domenica 20 agosto 2023

Franco Buffoni, Invettive e distopie, Interlinea, Novara, 2023


 Ancora una volta Franco Buffoni ci conduce attraverso un viaggio nel tempo. Se nel “Profilo del Rosa” il percorso era dettato da un reisebilder che andava dall’infanzia all’età adulta, ruotando in luoghi geografici della memoria, in queste pagine l’autore ci accompagna più esplicitamente nel mondo e nella storia della letteratura con alcuni scrittori tra i più rappresentativi, registrando episodi, lettere, testimonianze che ne rivelano peculiarità e significatività: il tutto senza dimenticare il loro rapporto e apporto con la realtà  contemporanea, sia letteraria che sociale.

I poeti e gli scrittori qui rappresentati sono colti nei loro passaggi più squisitamente indicativi in concomitanza con gli avvenimenti della loro vita. Buffoni indaga lo spirito, talvolta inespresso, che ha indotto alcuni letterati ad assumere determinati atteggiamenti e precise prese di posizione. Non per nulla l’Editore nella Prefazione parla di poetica. Una poetica certo che si concretizza nella vita degli autori stessi, una poetica rivisitata tramite gli scrittori rappresentati, una poetica sicuramente specchio e riflesso di quella di Franco Buffoni.

Si tratta di una importante operazione culturale che l’autore ci offre in maniera piana, spesso ironica, a volte sarcastica, in una ripresa di storiche invettive e distopie (o cacotopie) che vanno ad aggiungersi alle informazioni che, a livello scolastico, già sono presenti nel lettore medio. È un approfondimento necessario, e direi dovuto, per meglio comprendere il mondo della letteratura sviluppatosi in occidente e allo stesso tempo è un ritratto dell’uomo che con la sua malvagia ignoranza uccide l’arte o la deturpa in nome di arcaiche e inconsce sottomissioni a fedi, religioni, superstizioni e gestioni scandalosamente incompetenti. La storia, ci rivela Buffoni, abbonda di tutto ciò. Numerose sono le ingiustizie dovute a classificazioni razziste, misogine e omofobe degenerate in roghi, carcerazioni, deportazioni, a causa di pregiudizi sociali, religiosi, politici. Il primo capitolo (Su Dante, Cecco, Marsilio. E Lorenzo) ne è una testimonianza esplicita.

Cecco d’Ascoli, ovvero Francesco Stabili, arso vivo nel 1327 a Firenze per le sue opere, aveva osato criticare, o lanciare invettive - per stare al titolo del libro - contro Dante, reo di non aver usato la Ragione, bensì la pietas. La diatriba nata nel lontano Medioevo permette a Buffoni di parlare dell’oggi, e di quel clima culturale che ha imposto nelle scuole ideologicamente Dante e Manzoni generando “Padre Pio nel portafoglio e il Gratta e vinci in mano”.

Mi permetto, a questo punto, (non me ne voglia l’autore) una mia personale esperienza nel mondo scolastico, avendo io stesso assistito ad uno svenimento culturale – simbolico naturalmente – di un Preside quando, da insegnante di italiano alle Superiori, ho osato proporre l’abbandono dei Promessi sposi sostituendolo con Il nome della rosa.

Ecco la distopia, già rilevata da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis in cui insegnava “che la codificazione delle religioni rivelate, con i loro dogmi, era strumentale alla necessità di controllare, attraverso le coscienze, i comportamenti da mettere in atto nella vita civile, tenendo menti e coscienze in soggezione”.

Mi sovvengono, a tal proposito, madonne pellegrine e politici col rosario in mano. Ma rimaniamo nel contesto del libro e ai vari esempi che l’autore imposta sul binario delle invettive e delle distopie.

