domenica 13 aprile 2025

Marilyn Bobes, Cancellare il tutto, Genesi Editrice, Torino

 

Lo scrittore e poeta uruguaiano Mario Benedetti, discettando in un breve saggio sulla poesia cubana del secolo XX,(1) annotava – cito parafrasando – come la maledizione consumistica avesse relegato la poesia ad un articolo che non si vende. Di conseguenza gli editori si rivolgono soprattutto al mercato del romanzo, indirizzandogli, e spesso imponendogli, contenuti e forme che non lascino dubbi sul guadagno economico. Di fatto però il povero poeta viene liberato da qualsiasi imposizione, sia ideologica che stilistica, per cui, a questo punto, può riversare la propria sensibilità su ciò che più gli aggrada e gli detta il cuore. Per quanto riguarda la poesia si tratta evidentemente di un fattore positivo. La marginalità, infatti, in cui essa viene rinchiusa le permette una libertà incancellabile e insopprimibile. In questo clima di apparente emarginazione, una specie di borderline letteraria, si situa la silloge poetica “Cancellare il tutto” di Marilyn Bobes, poetessa contemporanea di origine cubana. Sottolineo l’aggettivo apparente e il termine emarginazione, perché ad una disamina più approfondita i suoi versi appaiono come tante frecce destinate a imporsi in un panorama culturale più esteso e ricco. Versi “pesanti” i suoi: e “pensanti”. Pesanti perché affondano nelle radici più profonde del nostro essere uomini. Pensanti perché creano un circuito di situazioni, domande e riflessioni che non lasciano spazio al pressapochismo o all’adiaforia. “Né tu né io sappiamo / cosa c’è / dietro i suoni imprevedibili del crepuscolo. / Noia? / Sterilità?” “Perché salire di quota / in un verso strisciante / come la spiritualità / dei tuoi contemporanei?” “Da tutte le parti echi / nei vicoli in rovina / di questa piazza assediata”. Mi sembra quasi di assistere a quelle partiture musicali di Edgar Varèse o Luigi Nono che nel disordine delle note richiamano l’ordine delle cose. La comunicazione pertanto diviene più intensa ed emotivamente certa, confluendo e affluendo nel vasto e misterioso mondo della poesia. Non è difficile notare come in ogni verso si respiri un senso di libertà, un desiderio di emancipazione da ogni struttura soffocante la propria personalità, una voglia di resilienza ad ogni tipo di costrizione e sottomissione. “Non li convincerai / con pochi / sintagmi / vinti / dall’abuso”. Non si tratta, attenzione, di mera protesta. La scrittura della poetessa cubana converge in una direzione in cui è necessario apprendere per riconoscere se stessi, per trovare la propria dimensione e identità, per sapere se esista o meno una vocazione cui appellarsi. “Arrenditi ora / all’ipotetica disgrazia / di avermi preso in considerazione”. Insomma, ella chiede e si domanda, anche se nessuno risponde, e risponde e si risponde, sebbene nessuno domandi. “E tu non sei tu / e io non sono io. / Nemmeno / caricature / delle nostre passate / identità”.

