Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
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domenica 30 giugno 2019
venerdì 21 giugno 2019
"Fratello cattivo" di Sandro Gros-Pietro, Neos Edizioni, Torino, 2018
Vari sono gli aspetti che si possono individuare e sottolineare nel nuovo
romanzo di Sandro Gros-Pietro “Fratello
cattivo” (Neos Edizioni, Torino, 2018). Tra i tanti ne vorrei privilegiare
uno, che è poi dettato anche dal titolo: fratello
cattivo. Dove il termine fratello
non è certamente inteso in senso cristiano né tanto meno laicamente massonico. L’espressione
fratello si coniuga come una specie
di diade, come un alter ego ingombrante e spesso alienante o alienabile. Ed
anche l’aggettivo cattivo assume nel
contesto del romanzo una ambivalenza di fondo: è un fratello che apostrofa l’altro
fratello con questo epiteto, ma allo stesso tempo gli avvenimenti che si
susseguono fanno intendere che il cattivo
sia chi imputa all’altro la cattiveria. In questo mare di malvagità reciproca e
rinfacciata si gioca l’esistenza di entrambi i fratelli e si assiste al dramma
di un fratricidio. Nella tradizione ebraica Caino è generato dal serpente del
giardino dell’Eden (il Male) e come εκ του πονηρου (il Maligno) è
il primo peccatore della storia, l’archetipo del fratricidio. Il tycoon Harvey
Russell, protagonista di “Fratello
cattivo”, ben incarna questo prototipo malvagio. Ma anche il male può
possedere un suo fascino. Ed una sua grandezza. Così il Re del Mondo, il
demonio per eccellenza, si impossessa dell’anima di Harvey che diviene ipso
facto un legittimo fuori legge, o, meglio, superiore alle leggi stesse: a lui,
che è il Gran Monarca della cattiveria, nessuno chiederà conto delle sue azioni
malvage, per paura, per sottomissione, per negligenza. Nemmeno la sua coscienza
è in grado di condannarlo per la sua spietata crudeltà. Se resiste qualche
dubbio, qualche resipiscenza minima, ecco che subito viene cancellata, perché
Harvey è un cittadino al di sopra di ogni sospetto. L’occasione per riflettere
sulla condizione della propria esistenza è data dal regalo che la moglie Shanti
gli porge: il messalino della sua prima comunione. Dono benefico o malefico?
Ingenuo o intrigante? Consapevolmente studiato o casuale e innocente? Sta al
lettore scoprirlo man mano che procede il racconto. Certo è che è Shanti, e non
il fratello Gerald, la vera antagonista di Harvey. L’unica in grado di far nascere
nel marito quell’analisi introspettiva che proseguirà lungo tutto il romanzo,
costruito in una sola giornata, quasi a voler rispettare da una parte quelle
regole classiche di unità di tempo, di luogo e d’azione che tanto hanno fatto
discutere i nostri letterati, e dall’altra ad omaggiare il più intrigante e
criptico romanzo del diciannovesimo secolo che è stato l’Ulisse di Joyce. E’
chiaro che aver optato per una simile unità ha obbligato lo scrittore a evadere
con flash back che piacevolmente catturano per la loro immediatezza e
sincronicità. Il flusso della coscienza non è un monologo interiore, come nel
capolavoro joyssiano, ma una frequente analessi che spiega e si piega al
carattere del protagonista. In effetti Harvey viaggia in continuazione
all’interno di una diadi – sua ed altrui – che lo vedrà al centro di tante
situazioni ed esperienze in netto contrasto e opposte tra loro. In tal modo
conosciamo il protagonista attraverso i suoi rapporti con i terroristi, con i servizi
segreti, con le commissioni parlamentari, con il mondo della compravendita
delle armi, con i palinsesti televisivi, con tutto quello in fondo che gli dà
potere e ricchezza. Il tycoon Harvey Russel padroneggia banche, mass media,
finanza e politica, e non si fa scrupolo di ostentarlo in ogni occasione e con
chiunque, perché questa è esattamente la sua religione, sintetizzata in quei
dieci comandamenti laici che sono l’esatto opposto di quelli cristiano