Riconducendosi storicamente al significato etimologico di distopia, Buffoni richiama John Stuart Mill, che usò questo termine al parlamento di Westimster, e ricorda Tommaso Moro che aveva coniato il vocabolo utopia (in nessun luogo ovvero luogo inesistente). L’accenno gli serve per spiegare quale sia il “tratto distintivo profondo tra una narrazione utopica  e una narrazione distopica” che consiste principalmente, per quanto riguarda il testo utopico, in una forma saggistica dispiegantesi “su un amplissimo arco cronologico (appunto dalla Repubblica di Platone a Thomas More, Campanella, Bacone)”, mentre quello distopico “tende ad essere narrativo, pure fiction, ed è concentrato nell’Ottocento-Novecento, post rivoluzione industriale fino ai totalitarismi e alle scoperte scientifiche lette in chiave disumanizzante e fantascientifica”.

Ogni capitolo di questo saggio è un alternarsi tra elementi che fungono da invettiva e tratti di conclamata distopia.

Interessante, a questo proposito, è sicuramente il raffronto tra Parini e a Leopardi. Il trait d’union che li lega è una talare. Sappiamo tutti il perché della vocazione sacerdotale dell’aio lombardo e il rifiuto categorico del buon Giacomino di farsi prete disubbidendo alla volontà paterna. La talare diventa così il pretesto per raccontare la Milano aristocratica settecentesca e la sua originale e sontuosa architettura, come quella del Palazzo Castiglioni, o di casa Rasini e di casa Fontana Silvestri. Nello stesso tempo la talare induce l’autore a soffermarsi sugli amori tra Leopardi e Ranieri, nonché sulla viltà di quest’ultimo che finge di non sapere “la ragione per cui Leopardi cercava uomini giovani e scugnizzi che poi compensava con avarissime mance.”

Non mancano, tra l’altro, approfondimenti di autori stranieri tra i quali possiamo annoverare Ada Augusta Lovelace, figlia di Byron, la cui scrittura, afferma Buffoni, è dotata di una “brillantezza di stile: accattivante, acuto, intelligente.” La presentazione della figura di Ada Augusta Lovelace dà occasione all’autore di raccontare la particolare passione di Byron verso ragazzi e giovani uomini, passione, si direbbe oggi liaison gay, velata da un matrimonio di convenienza. Per questo i Journals, in cui Byron raccontava senza reticenza la sua vita privata, vennero distrutti. “Il risultato” – commenta Buffoni – “fu un vero e proprio crimine commesso nei confronti della letteratura”.

Tuttavia le invettive non riguardano solo il mondo letterario. O meglio, analizzare il mondo letterario non significa isolarlo in una campana di vetro. Il letterato, l’artista, il poeta vivono in tempi e luoghi ben precisi entro i quali si battono e dibattono. Ecco allora che la scrittrice Mary Ann Evans è costretta, a causa di un’imperante misoginia, ad assumere uno pseudonimo maschile: George Eliot. La sua opera fu anche una battaglia contro la ristrettezza morale e l’ipocrisia della nobiltà agricola inglese. Dopo la sua morte il movimento di emancipazione femminile si rafforzò fino a sfociare nel 1897 nel National Union of Women’s Suffrage. Si tratta di una interessante annotazione storica che ci riconduce alla nascita delle cosiddette suffragette.

La storia, questa volta italiana, ritorna tra le pagine del libro con i poeti Elizabeth Barret Browning e Robert Browning, giunti in Toscana dalla nebbiosa Albione. Viene descritta la passione di Elizabeth per la libertà e conseguentemente la sua adozione delle problematiche risorgimentali italiane (dalla guerra d’indipendenza, alla morte di Anita Garibaldi e del Conte Camillo Benso di Cavour). Rilevante è pure l’annotazione riguardante il suo amore verso il marito, a dispetto di un padre arcigno ed egoista: “un amore totale, concreto assoluto, per il giovane marito, con l’espressione della più pura astrazione romantica”.

Come si nota facilmente lo sguardo che Buffoni rivolge ai poeti non è mai a se stante, distolto cioè da problematiche apparentemente lontane dalla letteratura. La vita letteraria è indissolubilmente intrecciata con la realtà, che l’autore indaga ed analizza utilizzando anche alcuni momenti personali da lui dedicati a conferenze, interviste, amicizie.

