivo assume nel contesto del romanzo una ambivalenza di fondo: è un fratello che apostrofa l’altro fratello con questo epiteto, ma allo stesso tempo gli avvenimenti che si susseguono fanno intendere che il cattivo sia chi imputa all’altro la cattiveria. In questo mare di malvagità reciproca e rinfacciata si gioca l’esistenza di entrambi i fratelli e si assiste al dramma di un fratricidio. Nella tradizione ebraica Caino è generato dal serpente del giardino dell’Eden (il Male) e come εκ του πονηρου (il Maligno) è il primo peccatore della storia, l’archetipo del fratricidio. Il tycoon Harvey Russell, protagonista di “Fratello cattivo”, ben incarna questo prototipo malvagio. Ma anche il male può possedere un suo fascino. Ed una sua grandezza. Così il Re del Mondo, il demonio per eccellenza, si impossessa dell’anima di Harvey che diviene ipso facto un legittimo fuori legge, o, meglio, superiore alle leggi stesse: a lui, che è il Gran Monarca della cattiveria, nessuno chiederà conto delle sue azioni malvage, per paura, per sottomissione, per negligenza. Nemmeno la sua coscienza è in grado di condannarlo per la sua spietata crudeltà. Se resiste qualche dubbio, qualche resipiscenza minima, ecco che subito viene cancellata, perché Harvey è un cittadino al di sopra di ogni sospetto. L’occasione per riflettere sulla condizione della propria esistenza è data dal regalo che la moglie Shanti gli porge: il messalino della sua prima comunione. Dono benefico o malefico? Ingenuo o intrigante? Consapevolmente studiato o casuale e innocente? Sta al lettore scoprirlo man mano che procede il racconto. Certo è che è Shanti, e non il fratello Gerald, la vera antagonista di Harvey. L’unica in grado di far nascere nel marito quell’analisi introspettiva che proseguirà lungo tutto il romanzo, costruito in una sola giornata, quasi a voler rispettare da una parte quelle regole classiche di unità di tempo, di luogo e d’azione che tanto hanno fatto discutere i nostri letterati, e dall’altra ad omaggiare il più intrigante e criptico romanzo del diciannovesimo secolo che è stato l’Ulisse di Joyce. E’ chiaro che aver optato per una simile unità ha obbligato lo scrittore a evadere con flash back che piacevolmente catturano per la loro immediatezza e sincronicità. Il flusso della coscienza non è un monologo interiore, come nel capolavoro joyssiano, ma una frequente analessi che spiega e si piega al carattere del protagonista. In effetti Harvey viaggia in continuazione all’interno di una diadi – sua ed altrui – che lo vedrà al centro di tante situazioni ed esperienze in netto contrasto e opposte tra loro. In tal modo conosciamo il protagonista attraverso i suoi rapporti con i terroristi, con i servizi segreti, con le commissioni parlamentari, con il mondo della compravendita delle armi, con i palinsesti televisivi, con tutto quello in fondo che gli dà potere e ricchezza. Il tycoon Harvey Russel padroneggia banche, mass media, finanza e politica, e non si fa scrupolo di ostentarlo in ogni occasione e con chiunque, perché questa è esattamente la sua religione, sintetizzata in quei dieci comandamenti laici che sono l’esatto opposto di quelli cristiano giudaici. Già il sottotitolo “le confessioni di un onesto peccatore” rivela l’ossimoro linguistico che diverrà a suo tempo ossimoro dell’esistenza. Harvey è padrone incontrastato dei propri simili. Li domina e li sovrasta. Ma pur nel suo solipsismo anaffettivo non è certo di dominare anche se stesso. Né tanto meno la moglie. La sua cattiveria trova davanti a sé uno specchio nel quale riflettersi e ritrovarsi, con la sua religione fatta di ricchezze accumulate sulla pelle degli altri – mors tua vita mea, sembra suggerire – e tuttavia ciò non basta. Ecco, allora che il Caino emerge nella sua triste realtà. Quel comandamento biblico – il quinto: non uccidere – che si era ripromesso – l’unico – di rispettare, lo accusa. Sembra quasi di risentire le parole famose che il Signore rivolge all’assassino: “Dov’è Abele, tuo fratello?” e la sua risposta: “Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?”