Ancora una volta Franco Buffoni ci conduce attraverso un viaggio nel tempo. Se nel “Profilo del Rosa” il percorso era dettato da un reisebilder che andava dall’infanzia all’età adulta, ruotando in luoghi geografici della memoria, in queste pagine l’autore ci accompagna più esplicitamente nel mondo e nella storia della letteratura con alcuni scrittori tra i più rappresentativi, registrando episodi, lettere, testimonianze che ne rivelano peculiarità e significatività: il tutto senza dimenticare il loro rapporto e apporto con la realtà contemporanea, sia letteraria che sociale.
I
poeti e gli scrittori qui rappresentati sono colti nei loro passaggi più
squisitamente indicativi in concomitanza con gli avvenimenti della loro vita.
Buffoni indaga lo spirito, talvolta inespresso, che ha indotto alcuni letterati
ad assumere determinati atteggiamenti e precise prese di posizione. Non per
nulla l’Editore nella Prefazione parla di poetica. Una poetica certo che
si concretizza nella vita degli autori stessi, una poetica rivisitata tramite
gli scrittori rappresentati, una poetica sicuramente specchio e riflesso di
quella di Franco Buffoni.
Si
tratta di una importante operazione culturale che l’autore ci offre in maniera
piana, spesso ironica, a volte sarcastica, in una ripresa di storiche invettive
e distopie (o cacotopie) che vanno ad aggiungersi alle informazioni che, a
livello scolastico, già sono presenti nel lettore medio. È un approfondimento
necessario, e direi dovuto, per meglio comprendere il mondo della letteratura
sviluppatosi in occidente e allo stesso tempo è un ritratto dell’uomo che con
la sua malvagia ignoranza uccide l’arte o la deturpa in nome di arcaiche e
inconsce sottomissioni a fedi, religioni, superstizioni e gestioni
scandalosamente incompetenti. La storia, ci rivela Buffoni, abbonda di tutto
ciò. Numerose sono le ingiustizie dovute a classificazioni razziste, misogine e
omofobe degenerate in roghi, carcerazioni, deportazioni, a causa di pregiudizi
sociali, religiosi, politici. Il primo capitolo (Su Dante, Cecco, Marsilio.
E Lorenzo) ne è una testimonianza esplicita.
Cecco
d’Ascoli, ovvero Francesco Stabili, arso vivo nel 1327 a Firenze per le sue
opere, aveva osato criticare, o lanciare invettive - per stare al titolo del
libro - contro Dante, reo di non aver usato la Ragione, bensì la pietas.
La diatriba nata nel lontano Medioevo permette a Buffoni di parlare dell’oggi,
e di quel clima culturale che ha imposto nelle scuole ideologicamente Dante e
Manzoni generando “Padre Pio nel portafoglio e il Gratta e vinci in mano”.
Mi
permetto, a questo punto, (non me ne voglia l’autore) una mia personale
esperienza nel mondo scolastico, avendo io stesso assistito ad uno svenimento
culturale – simbolico naturalmente – di un Preside quando, da insegnante di
italiano alle Superiori, ho osato proporre l’abbandono dei Promessi sposi
sostituendolo con Il nome della rosa.
Ecco
la distopia, già rilevata da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis
in cui insegnava “che la codificazione delle religioni rivelate, con i loro
dogmi, era strumentale alla necessità di controllare, attraverso le coscienze,
i comportamenti da mettere in atto nella vita civile, tenendo menti e coscienze
in soggezione”.
Mi
sovvengono, a tal proposito, madonne pellegrine e politici col rosario
in mano. Ma rimaniamo nel contesto del libro e ai vari esempi che l’autore
imposta sul binario delle invettive e delle distopie.
Riconducendosi
storicamente al significato etimologico di distopia, Buffoni richiama John
Stuart Mill, che usò questo termine al parlamento di Westimster, e ricorda
Tommaso Moro che aveva coniato il vocabolo utopia (in nessun luogo ovvero
luogo inesistente). L’accenno gli serve per spiegare quale sia il “tratto
distintivo profondo tra una narrazione utopica
e una narrazione distopica” che consiste principalmente, per quanto
riguarda il testo utopico, in una forma saggistica dispiegantesi “su un
amplissimo arco cronologico (appunto dalla Repubblica di Platone a Thomas More,
Campanella, Bacone)”, mentre quello distopico “tende ad essere
narrativo, pure fiction, ed è concentrato nell’Ottocento-Novecento, post
rivoluzione industriale fino ai totalitarismi e alle scoperte scientifiche
lette in chiave disumanizzante e fantascientifica”.
Ogni
capitolo di questo saggio è un alternarsi tra elementi che fungono da invettiva
e tratti di conclamata distopia.