Nel capitolo consacrato al confronto tra Ibsen e Osborne, ad esempio, dove si narra di un incontro tenuto con i maturandi gallaratesi, ci viene offerto uno spaccato della società italiana che solo nel 1975 ha raggiunto la parità tra uomo e donna, ancora purtroppo non completamente accettata visto i numerosi femminicidi che si susseguono a regolarità impressionante. Mi sovviene a tal proposito l’amore tra Coppi e la Dama bianca, l’uno tranquillamente libero e applaudito, l’altra reclusa e dileggiata al pari di una prostituta.

Naturalmente la conoscenza che l’autore ha della letteratura anglosassone e nord europea, nonché la sua attiva presenza nel mondo della traduzione, lo conduce ad un ampio panorama di nomi: fra questi possiamo ricordare Virginia Woolf, Osborne, Ibsen, Yeats, Forster, Seamus Heaney, Pound, tra i più rappresentativi. E in questa rassegna diventa notevole il lavoro riguardante la collocazione storico geografica degli stessi. Degna di nota, in questa prospettiva, è la ricostruzione dell’iter faticoso e tortuoso che si è avuto nell’Inghilterra, dal settecento ad oggi, a proposito delle leggi sull’omosessualità (definita primariamente con grande dispregio sodomia).

Nello stesso tempo Buffoni non dimentica gli artisti italiani che hanno contribuito a sprovincializzare la nostra letteratura. Fra i loro nomi non possiamo dimenticare Fernanda Pivano, Pasolini, De Mauro. E accanto a questi personaggi noti, l’autore registra poeti dimenticati o misconosciuti, come il palermitano Lucio Piccolo, cugino del più famoso Tomasi di Lampedusa. A lui, e ad altri poeti suoi conterranei, come Sinisgalli, Bodini, Matacotta, Lorenzo Calogero, mancò un critico, sottolinea Buffoni, come l’Anceschi che “li catalogasse e antologizzasse già negli anni cinquanta”, vale a dire “un accorto sistematizzatore, un filosofo dell’estetica in grado di definirli”. Tra loro Piccolo fu il più fortunato perché incontrò l’ammirazione di Montale, “ma gli altri sono rimasti quasi sistematicamente nell’ombra”.

Molto avvincenti sono le pagine in cui l’autore si espone maggiormente come persona più che come studioso letterato. Mi riferisco in particolare al capitolo “Sereni e mio padre” che parte subito da una confessione: “in lui (in Sereni) vedo mio padre.” Forse per questo il poeta di Luino è stato per Buffoni un maestro, colui che ha inciso maggiormente il suo percorso poetico. E ancora una volta l’opera poetica non viene scissa dalla vita. Sereni, tenente di fanteria, che si trova ad affrontare una guerra sbagliata dalla parte sbagliata, fatto prigioniero in Nord Africa, racconta in versi il dramma di un uomo a disagio col proprio tempo, umiliato e distrutto. Non si tratta solo di una recensione all’opera del poeta luinese, bensì di una dichiarazione d’amore e di stima, così come deve essere il rapporto fra padre e figlio: un riconoscimento dovuto, un omaggio agli insegnamenti ricevuti.

Un altro aspetto sicuramente importante è il pensiero di Buffoni a proposito del tradurre. La traduzione, d’accordo, fa parte della sua professionalità, ma sono sicuramente da non trascurare al riguardo le tante annotazioni sistematiche che disvelano la puntigliosità e la fatica del suo operare. Ci sono capitoli considerevoli che riportano pareri e confronti, come ad esempio le pagine che parlano di Luciano Bianciardi dove viene sottolineato che “per tradurre da una ex lingua di Chaucer e di Shakespeare nella ex lingua di Petrarca e Tasso (…) occorrono l’incontro poietico e la concezione del movimento della lingua nel tempo; e soprattutto occorre avere costantemente presente il concetto di stratificazione del linguaggio.” Naturalmente il riferimento a Bianciardi è un momento tra i tanti in cui l’autore esprime il proprio parere e la propria poetica. Non posso in questa sintesi riportare tutto, ma una segnalazione su due punti altrettanto necessari mi è d’obbligo. Uno è il richiamo al pensiero di Céline, sempre riguardante la traduzione, l’altro ad una personale riflessione sulla propria “ritraduzione” di Seamus Heaney con l’avvertenza finale che chiosa: “L’importante è che – complessivamente – la traduzione che in quel particolare giorno si è compiuta sia coerente, risponda a un ritmo autentico, possegga una intonazione profonda.”