“Cancellare il tutto” mi riporta alla mente il finale apocalittico della Coscienza di Zeno, la constatazione che “la vita attuale è inquinata alle radici”, la riflessione sull’uomo occhialuto che costruisce ordigni tali da distruggere ogni cosa perché si possa finalmente ritornare alla salute-salvezza tanto auspicata.(2) La silloge della poetessa cubana suggerirebbe quindi, in un primo momento, di cancellare tutto ciò che è stato, cancellare il male ed il bene, cancellare l’immagine del passato e del futuro, cancellare la storia personale e collettiva, affinché si giunga ad una laica epifania attraverso una rigenerante purificazione totale. “Abbiamo dimenticato / che il mondo è un inferno / ma desideravamo / la possibilità del paradiso / dopo il purgatorio.” Tuttavia, al contrario di quanto farebbe supporre il titolo ad una prima e superficiale lettura, i suoi versi diventano una ricerca della verità, un discrimine tra illusione e realtà, tra fantasia e concretezza, ribadendo in maniera icastica che la salvezza – di se stessi e del mondo – è una incessabile ricerca, un controllo meticoloso del possibile e dell’impossibile. “Né la bellezza era verità / né la verità nasconde / quel pezzo di cielo / che ci avrebbero promesso”. Ed ecco, allora che in questo contesto la parola assume un’importanza suprema per la sua autenticità e inalienabilità. Marilyn Bobes stessa lo sottolinea più volte. La parola, spesso evocata e idolatrata, diventa non solo parte della vita della poetessa, ma pure della nostra. Ci accompagna. Ci imprigiona. Ci distrae. Ci umilia. Ci ridicolizza. Ci aiuta. Ci salva. “Contaminati / da quei versi mortuari / che ci conducono alla morte, / i versi volano / come frecce / e si conficcano con certezza / nel corpo / di San Sebastiano. / Cosa farai dopo il Greco, / Van Dyck / e Botticelli?” Nel coacervo di segni, apparentemente indecifrabili, la poesia svela il suo significato. L’incontro-scontro con la parola accompagna dunque l’esistenza della poetessa. Direi che in fondo la sublima in un confronto sempre rigoroso, accorto, mai debordante, ma nello stesso tempo ironico e sagace. Cancellare il tutto, quindi, assume anche il significato di un allarme. Intenso. Vicino. Umanamente incalzante.  Quell’allarme è come un grido che si dilata, prolungandosi nel tempo. Si ammanta di disperazione. E non cessa di farsi sentire.

Con questa raccolta Marilyn Bobes palesa apertamente un modo di percepire la vita e la letteratura sicuramente autentico, nonché pressante, invitandoci a riflettere sulla effettiva entità dell’essere e della scrittura. L’autrice tende a scoprire una realtà mutevole nel tempo, osservata dai suoi differenti punti di vista, mai univoca né statica. La silloge infatti contiene, sia pur in sottofondo, una fiducia nella forza delle idee che in modo arduo possono penetrare a fondo la realtà per renderla il più possibile comprensibile. “Tre volte moriamo. / La prima, / quando ce ne andiamo. / La seconda, / quando restiamo, / e la terza, / quando ritorniamo”.  La poetessa constata che il mondo è costituito da “vittime di differenti crepuscoli”, mentre le parole risultano “prigioniere”, “definitivamente spezzate”, “surreali”. La poesia smaschera dunque le falsità. O per lo meno, ci prova. Anche perché non sta nelle mani del poeta la chiave del tutto. Anzi. Il poeta vive appartato in luoghi in cui le “parole non possono decifrarci”. Sembra a volte una situazione schizofrenica, questa, ribadita dalla poetessa nei versi: “È utile / perdere la lotta / alcune volte. / Per comprendere meglio / quegli esseri geniali / che di solito chiamano / schizofrenici”. Il richiamo alla schizofrenia mi rimanda implicitamente a quei poeti ed artisti che si sono visti depauperati della loro personalità e della loro stessa esistenza. Penso ad Alda Merini, Dino Campana, al cubano José Jacinto Milanés. E l’elenco potrebbe proseguire. Tuttavia credo che per essere artisti un po’ di follia non dovrebbe mancare.(3) Perché comunque è necessario il distacco, l’alienazione sia pur controllata, la spregiudicatezza e l’incoscienza dell’esplorazione. Sulla stessa linea si pone la poetessa cubana, là dove insinua “Le dissociazioni / che vanno e vengono / sono te e le altre: / tutte convivono con te / nella molteplicità del tuo inconscio”. Risulta evidente che, alla fine, il significato sigilla il significante, la materialità si fa rada, quasi surreale, diventa suono e la fonicità così ottenuta (anche nella traduzione) offre spunti di immaginazione ed intuizione che collimano alternandosi in momenti di tangibilità da una parte e di astrazione dall’altra. Il verso sembra raccogliersi attorno alla possibilità di riflettersi nel tempo, di imporsi nell’oggi e nel domani. Infatti, “Noi, quelli di una volta / abbiamo ceduto al tempo / e restiamo bloccati nella storia”, “La Storia non è finita / ma la morte dilaga / senza che venga un profeta / a smantellare le utopie”. Certo, non è detto che la storia sia ancora Magistra vitae. La storia forse non insegna più. O non ha mai insegnato. “Il futuro non è stato / quella sfera magica / che usavamo un tempo per predire / le nascite”. I paragoni diventano però impossibili perché “raccontare racconti / renderebbe interminabile / questa dubbiosa favola”.  Nonostante ciò, al di là della “paura del fallimento”, al di là “dell’ignoranza”, perché “solo / i droni del subconscio” possono “ignorare la tua dimenticanza”, “continueremo a leggere Borges / morendo a Parigi / sotto il diluvio tecnologico”. Tutto questo ontologicamente si traduce nell’esistenza quotidiana e insopprimibile della poesia, sebbene ci sia sempre chi si ostina a perseguitarla, a chiuderle la bocca, perché “la poesia / è un esercizio inutile”. “Quando si racconta ciò che accade / proclami la tua assoluta sfiducia / negli effetti della poesia”.