. Era il primo omicidio della storia. E il vocabolo “fratricidio” è rimasto ad indicare lo snaturamento di un sentimento che sarebbe dovuto essere d’amore. Ma in “Fratello cattivo” l’amore non esiste. È un mondo che ruota attorno all’egocentrismo di un uomo d’affari proiettato e concentrato tutto sulla bellezza, sulla ricchezza, sull’eros e sul divertimento: le sue virtù cardinali. Fin da giovane, infatti, aveva stilato il suo programma. Come Dio aveva consegnato le tavole a Mosè, Harvey si autoconsegna i propri dieci comandamenti che sono l’antitesi di quelli giudaico cristiani: tranne uno: non uccidere. La disanima della propria esistenza – complice la moglie Shanti – nell’ottantesimo giorno del suo compleanno si convertirà in un’autoassoluzione. Shanti tuttavia non può credergli, né potrà cedere nelle proprie convinzioni. Infatti lo incolperà del fratricidio: “Tu sei un peccatore sacrilego – gli rinfaccerà – e un accanito mentitore. Tu sei l’assassino di tuo fratello Gerald. Confessa il tuo delitto e subisci la tua condanna. Ti attende l’inferno. Tu sei maledetto”. Ecco da dove sgorga l’antagonismo della moglie e il desiderio di Harvey di ridurne il valore e le qualità. Perché Shanti, oltre che demone, è pure angelo. E l’angelo non ama né malvagità né menzogna. Sebbene fra le ultime battute del romanzo si intraveda come uno spiraglio di confessione, l’autodafè, che ne consegue, viene però immediatamente eliminata, perché i fatti devono per forza essere subordinati alla rama dei Russel. Pur tuttavia, quelle parole della moglie, nonostante si scontrino con la boria connaturata di Harvey – un lascito degli insegnamenti del padre Kristopher – lo sconvolgono momentaneamente, lo fanno scivolare in un subitaneo delirio, dal quale comunque uscirà ancora una volta vittorioso e “puro”. Shanti, apparsagli come un mostro diabolico, una specie di arcangelo Gabriele interprete della potenza di Dio, ritornerà ad essere una pedina nelle sue mani, una delle tante, da spostare sulla scacchiera della vita a favore del nipote Reginald, probabile vero erede della sua filosofia edonistica. Giunto al suo ottantesimo compleanno, con l’introspezione finale causata da una serie di circostanze che lo assillano lungo il corso della giornata, la sua coscienza lo tormenta fino a renderlo quasi folle. Vaneggia. E in un climax di crescente delirio viaggia nuovamente a ritroso nel tempo. Ricorda di essersi sentito insidiato nella propria primogenitura dalla nascita del fratello Gerald. “Tutto è successo a seguito della morte di mamma Adelaide. La vecchia ha lasciato un testamento in mano a Gerald. Ah, cazzo: in mano a Gerald, e non in mano sua, per dio! Ma chi è il figlio maggiore? Lui o quel mentecatto di Gerald? (…) Un affronto inaccettabile.” Eppure non è solo questione di primogenitura. Harvey deve primeggiare in tutto. E’ questo il suo supremo comandamento. Tutto deve stare ai suoi piedi, ai suoi comandi. D’accordo, Gerald non è l’innocente Abele, ma come Abele è un potenziale rivale. E soprattutto è l’erede preferito. Dio aveva scelto Abele, mamma Adelaide ha preferito Gerald. Così in un conflitto a fuoco durante un’azione terroristica “Harvey si volta di scatto e inizia a sparare. C’è suo fratello sulla linea di fuoco. La cascata di proiettili lo raggiunge in pieno. Harvey vede gli schizzi del sangue del fratello, i brandelli delle vesti, la carne strappata (…) Oh, mio dio che ho fatto! Mio dio che ho fatto! Harvey si impone di bruciare la memoria del suo fratricidio. Come il dermatologo cauterizza la pelle, lui si brucia l’anima (…)”  Si autoconvince di non essere come Caino. Gerald è morto per disgrazia. Cerca di autoassolversi. Si proclama onesto peccatore. Lui è il sacerdote della ricchezza. E solo questa ha seguìto, secondo la dottrina del padre Kristopher, che sapeva parlare con gli angeli e coi demoni e che Harvey trasmetterà al nipote Reginald, il quale, se dimostrerà di sapere adorare la ricchezza, potrà parlare con gli angeli e coi demoni, “come è nella rama dei Russel.” Così termina il romanzo. La vicenda di questo tycoon, non nuovo ai nostri occhi e che potrebbe incarnare volti e nomi conosciuti, getta in uno sprazzo finale di prolessi l’accento su quello che è il suo testamento e quella che sarà la sua eredità: la continuazione del male sul bene, della prepotenza sull’umiltà, del possesso sulla povertà. La cattiveria ha partorito se stessa e Caino si ergerà beffardo ripetendo “non sono certo io il custode di mio fratello”. Quello cattivo, naturalmente.