giudaici. Già il sottotitolo “le confessioni di un onesto peccatore” rivela
l’ossimoro linguistico che diverrà a suo tempo ossimoro dell’esistenza. Harvey
è padrone incontrastato dei propri simili. Li domina e li sovrasta. Ma pur nel
suo solipsismo anaffettivo non è certo di dominare anche se stesso. Né tanto
meno la moglie. La sua cattiveria trova davanti a sé uno specchio nel quale
riflettersi e ritrovarsi, con la sua religione fatta di ricchezze accumulate
sulla pelle degli altri – mors tua vita mea, sembra suggerire – e tuttavia ciò
non basta. Ecco, allora che il Caino emerge nella sua triste realtà. Quel
comandamento biblico – il quinto: non uccidere – che si era ripromesso –
l’unico – di rispettare, lo accusa. Sembra quasi di risentire le parole famose
che il Signore rivolge all’assassino: “Dov’è
Abele, tuo fratello?” e la sua risposta: “Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?”. Era il
primo omicidio della storia. E il vocabolo “fratricidio”
è rimasto ad indicare lo snaturamento di un sentimento che sarebbe dovuto
essere d’amore. Ma in “Fratello cattivo”
l’amore non esiste. È un mondo che ruota attorno all’egocentrismo di un uomo
d’affari proiettato e concentrato tutto sulla bellezza, sulla ricchezza, sull’eros
e sul divertimento: le sue virtù cardinali. Fin da giovane, infatti, aveva
stilato il suo programma. Come Dio aveva consegnato le tavole a Mosè, Harvey si
autoconsegna i propri dieci comandamenti che sono l’antitesi di quelli giudaico
cristiani: tranne uno: non uccidere. La disanima della propria esistenza –
complice la moglie Shanti – nell’ottantesimo giorno del suo compleanno si
convertirà in un’autoassoluzione. Shanti tuttavia non può credergli, né potrà
cedere nelle proprie convinzioni. Infatti lo incolperà del fratricidio: “Tu sei un peccatore sacrilego – gli
rinfaccerà – e un accanito mentitore. Tu
sei l’assassino di tuo fratello Gerald. Confessa il tuo delitto e subisci la
tua condanna. Ti attende l’inferno. Tu sei maledetto”. Ecco da dove sgorga
l’antagonismo della moglie e il desiderio di Harvey di ridurne il valore e le
qualità. Perché Shanti, oltre che demone, è pure angelo. E l’angelo non ama né
malvagità né menzogna. Sebbene fra le ultime battute del romanzo si intraveda come
uno spiraglio di confessione, l’autodafè, che ne consegue, viene però
immediatamente eliminata, perché i fatti devono per forza essere subordinati
alla rama dei Russel. Pur tuttavia, quelle parole della moglie, nonostante si
scontrino con la boria connaturata di Harvey – un lascito degli insegnamenti
del padre Kristopher – lo sconvolgono momentaneamente, lo fanno scivolare in un
subitaneo delirio, dal quale comunque uscirà ancora una volta vittorioso e “puro”. Shanti, apparsagli come un mostro
diabolico, una specie di arcangelo Gabriele interprete della potenza di Dio,
ritornerà ad essere una pedina nelle sue mani, una delle tante, da spostare
sulla scacchiera della vita a favore del nipote Reginald, probabile vero erede
della sua filosofia edonistica. Giunto al suo ottantesimo compleanno, con l’introspezione
finale causata da una serie di circostanze che lo assillano lungo il corso
della giornata, la sua coscienza lo tormenta fino a renderlo quasi folle.
Vaneggia. E in un climax di crescente delirio viaggia nuovamente a ritroso nel
tempo. Ricorda di essersi sentito insidiato nella propria primogenitura dalla
nascita del fratello Gerald. “Tutto è
successo a seguito della morte di mamma Adelaide. La vecchia ha lasciato un
testamento in mano a Gerald. Ah, cazzo: in mano a Gerald, e non in mano sua,
per dio! Ma chi è il figlio maggiore? Lui o quel mentecatto di Gerald? (…) Un
affronto inaccettabile.” Eppure non è solo questione di primogenitura.
Harvey deve primeggiare in tutto. E’ questo il suo supremo comandamento. Tutto
deve stare ai suoi piedi, ai suoi comandi. D’accordo, Gerald non è l’innocente
Abele, ma come Abele è un potenziale rivale. E soprattutto è l’erede preferito.
