domenica 12 ottobre 2025

Rossana Ombres, Bestiario d’amore, Graphe.it Edizioni, Perugia, 2025, € 12,00

 




Nel Bestiario d’amore, pubblicato da Rizzoli nel 1974 e ora riproposto da Roberto Russo per le Edizioni Graphe.it, nella collana diretta da Antonio Bux, Le mancuspie, Rossana Ombres riprende in chiave moderna quelle che nel Medioevo erano analogie, simboli e metafore, reinventando con estrema lucidità un mondo tra il reale e il fantastico dove è l’elemento femminile a trainare e a risolvere le  criticità e dove l’intelletto concretizza la sua essenza in una sorta di visione ultraterrena dal sapore mistico e trascendente. Non per nulla l’esergo della prima sezione intitolata Pentagramma apocrifo si regge su una frase di John Donne che liberamente tradotta recita: “gli angeli sono capaci di coinvolgere la nostra anima, e per ciò noi li veneriamo”. Parallelamente la seconda sezione denominata “Secondo pentagramma apocrifo” presenta come esergo i versi di Juan Gelman che riprendono il medesimo clima: “Angeli, angeli. / Chi dice di averli visti, non li ha mai visti / Chi li vede, canta dentro di sé”.  E gli angeli, infatti, hanno fin dalle prime pagine un ruolo di trade-union tra l’uomo e il mistero. Segnano un punto di incontro tra la secolarità e la religiosità. Offrono una prospettiva al dolore del mondo che si vuole redimere ma non si sa come.

All’Angelo del sognato fui vicina / qualche secondo nella collaretta di un labirinto. / Il grado ultimo del magistero alchimistico / imparai dall’Angelo del sognato, / dimenticata alla sua fosforescenza minerale.

L’Angelo che in remoti tempi ci divise / dissaldando la doppia creatura con la sua fiamma feroce / perché ci cercassimo / (…) oggi è qui / dritto in piedi / a riscuotere la caccia dai suoi guardiani.

Bastò una notte di martirio e dal cielo / piovvero fiammelle coi sette numeri / dei sette pianeti che lodano il Signore.

Si avverte fin da subito l’importanza della lezione biblica, talmudica, giudaico-cristiana. L’autrice ci immerge immediatamente nel clima della cabbala ebraica, inserendoci in un mondo magico che ci avvolge e a volte ci perseguita perché non riusciamo a comprendere dove ci possa condurre.

Noi non sappiamo nulla / siamo con le nostre pietre che ci ritraggono / santificati di un magro chiarore / sul fondo dell’Abbazia (…)

Si tratta di una specie di ossessione derivante da un’atmosfera di presenze, di corpi reali al limite della sensualità, e di ombre trasparenti, irreali, che narrano storie d’amore dai tratti surreali. Ed è la donna la vera protagonista di questa silloge, sia che si chiami Eva, sia che si chiami Bella o Lilit o Eleazar o Maria. Esse portano su di sé una strana inquietudine, sperimentano il caos di una realtà a volte estranea, a volte complice, vivono la loro fisicità come una contraddizione perenne. Demoni e angeli le costringono in una identità che non sentono propria e fuggono in un mondo fantasioso. Nemmeno l’attrazione del sesso le corrompe. Anzi. Spesso ne sentono la repulsione. E si rifugiano nella verginità o in una illusoria maternità.

Diabolicamente perseverando nell’umile proposta / di cambiamento, va Ireneo al martirio: / e la vergine Tecla / fatte le dita a particola tocca inorridita il gemizio / delle stimmate appena esplose. Altre donne / vanno al supplizio / leste, con lo zinale macchiato e il lessico dialettale.