Enea Biumi

lunedì 17 giugno 2019

"La taverna di Yannis" di Adelfo Maurizio Forni, Genesi Editrice, Torino, 2019




Di primo acchito ho definito “La taverna di Yannis” di Adelfo Maurizio Forni un romanzo emozionante e che emoziona. Più analiticamente vedo in queste pagine la trama di un destino che accomuna e coinvolge uomini e avvenimenti apparentemente lontani e diversi ma uniti nella conquista del Bene. Ho volutamente scritto con la lettera maiuscola il Bene, perché nella mente dei protagonisti – e dell’Autore immagino – il Bene è qualcosa di superiore, di trascendente, che va oltre l’appagamento materiale hic et nunc. Anche la Storia, quella destinata ad essere letta e studiata sui testi scolastici, pur nelle sue brutture e bestialità, tra guerre, tradimenti, violenze e massacri, è destinata alla fine a ricomporsi, a reinquadrarsi in una visione direi quasi manzoniana dove anche il male è permesso per uno scopo decisamente positivo. Certo, Manzoni parlava di Provvidenza. Laicamente pensando, la storia, almeno per chi vi crede, è un viaggio verso un progresso, verso un mondo indubbiamente migliore. Per alcuni è pure magistra vitae. “La taverna di Yannis” testimonia questo assioma. Il racconto nasce dall’incontro casuale tra una coppia italiana ed una greca, alla taverna di Yannis, appunto, e il flashback che ne consegue è la ricostruzione di un periodo che va dagli anni quaranta del secolo scorso ai nostri giorni. Vi si legge l’invasione della Grecia da parte dell’esercito italiano, la lotta partigiana del popolo greco e del popolo italiano, le miserie e le distruzioni della guerra, la ricostruzione difficile e faticosa, il sessantotto, la dittatura dei colonnelli, il boom economico. Il tutto attraverso l’occhio di tre generazioni intente a costruirsi il proprio futuro di certezze e solidità. Lo sfondo naturale è in prevalenza quello della Grecia con le sue isole, il suo mare, il verde dei suoi pascoli, ma non mancano accenni al paesaggio brianzol lombardo, nonché alla vastità del cielo stellato, spesso ricorrente nei momenti clou del racconto. Lo sfondo invece storico, come detto, è la seconda guerra mondiale con l’occupazione italiana di Samos e la successiva venuta delle truppe tedesche. Dopo l’8 settembre del ‘43, così narra la storia ufficiale, le cose si complicano per l’esercito italiano in Grecia. Chi non vuole sottomettersi al comando tedesco verrà ucciso o deportato. Non resta che fuggire, se possibile, o nascondersi, o entrare nei gruppi partigiani locali. Ma l’altra storia, quella ufficiosa, quella della gente comune, racconta che un sergente italiano (Giorgio) ebbe salva la vita grazia ad una ragazzina (Eleni) che, a sua volta, quando ancora l’esercito italiano era l’invasore, fu aiutata dallo stesso militare. Due esistenze, così differenti e lontane, direi quasi opposte, si incrociano in una specie di diafora spirituale riproducendo in nuce il destino di un mondo, oppresso dalla guerra, che si attorcigliava inesorabilmente su se stesso senza via d’uscita. Ma quelle due vite, incrociatesi quasi per caso e fortunatamente simpatetiche l’una con l’altra, furono l’inizio del prevalere del Bene sul male. Non sto a raccontare gli avvenimenti successivi per non togliere al lettore il gusto della lettura. Mi piace invece sottolineare l’atmosfera emotiva che dà l’abbrivio alla narrazione. Siamo trasportati come davanti ad uno schermo cinematografico – ed è lo stesso Forni che ci suggerisce la chiave interpretativa – dove a “fare” la storia non sono solo i potenti ma, Manzoni docet, gli umili e gli anti eroi. Si tratta di una sceneggiatura in cui le cose nella loro successione diacronica e, in special modo all’inizio, convulsa e frenetica, ci disvelano scenograficamente che la bellezza dell’uomo non è quella esteriore, bensì interiore. I personaggi del romanzo, al di là della loro collocazione geografica od economica, possono essere i nostri nonni o i nostri padri, i nostri vicini di casa o i compagni di lavoro. Non fa differenza. Quello che conta sono i loro valori di pace e solidarietà coi quali hanno convissuto e per i quali si sono sacrificati, pur nelle mille contraddizioni che la vita, o il destino, ha procurato loro. Nella certezza che nulla è stato fatto invano e che tutto, alla fine, sarà ricomposto in un unico e grande abbraccio fraterno, perché “il cuore è la cosa più importante”. Da non dimenticare.