Dio aveva scelto Abele, mamma Adelaide ha preferito Gerald. Così in un
conflitto a fuoco durante un’azione terroristica “Harvey si volta di scatto e inizia a sparare. C’è suo fratello sulla
linea di fuoco. La cascata di proiettili lo raggiunge in pieno. Harvey vede gli
schizzi del sangue del fratello, i brandelli delle vesti, la carne strappata
(…) Oh, mio dio che ho fatto! Mio dio che ho fatto! Harvey si impone di
bruciare la memoria del suo fratricidio. Come il dermatologo cauterizza la
pelle, lui si brucia l’anima (…)” Si
autoconvince di non essere come Caino. Gerald è morto per disgrazia. Cerca di
autoassolversi. Si proclama onesto peccatore. Lui è il sacerdote della
ricchezza. E solo questa ha seguìto, secondo la dottrina del padre Kristopher,
che sapeva parlare con gli angeli e coi demoni e che Harvey trasmetterà al
nipote Reginald, il quale, se dimostrerà di sapere adorare la ricchezza, potrà
parlare con gli angeli e coi demoni, “come
è nella rama dei Russel.” Così termina il romanzo. La vicenda di questo
tycoon, non nuovo ai nostri occhi e che potrebbe incarnare volti e nomi
conosciuti, getta in uno sprazzo finale di prolessi l’accento su quello che è
il suo testamento e quella che sarà la sua eredità: la continuazione del male
sul bene, della prepotenza sull’umiltà, del possesso sulla povertà. La
cattiveria ha partorito se stessa e Caino si ergerà beffardo ripetendo “non sono certo io il custode di mio
fratello”. Quello cattivo,
naturalmente.
Enea Biumi
Enea Biumi
lunedì 17 giugno 2019
"La taverna di Yannis" di Adelfo Maurizio Forni, Genesi Editrice, Torino, 2019
Di primo acchito ho definito “La
taverna di Yannis” di Adelfo Maurizio Forni un romanzo emozionante e che
emoziona. Più analiticamente vedo in queste pagine la trama di un destino che
accomuna e coinvolge uomini e avvenimenti apparentemente lontani e diversi ma
uniti nella conquista del Bene. Ho volutamente scritto con la lettera maiuscola
il Bene, perché nella mente dei protagonisti – e dell’Autore immagino – il Bene
è qualcosa di superiore, di trascendente, che va oltre l’appagamento materiale
hic et nunc. Anche la Storia, quella destinata ad essere letta e studiata sui
testi scolastici, pur nelle sue brutture e bestialità, tra guerre, tradimenti,
violenze e massacri, è destinata alla fine a ricomporsi, a reinquadrarsi in una
visione direi quasi manzoniana dove anche il male è permesso per uno scopo
decisamente positivo. Certo, Manzoni parlava di Provvidenza. Laicamente
pensando, la storia, almeno per chi vi crede, è un viaggio verso un progresso,
verso un mondo indubbiamente migliore. Per alcuni è pure magistra vitae. “La
taverna di Yannis” testimonia questo assioma. Il racconto nasce dall’incontro
casuale tra una coppia italiana ed una greca, alla taverna di Yannis, appunto,
e il flashback che ne consegue è la ricostruzione di un periodo che va dagli
anni quaranta del secolo scorso ai nostri giorni. Vi si legge l’invasione della
Grecia da parte dell’esercito italiano, la lotta partigiana del popolo greco e
del popolo italiano, le miserie e le distruzioni della guerra, la ricostruzione
difficile e faticosa, il sessantotto, la dittatura dei colonnelli, il boom
economico. Il tutto attraverso l’occhio di tre generazioni intente a costruirsi
il proprio futuro di certezze e solidità. Lo sfondo naturale è in prevalenza quello
della Grecia con le sue isole, il suo mare, il verde dei suoi pascoli, ma non
mancano accenni al paesaggio brianzol lombardo, nonché alla vastità del cielo
stellato, spesso ricorrente nei momenti clou del racconto. Lo sfondo invece storico,
come detto, è la seconda guerra mondiale con l’occupazione italiana di Samos e
la successiva venuta delle truppe tedesche. Dopo l’8 settembre del ‘43, così narra
la storia ufficiale, le cose si complicano per l’esercito italiano in Grecia.