Quella Parigi tecnologica evocata e velatamente invocata ci conduce ad una serie di domande. È forse più utile la modernità? Più desiderabile la tecnologia? Più indispensabile Facebook, tweet, un account? Meglio la “borsa di Louis Bouton”, “i vestiti di Mango”, “le febbrili passerelle di Chanel”? Non c’è risposta. Solo il silenzio. Un silenzio che cade sulle cose, sulle persone, sugli avvenimenti. Il silenzio cui l’anima della poetessa aspira, pretende, incalza. È nel silenzio che si ricrea l’umanità. Questa umanità distrutta dalle guerre, dall’egoismo, dall’arrivismo. “Niente può essere più necessario / di questo silenzio / per recuperare l’antica chiarezza / di quel volto enigmatico”. “Hai scelto il silenzio / meglio per te / non dire / quello che sai”. Si tratta di una introspezione duplice e importante. In questo rientrare in se stessa la poetessa ci rivela innanzitutto i suoi dubbi e le sue incertezze, in secondo luogo ci stimola a riflettere sulla sua fatica e fede poetica: un lavorio intellettuale che vuole riportare al centro dell’attenzione e del dibattito la condizione dell’uomo moderno. Una condizione comunque di per sé difficoltosa e contradditoria: tra la grandezza del passato, l’indeterminatezza del futuro e la supponenza del presente. “Tutti sono tornati alla fine, / ginocchia a terra / permanenti / o eterni /o virtualmente feriti / e come se il ritorno / fosse un patto d’amore / con il passato”. Che scopo avrebbe allora parlare di poesia al giorno d’oggi? La poesia è comunicazione. E oggi, come mai prima d’ora, comunicare non è mai stato così facile, semplice e naturale. Il paradosso però è proprio questo: che nell’epoca della massima comunicazione (in un secondo mi collego con l’amico di New York o di Singapore, posso vedere in diretta quello che accade dall’altra parte del mondo) si innalza all’infinito il muro dell’incomunicabilità. Spesso il dialogo è tra sordi. Ecco la denuncia, la segnalazione di una incapacità esistenziale di rapportarsi agli altri. “I sentieri tortuosi / di tanti personaggi / ti impediscono il contatto”, “Abbandonare la poesia. / Da ciò dipende / la realtà / o quello che sembra già troppo”. Se ne deduce quindi che ognuno opera nella propria torre d’avorio e ascolta solo se stesso. Sento in ciò come una eco di quei versi di Quasimodo in cui il poeta siciliano ribadiva la solitudine e la morte.(4) In conclusione, riusciamo o possiamo comunicare nell’ansia del domani, nel nulla del futuro, nel rifiuto del passato? Ne abbiamo la forza, il coraggio? Si tratta di una serie di domande cui Marilyn Bobes non risponde. Lascia a noi la soluzione, se soluzione esiste. “Noi, / gli analogici / (conversatori e sentimentali) / testimoniamo le decapitazioni”, “Lo schermo diventa una chimera. / E non abbiamo nemmeno / un account su Facebook / che ci trasformi / in quei semplici agnelli digitali”.