Quanto specificato corrisponde pienamente anche alla poetica di Buffoni che trova ampie spiegazioni nel capitolo “Pasolini e Byron: questioni di poetica” nonché in “Piero Chiara: per una questione di poetica” dove ricompare la figura di Anceschi, che con la collaborazione di Chiara ed Erba mette in piedi una Antologia “Quarta generazione” riguardante giovani poeti di allora quali, tra gli altri, Zanzotto, Spaziani, Cattafi, Merini. In queste pagine si registra – almeno io la sento così, e mi scuso se interpreto male – una sottile polemica da parte dell’autore nei confronti di Piero Chiara che pare avere una certa “commiserazione” per i poeti contemporanei, perché in sostanza le attenzioni del romanziere di Luino erano tutte rivolte alla narrativa e non tanto alla poesia. Ciò è dimostrato dal fatto che lo scrittore del Piatto piange, quando fu invitato a presiedere il Premio Tirinnanzi privilegiò l’anonimato e la singola poesia, piuttosto che la silloge con nome e cognome. Aveva abbandonato in tal modo le indicazioni del dedicatario del futuro premio, che prevedevano invece una scelta tra i migliori libri di poesia editi nell’annata, contraddicendo pure la poetica anceschiana che affermava che un poeta doveva essere valutato nel suo complesso e non su una singola poesia.

In definitiva, le tante pagine, che non ho ricordato per motivi di spazio, le tante osservazioni, i tanti modelli critici di poeti, romanzieri, saggisti, i tanti avvenimenti citati e presenti in Invettive e distopie aprono un mondo e un modo di fare letteratura che possiede potenzialità da non sottovalutare. Si tratta, in sostanza, di un’amplissima gamma con cui confrontarsi e da confrontare in un fondamentale passaggio storico-culturale, tutto da assaporare e rimeditare in continuazione per un arricchimento dello spirito, laicamente inteso.

 

Enea Biumi

Franco Buffoni, Il profilo del Rosa, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2023


 

Il profilo del Rosa è un viaggio nel tempo, un reisebilder a ritroso, in cui l’autore rievoca luoghi e situazioni del suo vissuto, senza però abbandonarsi a sterili ed inutili sentimentalismi. Anzi. I versi non sono altro che un racconto introspettivo della propria esperienza di crescita e di maturità. Nulla di nostalgico. Niente rimpianti. Nessuna lamentela sul passato. Solo un percorso che richiama luoghi frequentati e particolari situazioni.

                                                           E io che vivo da ottant’anni quasi

                                                           È stata vita dico alzando le braccia,

                                                           Sotto di me e sotto la mia barca

                                                           Le trote oscillano guizzano tra i cardi

                                                           Discendono allo scafo azzurro capovolto,

                                                           Verso già capofitto il mio contrario

                                                           A due tre metri.

Premesso ciò, è chiaro che la silloge diventa un’interessante fotografia entro la quale il poeta si riflette e si rivede, bambino, adolescente, adulto attraverso anfratti di paesaggi, dettagli domestici, echi letterari. Di per sé è una panoramica di vita che sancisce le caratteristiche di un esame e che ripropone, in chiave poetica, un mondo che sta a metà tra l’immagine della grandezza della natura – evidente in questo caso la metafora del Rosa – e l’esistenza quotidiana dominata da oggetti che ricorrendosi e rincorrendosi nel tempo assumono connotati differenti.  I versi inziali offrono l’incipit di quello che avverrà poi.