Chi non vuole sottomettersi al comando tedesco verrà ucciso o deportato. Non
resta che fuggire, se possibile, o nascondersi, o entrare nei gruppi partigiani
locali. Ma l’altra storia, quella ufficiosa, quella della gente comune,
racconta che un sergente italiano (Giorgio) ebbe salva la vita grazia ad una
ragazzina (Eleni) che, a sua volta, quando ancora l’esercito italiano era l’invasore,
fu aiutata dallo stesso militare. Due esistenze, così differenti e lontane,
direi quasi opposte, si incrociano in una specie di diafora spirituale riproducendo
in nuce il destino di un mondo, oppresso dalla guerra, che si attorcigliava
inesorabilmente su se stesso senza via d’uscita. Ma quelle due vite, incrociatesi
quasi per caso e fortunatamente simpatetiche l’una con l’altra, furono l’inizio
del prevalere del Bene sul male. Non sto a raccontare gli avvenimenti
successivi per non togliere al lettore il gusto della lettura. Mi piace invece
sottolineare l’atmosfera emotiva che dà l’abbrivio alla narrazione. Siamo
trasportati come davanti ad uno schermo cinematografico – ed è lo stesso Forni
che ci suggerisce la chiave interpretativa – dove a “fare” la storia non sono
solo i potenti ma, Manzoni docet, gli umili e gli anti eroi. Si tratta di una sceneggiatura
in cui le cose nella loro successione diacronica e, in special modo all’inizio,
convulsa e frenetica, ci disvelano scenograficamente che la bellezza dell’uomo
non è quella esteriore, bensì interiore. I personaggi del romanzo, al di là
della loro collocazione geografica od economica, possono essere i nostri nonni
o i nostri padri, i nostri vicini di casa o i compagni di lavoro. Non fa
differenza. Quello che conta sono i loro valori di pace e solidarietà coi quali
hanno convissuto e per i quali si sono sacrificati, pur nelle mille
contraddizioni che la vita, o il destino, ha procurato loro. Nella certezza che
nulla è stato fatto invano e che tutto, alla fine, sarà ricomposto in un unico
e grande abbraccio fraterno, perché “il cuore è la cosa più importante”. Da non
dimenticare.
giovedì 13 giugno 2019
martedì 11 giugno 2019
lunedì 10 giugno 2019
Massimo Scrignòli “Lupa a Gennaio” (Book Editore, 2019)
E’ René Char ad aprire il tracciato in epigrafe di un suono
che accosta amore e poesia. Nuova stagione è poi davvero quella che Massimo
Scrignòli inaugura con un volume di prose poetiche temperate dalla robustezza
dell’afflato metafisico, “Lupa a Gennaio”. Muove il testo, deflagra
l’improvviso; domina l’assenso un indicibile riemerso quasi fosse un libro
dell’inquietudine. Anche noi, così, scendiamo in apparente rilascio, là dove
frammenti di tuono aprono scenari di amori inattesi, perturbanti. Da subito
risuonano, nei testi di Scrignòli, i rimandi agli autori frequentati e
interpretati: Char e Pound, Celan e Kafka, ma anche Dante. Le tracce notturne
sono enucleate quasi a ridosso di una prosa in brevi quadri sospesa,
raffigurata in intagli di raffinatissima perizia. Che conforto, a fronte di una
miriade di proposte vacillanti e anoressiche catalogate come estri del
dicibile, scorrere una traccia letteraria fieramente capace di dirsi
concettuale, profonda ma mai oscura, filosofica, propriamente ontologica. Gli
elementi materici, le cose, gli enti accolgono il lettore in una purezza
d’intendimenti che non può però escludere la precisa consapevolezza che
l’essere dell’ente non è un altro ente. “L’eclissi ha qualche cosa che riguarda
il bosco: è l’ingresso docile degli occhi nella neve oscura”; riguarda il
nostro senso estremo per la sensualità degli elementi, la percettibilità delle
variazioni e degli indugi. Una fisicità astratta ricompone il divenire
interpretabile non contraddittorio ma problematico; così come problema è il
mutare all’interno di un’esattezza nominata in quanto colore che si fa nome. Un
infrascritto ereo, quasi contenitore arcaico sprigionante domande abissali e
ansiti costieri. E ancora la tonalità cromatica del blu si accosta ad ombre e
presenze “là dove il cielo non è più cielo”, e così la parola sa discernere nel
non morire. Il depistaggio è complice, l’erranza fattuale attraverso la
duplicità del testimone, sensibile scolta di uno svago adulto, di una
consistenza intellettuale. Massimo Scrignòli proviene da linee del fuoco e
libri d’acqua; osa la dicitura compatta del brano che nella visibilità breve
distende lo spazio adeguato della prosa d’arte, della nominale intenzione
diretta al nucleo fondante del reale. Le acque della Senna, nelle quali Paul
Celan si gettò in una notte d’aprile del 1970, assumono il senso sacrale del
sacrificio devastante; si fanno, appunto, “ammutolite” ma, nello stesso tempo,
ritornanti, le stesse “per concessione suprema di Eraclito”. Indicibile
l’afflato panico riemergente dai vessilli di ciò che non deturpa il ripetibile,
l’avamposto decifrato dal lessico ermeneutico. L’evento e il rimedio
significano le cose. Davvero ritroviamo nell’opera di Massimo Scrignòli ciò che
disse in passato lo stesso Char: “Possiamo vivere solo sul semiaperto,
esattamente sulla linea ermetica di spartizione tra l’ombra e la luce. Ma siamo
irresistibilmente proiettati in avanti”.
Andrea Rompianesi