Attraverso un uso intelligente e accattivante di porsi davanti ai propri versi, la poetessa cubana ci trasporta in un viaggio che ci conduce ad una interpretazione critica e a volte intuitiva della realtà circostante, costituita da personaggi, avvenimenti e criticità irrisolvibili all’apparenza. E non si tratta di un discorso solo personale, ma universale: coinvolge tutti noi, come del resto nell’universalità si risolve spesso la vera poesia. Il suo linguaggio, infatti, è capace di suscitare emozioni, arrivando al cuore del lettore, e riuscendo ad instaurare con lui un dialogo, o per lo meno ad aprire una breccia importante. Determinanti a questo punto diventano gli accenni biografici che trapelano ora in un verso ora in un altro, come fossero led accesi per la nostra comprensione e complicità. “Scrivi solo / brandelli della tua pelle / strappata / nel corso della vita”. Non disdegna, la poetessa, di mostrare la propria vanità che tuttavia umilia e quasi dileggia come fattore negativo. “Sei famosa / come i crisantemi sulle tombe”, Abbiamo esaurito uno scrigno di parole / e quelle parole tornano / ma mai / per stabilire / inutili compromessi / né effimeri contratti”, “Strappino dalla mia fronte / quella corona / che non mi ha mai sistemato. / Immeritata del resto, / appassita, / su questi simboli sparsi / di insubordinazione”. Alla fine il confronto tra sé e la scrittura diventa il parallelo per un dibattito sul mondo e su ciò che accade intorno a sé. “Quando la poesia ritorna / non rassomiglia / a quella che è stata / né rinverdisce / la triste ingenuità / con cui pretendevi / cancellare il tutto.” Si intravede in questa raccolta poetica come una rivelazione: la ricerca del proprio io che sembra lottare con i suoi versi, mutando in continuazione circostanze e visioni. Ma proprio in virtù di tali fattori, che possono pure considerarsi come tanti desideri inespressi, l’epilogo non può che essere eticamente inapprensibile: “Voglio che la mia vita / sia un atto riverente”. Assistiamo quindi ad una specie di labirinto dove mistero, arbitrio, aspirazioni, confessioni delineano uno spirito che non si accontenta mai. Ma si tratta di un labirinto che non è mai fine a se stesso: un labirinto ossimoricamente aperto, che comunque non vuole fornire un unico modo – e giusto – di interpretazione dell’esistenza. L’opera rimane accessibile all’intuizione del lettore, alle sue emozioni, alla sua cultura. L’invito, forse sotteso, è quello di non considerare la realtà come appare, ma di appropriarsene in maniera critica, con proprie idee e proprie considerazioni, nella consapevolezza di dover sempre e comunque indagare: il tempo, i giorni, la natura, la vita e la morte. “Per quanto tu abbia letto / i migliori poeti del mondo / sarai solo la migliore per la tua famiglia / e qualche altro ignorante / che non abbia letto Borges, / che cerca nelle tue parole / qualche leggera somiglianza / con quello che nemmeno tu riconosci: / il testo / che un giorno hai voluto scrivere / prima di aver letto Borges”.

 Enea Biumi

             (1) In “Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes”, www.cervantesvirtual.com.

(2) “Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. Da “La coscienza di Zeno”, Italo Svevo, Dall’Oglio, Milano, 1976.

(3)  Il rapporto esistente tra arte e pazzia viene segnalato anche da Sigmund Freud in una pagina della sua Interpretazione dei sogni. Il sogno che lì si cita è questo: una giovane donna si trova all'Opera. È una rappresentazione wagneriana durata sino alle sette e tre quarti del mattino. In tutta la platea vi sono dei tavoli dove si mangia e si beve. Suo cugino, che è appena tornato dal viaggio di nozze, siede a uno di questi tavoli con la giovane sposa; accanto a loro c'è un aristocratico. Di lui si dice, molto apertamente, che la giovane signora se l'è portato con sé dal viaggio di nozze, pressappoco come dal viaggio di nozze si porta a casa un cappello. Nel centro della platea si trova un'alta torre (La cosiddetta torre dei pazzi, in tedesco Narrenturm), che ha in cima una piattaforma, circondata da una ringhiera di ferro. Lassù in alto sta il direttore d'orchestra, che ha i tratti di Hans Richter; egli si aggira ininterrottamente dietro la sua ringhiera, suda copiosamente e dirige da lassù l'orchestra, disposta intorno alla base della torre. La donna è seduta con un'amica in un palco. La sorella minore vuole porgerle dalla platea un gran pezzo di carbone, con la motivazione che lei non sapeva che l’opera sarebbe durata così a lungo e sarà ora tutta gelata. L'uomo esasperato e nella furia assalito dal terrore suggerisce l'immagine di un animale ingabbiato. La citata torre dei pazzi (Narrenturm), quindi, sarebbe un ossimoro retorico: unione sintattica intima di due concetti contradditori in una unità, che rimane caricata di una forte tensione. In questo caso il più alto (l'espressione artistica) e il più basso (il manicomio): l’ispirazione e la pazzia. Si tratta di una antitesi che ricorre frequentemente in mistici e asceti: la musica del silenzio, la solitudine musicale di San Juan de La Cruz, per esempio. Attualmente Narrenturm (la torre dei pazzi) antico manicomio di cui allude Freud nell'analisi del sogno, è divenuto museo anatomopatologico dell'Ospedale Centrale di Vienna, ubicato in Hallerstrasse, 9.