Le parole hanno una forza dirompente che spesso travalica la corporeità ubicandosi in una specie di iperspazio immaginifico e al tempo stesso reale. C’è una atemporalità che trascina il lettore in un altrove, lo sorprende con una esposizione favoleggiante, ricca di demoni, mostri, angeli, santi, donne asessuate, bimbi traditi. Ci si ritrova in ambienti da fiaba, leggendari, immaginifici, che sembrano appartenere a tutti e a nessuno. La poetessa ci porta ad ascoltare versi che incantano e che raccontano in forma analogica i drammi del nostro secolo. Sono interessanti a tal proposito le note che l’autrice pone in coda alle poesie, in cui ricostruisce i suoi momenti di ispirazione. Da qui si può facilmente dedurre ciò che la Ombres valorizza maggiormente, vale a dire una cultura che si innesta sulla tradizione classica, sulla mistica ebraica, sulle fiabe popolari e non, sui racconti medievali. Si può registrare in questa silloge poetica una ricchezza di documentazione, un procedere attraverso sperimentazioni linguistiche, un richiamo a temi esistenziali che attraversano tutta la nostra storia. Sebbene a introduzione delle note Rossana Ombres scriva che “non sono state apposte per dotare il libro di chiose colte”, non si può non sottolineare la sua vasta erudizione che naturalmente non si sovrappone alla sua poesia, ma ne accompagna i versi e li traduce.

Non è un caso se il titolo di questa raccolta poetica si riconduce al libro di Richard de Fournival che nel XIII° scrisse il suo Bestiaire d'Amour.  È evidente che i due testi siano completamente differenti, essendo quello di Richard de Fournival intriso di cultura medievale, per cui l’amore diventa occasione per redigere un manuale didattico morale. In Ombres invece è la testimonianza di un percorso e di uno studio non solo culturale, bensì di una ricerca empatica che associa sapere e umanità, andando oltre il tempo, oltre la storia. È il processo di un’indagine psicologica e sentimentale che non vuole insegnare ma coinvolgere, non vuole dettare precetti ma risvegliare coscienze.

“Chi ha uno yod nel nome / ha il suono delle galassie future: / e lui era profeta di un mondo venturo / soprattutto per quel piccolissimo yod.”

Le vicende e i protagonisti di questa silloge possiedono un vigore che straripa in qualcosa di infausto, mortale e fatale, trascinati da demoni mutanti, avviluppati da una continua lotta tra bene e male, risucchiati in un vortice di parole e sogni, in attesa di una impossibile panacea. Gli angeli prendono corpo, ma i corpi si confondono in una inesausta ricerca e anche i nomi si sovrappongono, si scompigliano e rigenerano nell’esercizio persecutorio che vuole trasformare il sogno in realtà e la realtà in sogno.

“Allora si levarono i demoni / che erano stati messi a dormire / nei solchi del mondo prenatale / e miniarono mappe di itinerari controversi / e costrinsero le salamandre ad annodarle col fuoco”

Vita e morte, ragione e passione, desolazione e straniamento producono un senso di sgomento, la necessità di aggrapparsi a qualcosa e a qualcuno che sappia condurci fuori dal terrore e dalla paura. E invenzione tra le invenzioni nascono gli “Scarabangeli”, metà angeli e metà scarafaggi, messaggeri inquieti, creature misteriose generate nell’Eden dove “un fulmine tranciò / l’albero della Salvazione dai vinosi frutti”. L’intensità dell’immaginazione trae potere anche dall’ipermetria dei versi che segnano come una partitura musicale d’ampio respiro. E la musica in effetti fa da sfondo a tutta la raccolta. Basta percorrere l’indice delle poesie per evidenziare questo aspetto (“Tempo di rondò”, “Serenata”, “Buchstabenengel per la mano sinistra”, “Due cori per flauto e tamburello”, “Musica per l’ora prima”, “Ballata della figlia di Noè”). Musica e parole sono circostanze idonee e confacenti nell’inglobare incubi e sogni, visioni apocalittiche e aspettative epifaniche.

“La terra cominciò a tremare così forte! / Caddero muri / con tutti i loro interni carichi e caldi/ si chinarono gli alberi/ a raccogliere le loro foglie. / (…) L’anima, trasecolata, produsse santi.”