Una radice ha rotto il vaso

Nell’atrio della casa riaperta

La pianta è sempre stata bagnata

Dal vetro rotto dal vento.

Nel ritornare all’antica abitazione il poeta scopre che qualcosa si è rotto (il participio del verbo rompere è presente due volte in soli quattro versi), ma non completamente, perché la pianta è sempre stata bagnata, quindi la vita nonostante le intemperie è potuta proseguire, sia pure con affanno.

Il viaggio, si sa, (reale o fittizio che sia) è un topos letterario (dall’Ulisse di Omero alla strada di Kerouac) e ha l’attrattiva di una crescita e di una presa di coscienza mano a mano che si avanza e in relazione con chi si incontra e con chi ci si confronta.

Nelle religioni misteriche antiche si otteneva salvezza, e quindi consapevolezza, dopo aver percorso le vie più impervie e pericolose cha annullavano la personalità del neofita. Era necessario conoscere il male per poi rinascere nel bene. Ne abbiamo un esempio significativo nella Commedia di Dante, o ancora nella più divertente novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia che per capire la realtà deve prima cadere dal chiassetto per poi precipitare nel pozzo e rimanere chiuso in un sepolcro.

Ma dove sta il male in questo profilo del Rosa che apparentemente non ha nulla a che spartire con le cadute e l’annientamento di se stessi prima di una definitiva risurrezione? Bisogna leggere questi versi come un incatenarsi di tanti rimandi, una serie di metonimie o metafore che collegano il luogo al sentimento. Se Montale utilizzava il correlativo oggettivo per spiegare (o meglio per tentare di spiegare) il male di vivere, Buffoni impiega parametri di implicita diairesi.

                                Me ne nutro, ci sguazzo in questa faccia

Ancora da ragazzo che mi vedono, e agglutino

Nel sacco insieme a un cane e a un gallo,

Senza vipera e serpente.

Non ho ucciso niente.

Certo è che il viaggio non è lineare o senza ostacoli. Non lo fu quello di Odisseo né quello di Sal Paradise. Ma non di meno gli ostacoli che si frappongono contribuiscono a sviluppare una presa d’atto: rinsaldano radici, rafforzano la consapevolezza dell’io, l’immagine del sé nei confronti dell’altro.

                                               E comincio a riconoscere stagioni

                                               Dalle vene dei mobili, i rumori

                                               Che fanno assestandosi di notte

                                               La temperatura delle ossa

                                               Questione di coperte e di verande.

Si tratta in sostanza di un Bildungsroman in versi, che si snoda attraverso rivelazioni sapientemente correlate ad avvenimenti quotidiani che diventano ipso facto testimoni del vissuto del poeta. Sembra un incontro con un armonicista in grado di accordare strumenti diversi per intonarli all’unisono in uno spettacolare assolo esemplare.

La sinfonia che ne sorte ha l’andamento simile al poema musicale Eine Alpensifonie di Richard Straus: un inizio quasi in sordina che si avvia poco a poco, e senza che noi ce ne accorgiamo, ad esaltarci con la sua potenza e maestosità. La maestosità delle Alpi, per l’appunto – o del Rosa nel nostro caso – e in generale della natura.

Il desiderio di orchestrare i ricordi diventa allora come un polittico che si apre e si chiude a seconda delle occasioni e che fa intravedere alcune specificità, disvelando chiari e scuri, che racchiudono ricchezze da esplorare o commentare. 

                                               Come un polittico che si apre

                                               E dentro c’è la storia

                                               Ma si apre ogni tanto

                                               Solo nelle occasioni,

                                               Fuori invece è monocromo

                                               Grigio per tutti i giorni,

                                               (…)

            In definitiva il polittico assume il valore della metafora della vita: una sorta di finestra donde guardare avvenimenti e persone, ed esplicitare sentimenti, desideri, angosce, dubbi, storicizzando come in un diario intimo i momenti salienti che ci hanno permesso di crescere e maturare.

                                  

Enea Biumi