Interessante,
a questo proposito, è sicuramente il raffronto tra Parini e a Leopardi. Il trait
d’union che li lega è una talare. Sappiamo tutti il perché della vocazione
sacerdotale dell’aio lombardo e il rifiuto categorico del buon Giacomino di
farsi prete disubbidendo alla volontà paterna. La talare diventa così il
pretesto per raccontare la Milano aristocratica settecentesca e la sua originale
e sontuosa architettura, come quella del Palazzo Castiglioni, o di casa Rasini
e di casa Fontana Silvestri. Nello stesso tempo la talare induce l’autore a
soffermarsi sugli amori tra Leopardi e Ranieri, nonché sulla viltà di
quest’ultimo che finge di non sapere “la ragione per cui Leopardi cercava
uomini giovani e scugnizzi che poi compensava con avarissime mance.”
Non
mancano, tra l’altro, approfondimenti di autori stranieri tra i quali possiamo
annoverare Ada Augusta Lovelace, figlia di Byron, la cui scrittura, afferma
Buffoni, è dotata di una “brillantezza di stile: accattivante, acuto,
intelligente.” La presentazione della figura di Ada Augusta Lovelace dà
occasione all’autore di raccontare la particolare passione di Byron verso
ragazzi e giovani uomini, passione, si direbbe oggi liaison gay, velata
da un matrimonio di convenienza. Per questo i Journals, in cui Byron raccontava
senza reticenza la sua vita privata, vennero distrutti. “Il risultato” –
commenta Buffoni – “fu un vero e proprio crimine commesso nei confronti
della letteratura”.
Tuttavia
le invettive non riguardano solo il mondo letterario. O meglio, analizzare il
mondo letterario non significa isolarlo in una campana di vetro. Il letterato,
l’artista, il poeta vivono in tempi e luoghi ben precisi entro i quali si battono
e dibattono. Ecco allora che la scrittrice Mary Ann Evans è costretta, a causa
di un’imperante misoginia, ad assumere uno pseudonimo maschile: George Eliot.
La sua opera fu anche una battaglia contro la ristrettezza morale e l’ipocrisia
della nobiltà agricola inglese. Dopo la sua morte il movimento di emancipazione
femminile si rafforzò fino a sfociare nel 1897 nel National Union of Women’s
Suffrage. Si tratta di una interessante annotazione storica che ci
riconduce alla nascita delle cosiddette suffragette.
La
storia, questa volta italiana, ritorna tra le pagine del libro con i poeti Elizabeth
Barret Browning e Robert Browning, giunti in Toscana dalla nebbiosa Albione. Viene
descritta la passione di Elizabeth per la libertà e conseguentemente la sua
adozione delle problematiche risorgimentali italiane (dalla guerra
d’indipendenza, alla morte di Anita Garibaldi e del Conte Camillo Benso di
Cavour). Rilevante è pure l’annotazione riguardante il suo amore verso il
marito, a dispetto di un padre arcigno ed egoista: “un amore totale,
concreto assoluto, per il giovane marito, con l’espressione della più pura
astrazione romantica”.
Come
si nota facilmente lo sguardo che Buffoni rivolge ai poeti non è mai a se
stante, distolto cioè da problematiche apparentemente lontane dalla
letteratura. La vita letteraria è indissolubilmente intrecciata con la realtà,
che l’autore indaga ed analizza utilizzando anche alcuni momenti personali da
lui dedicati a conferenze, interviste, amicizie.
Nel
capitolo consacrato al confronto tra Ibsen e Osborne, ad esempio, dove si narra
di un incontro tenuto con i maturandi gallaratesi, ci viene offerto uno
spaccato della società italiana che solo nel 1975 ha raggiunto la parità tra
uomo e donna, ancora purtroppo non completamente accettata visto i numerosi
femminicidi che si susseguono a regolarità impressionante. Mi sovviene a tal
proposito l’amore tra Coppi e la Dama bianca, l’uno tranquillamente libero e
applaudito, l’altra reclusa e dileggiata al pari di una prostituta.
Naturalmente
la conoscenza che l’autore ha della letteratura anglosassone e nord europea,
nonché la sua attiva presenza nel mondo della traduzione, lo conduce ad un
ampio panorama di nomi: fra questi possiamo ricordare Virginia Woolf, Osborne,
Ibsen, Yeats, Forster, Seamus Heaney, Pound, tra i più rappresentativi. E in
questa rassegna diventa notevole il lavoro riguardante la collocazione storico
geografica degli stessi. Degna di nota, in questa prospettiva, è la ricostruzione
dell’iter faticoso e tortuoso che si è avuto nell’Inghilterra, dal settecento ad
oggi, a proposito delle leggi sull’omosessualità (definita primariamente con
grande dispregio sodomia).