(4) Ognuno sta solo sul cuor della terra, / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.

giovedì 3 aprile 2025

L’UNICITA’ DELLA LUCANIA FA INNAMORARE LA PUGLIA

 


A Ginosa Sabato 29,nella splendida Masseria STRADA, in una sala col camino acceso, alla presenza di un pubblico numeroso e qualificato, si è parlato della silloge” L’UNICITA’ DELLA LUCANIA: un approccio fotografico e poetico”. I lavori sono stati coordinati dalla professoressa Rossella Galeota, che  ha dato il benvenuto a tutti i presenti, appassionati di poesia, al sindaco Vito PARISI, alla dottoressa Antezza Valeria, all’editore Monetti e all’autore P. Cascini, ricordando come questa idea sia nata a Marina di Ginosa frequentando lo stesso  lido e godendo lo stesso fresco (ombrelloni vicinissimi). 

Il sindaco Parisi ha portato il saluto dell’amministrazione e si è soffermato sul concetto di cultura come volano di sviluppo salutando il poeta Prospero Cascini come COSTRUTTORE di Paesaggi. Appassionata la relazione di Antezza  che ha chiesto, a gran voce, la contaminazione dell’ESSERE LUCANO, ricordando a se stessa la sua conoscenza della Lucania e come la vicinanza della nostra cittadina con MATERA ha sempre favorito lo scambio di valori e servizi. Interessante l’analisi poetica delle poesie di Valerio e Prospero Cascini  da parte di ANTEZZA che ha ribadito …. che Valerio vede con gli occhi del Bambino e Prospero torna indietro nel suo poetare al mondo dell’infanzia, della nipotina, della primina… con lo stesso entusiasmo…. di essere stato giovanissimo con Valerio alla primina  e alle scuole elementari, e alla vacanze castellane! 

L’editore  Monetti ha ricordato il percorso del testo, la sua originalità (mettere insieme poesia in lingua, in vernacolo e foto)  ha ricordato il coinvolgimento del consiglio regionale di Basilicata, - il cui Presidente dell’epoca Carmine Cicala dichiara nella sua prefazione” una identità che può essere espressa solo sulla base del patrimonio culturale, che, come istituzioni siamo tenuti a custodire e valorizzare” E’ una opera - ha concluso l’editore - che apparterà sempre al patrimonio culturale della Basilicata.


IL Coautore Prospero Cascini, nelle sue conclusioni, ha ringraziato il Sindaco e i suoi assessori presenti (DANIA SANSOLINO e DOMENICO GIGANTE), i coniugi STRADA per la collaborazione offerta, gli amici di Laterza, di Ginosa  e gli amici venuti da Bari.

Si è congedato leggendo una poesia-preghiera indiana: amami, ma non fermare le mie ali se vorrò volare / non chiudermi in una gabbia per paura di perdermi/amami con l’umile certezza del tuo amore ed io non andrò via/ e se sarò in un cielo lontano  ritroverò la strada del tuo pensiero../e se sarai con me ti insegnerò a volare/e tu mi insegnerai a restare.

Le poesie in vernacolo sono state declamate da P. CASCINI, quelle  in lingua da R. GALEOTA, da I. BARDINELLI e da V. ANTEZZA e da D.SANSOLINO   

L'Autore dell'articolo è Prospero Cascini