 Enea Biumi

Massimo Scrignòli “Lupa a Gennaio” (Book Editore, 2019)




E’ René Char ad aprire il tracciato in epigrafe di un suono che accosta amore e poesia. Nuova stagione è poi davvero quella che Massimo Scrignòli inaugura con un volume di prose poetiche temperate dalla robustezza dell’afflato metafisico, “Lupa a Gennaio”. Muove il testo, deflagra l’improvviso; domina l’assenso un indicibile riemerso quasi fosse un libro dell’inquietudine. Anche noi, così, scendiamo in apparente rilascio, là dove frammenti di tuono aprono scenari di amori inattesi, perturbanti. Da subito risuonano, nei testi di Scrignòli, i rimandi agli autori frequentati e interpretati: Char e Pound, Celan e Kafka, ma anche Dante. Le tracce notturne sono enucleate quasi a ridosso di una prosa in brevi quadri sospesa, raffigurata in intagli di raffinatissima perizia. Che conforto, a fronte di una miriade di proposte vacillanti e anoressiche catalogate come estri del dicibile, scorrere una traccia letteraria fieramente capace di dirsi concettuale, profonda ma mai oscura, filosofica, propriamente ontologica. Gli elementi materici, le cose, gli enti accolgono il lettore in una purezza d’intendimenti che non può però escludere la precisa consapevolezza che l’essere dell’ente non è un altro ente. “L’eclissi ha qualche cosa che riguarda il bosco: è l’ingresso docile degli occhi nella neve oscura”; riguarda il nostro senso estremo per la sensualità degli elementi, la percettibilità delle variazioni e degli indugi. Una fisicità astratta ricompone il divenire interpretabile non contraddittorio ma problematico; così come problema è il mutare all’interno di un’esattezza nominata in quanto colore che si fa nome. Un infrascritto ereo, quasi contenitore arcaico sprigionante domande abissali e ansiti costieri. E ancora la tonalità cromatica del blu si accosta ad ombre e presenze “là dove il cielo non è più cielo”, e così la parola sa discernere nel non morire. Il depistaggio è complice, l’erranza fattuale attraverso la duplicità del testimone, sensibile scolta di uno svago adulto, di una consistenza intellettuale. Massimo Scrignòli proviene da linee del fuoco e libri d’acqua; osa la dicitura compatta del brano che nella visibilità breve distende lo spazio adeguato della prosa d’arte, della nominale intenzione diretta al nucleo fondante del reale. Le acque della Senna, nelle quali Paul Celan si gettò in una notte d’aprile del 1970, assumono il senso sacrale del sacrificio devastante; si fanno, appunto, “ammutolite” ma, nello stesso tempo, ritornanti, le stesse “per concessione suprema di Eraclito”. Indicibile l’afflato panico riemergente dai vessilli di ciò che non deturpa il ripetibile, l’avamposto decifrato dal lessico ermeneutico. L’evento e il rimedio significano le cose. Davvero ritroviamo nell’opera di Massimo Scrignòli ciò che disse in passato lo stesso Char: “Possiamo vivere solo sul semiaperto, esattamente sulla linea ermetica di spartizione tra l’ombra e la luce. Ma siamo irresistibilmente proiettati in avanti”.
                                                                                                                                                                                           Andrea Rompianesi