Nello
stesso tempo Buffoni non dimentica gli artisti italiani che hanno contribuito a
sprovincializzare la nostra letteratura. Fra i loro nomi non possiamo
dimenticare Fernanda Pivano, Pasolini, De Mauro. E accanto a questi personaggi noti,
l’autore registra poeti dimenticati o misconosciuti, come il palermitano Lucio
Piccolo, cugino del più famoso Tomasi di Lampedusa. A lui, e ad altri poeti
suoi conterranei, come Sinisgalli, Bodini, Matacotta, Lorenzo Calogero, mancò
un critico, sottolinea Buffoni, come l’Anceschi che “li catalogasse e
antologizzasse già negli anni cinquanta”, vale a dire “un accorto
sistematizzatore, un filosofo dell’estetica in grado di definirli”. Tra
loro Piccolo fu il più fortunato perché incontrò l’ammirazione di Montale, “ma
gli altri sono rimasti quasi sistematicamente nell’ombra”.
Molto
avvincenti sono le pagine in cui l’autore si espone maggiormente come persona
più che come studioso letterato. Mi riferisco in particolare al capitolo “Sereni
e mio padre” che parte subito da una confessione: “in lui (in
Sereni) vedo mio padre.” Forse per questo il poeta di Luino è stato per
Buffoni un maestro, colui che ha inciso maggiormente il suo percorso poetico. E
ancora una volta l’opera poetica non viene scissa dalla vita. Sereni, tenente
di fanteria, che si trova ad affrontare una guerra sbagliata dalla parte
sbagliata, fatto prigioniero in Nord Africa, racconta in versi il dramma di un
uomo a disagio col proprio tempo, umiliato e distrutto. Non si tratta solo di
una recensione all’opera del poeta luinese, bensì di una dichiarazione d’amore
e di stima, così come deve essere il rapporto fra padre e figlio: un
riconoscimento dovuto, un omaggio agli insegnamenti ricevuti.
Un
altro aspetto sicuramente importante è il pensiero di Buffoni a proposito del
tradurre. La traduzione, d’accordo, fa parte della sua professionalità, ma sono
sicuramente da non trascurare al riguardo le tante annotazioni sistematiche che
disvelano la puntigliosità e la fatica del suo operare. Ci sono capitoli
considerevoli che riportano pareri e confronti, come ad esempio le pagine che
parlano di Luciano Bianciardi dove viene sottolineato che “per tradurre da
una ex lingua di Chaucer e di Shakespeare nella ex lingua di Petrarca e Tasso
(…) occorrono l’incontro poietico e la concezione del movimento della lingua
nel tempo; e soprattutto occorre avere costantemente presente il concetto di
stratificazione del linguaggio.” Naturalmente il riferimento a Bianciardi è
un momento tra i tanti in cui l’autore esprime il proprio parere e la propria
poetica. Non posso in questa sintesi riportare tutto, ma una segnalazione su
due punti altrettanto necessari mi è d’obbligo. Uno è il richiamo al pensiero
di Céline, sempre riguardante la traduzione, l’altro ad una personale
riflessione sulla propria “ritraduzione” di Seamus Heaney con
l’avvertenza finale che chiosa: “L’importante è che – complessivamente – la
traduzione che in quel particolare giorno si è compiuta sia coerente, risponda
a un ritmo autentico, possegga una intonazione profonda.”
Quanto
specificato corrisponde pienamente anche alla poetica di Buffoni che trova
ampie spiegazioni nel capitolo “Pasolini e Byron: questioni di poetica”
nonché in “Piero Chiara: per una questione di poetica” dove ricompare la
figura di Anceschi, che con la collaborazione di Chiara ed Erba mette in piedi
una Antologia “Quarta generazione” riguardante giovani poeti di allora quali,
tra gli altri, Zanzotto, Spaziani, Cattafi, Merini. In queste pagine si
registra – almeno io la sento così, e mi scuso se interpreto male – una sottile
polemica da parte dell’autore nei confronti di Piero Chiara che pare avere una
certa “commiserazione” per i poeti contemporanei, perché in sostanza le
attenzioni del romanziere di Luino erano tutte rivolte alla narrativa e non tanto
alla poesia. Ciò è dimostrato dal fatto che lo scrittore del Piatto piange, quando
fu invitato a presiedere il Premio Tirinnanzi privilegiò l’anonimato e la
singola poesia, piuttosto che la silloge con nome e cognome. Aveva abbandonato
in tal modo le indicazioni del dedicatario del futuro premio, che prevedevano
invece una scelta tra i migliori libri di poesia editi nell’annata,
contraddicendo pure la poetica anceschiana che affermava che un poeta doveva
essere valutato nel suo complesso e non su una singola poesia.
In
definitiva, le tante pagine, che non ho ricordato per motivi di spazio, le
tante osservazioni, i tanti modelli critici di poeti, romanzieri, saggisti, i
tanti avvenimenti citati e presenti in Invettive e distopie aprono un
mondo e un modo di fare letteratura che possiede potenzialità da non
sottovalutare. Si tratta, in sostanza, di un’amplissima gamma con cui
confrontarsi e da confrontare in un fondamentale passaggio storico-culturale,
tutto da assaporare e rimeditare in continuazione per un arricchimento dello
spirito, laicamente inteso.
Enea
Biumi