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Rossana Ombres (Torino, 1931 - Livorno, 2009) fu una voce inconfondibile e inimitabile nel panorama letterario italiano del secondo novecento. Nominata Accademico d’Italia, vincitrice di prestigiosi premi letterari, quali il Viareggio, il Grinzane Cavour, tradotta in diverse lingue, riuscì a interpretare i drammi e le ansie del secolo breve con una scrittura ricca di spunti linguistici originali, unica e peculiare.  Fu Andrea Breda Minello che la definì “anacoreta della parola”. Voleva intendere con ciò sia la grande attenzione che la poetessa impose all’uso della parola come strumento principe di comunicazione scritta, sia la sua attitudine e volontà di rimanere lontana dai salotti letterari per coltivare un suo modus operandi alieno dallo spettacolo e dalla notorietà. In effetti, pur lavorando alla Stampa di Torino, la sua opera non ebbe alcuna affinità con altri scrittori, non si avvicinò a nessuna scuola o gruppo poetico. Lavorò in solitudine e in solitudine rimase. Per tutta la vita. E oltre.

Enea Biumi


mercoledì 1 ottobre 2025

Gilberto Isella “Divaricando l’attimo” (Book Editore, 2025)


 Tentare la possibilità di porre iati all’interno di un flusso che è quello del tempo. Arduo compito nella fascinazione delle cose che fuggono e che tornano, quando la domanda esistenziale si avvale di una osservazione inquieta, critica, ma anche tesa verso una necessità di significazione pur problematica. Siamo tra le pagine donate da Gilberto Isella nell’esito poetico “Divaricando l’attimo”. Espressione in divenire tra immanenze tecnologiche dell’oggi e virate anelanti la trascendenza in una osservazione che si fa eco di tono metafisico: “mente d’astro subitanea irrompe/ salomonici sigilli scuote e disorienta/ boschi araldici dall’etere asporta/ e alla terra in sequenze li affida”. Adattamento di versi in strofe segnate da compressione di passaggi che ornano una domanda ancestrale, una identità tracciata da tessere congiunte e collegate nelle figure messaggere di segnali da interpretare, dove il rischio dell’oblio comporta la giuntura imprevista, l’intervallo quale tregua da un passato che incalza in ciò che assurge a possibile intervento, a concessa correzione. Il mistero comunque incarna la più sottile trasparenza del visibile che Isella analizza alla luce della peculiarità espressiva in sintagmi di diversa estensione ma sempre attinenti ad una complessa “solidità concettuale” che coniuga l’alternativa in espressione affiancante e integrativa. Così insorgono specificità quantistiche deviate in teoremi estendibili, in nature ostiche, quando “si aggrappa a fessure di muro/ ode nenie erbose dapprima/ pistilli stami sottilissime/ fibre da brezza cullate”. Ma insorgono anche tonfi e croste, gemiti e afasie, qualora un precipizio sia esposto ad indole di caduta, necessità di reinterpretazione attraverso coniuganti osservazioni naturalizzate in pensieri che il poeta scolpisce nelle partiture assimilanti la divaricazione come tecnica scultorea tra pianificazione della parola indicante l’enigma, così come la materia in attesa di percepire la sua forma in “strapiombi mentali”. Gilberto Isella è cultore di parola poetica in pensiero e spirito, attraverso l’uso del vocabolo corposo in una “geometria refrattaria”; cogliamo spunti di citazioni che coinvolgono Emily Dickinson come Eugenio Montale, Fernando Pessoa come Gabriele D’Annunzio, Valerio Magrelli e Camillo Sbarbaro, Dostoevskij e Mc Carthy...rimandi letterari che nutrono la contemporaneità stessa della ricerca nel suo intreccio espressivo tra le soglie e i passaggi di quell’andare che è domanda costitutiva e antropologica. Il verso elegante dell’autore ridisegna i confini di una partitura incurante del pericolo rappresentato da una concettualizzazione che qui riesce a farsi suono significante, dettatura accogliente le fasi del mistero e della cura, come l’espediente linguistico mai gratuito che richiama l’osservazione fonetica sul particolare rivelante. Brevissime, le poesie della seconda parte, si accentrano nello spazio della pagina connotando l’applicazione a stelo dove “l’umile disco della vita/ coinciderà/ con la parola cosmica/ la non detta/ ancora”; come la divergenza delle forme concede l’intarsio e la sosta, l’avveduta comparsa degli elementi tracciati e dischiusi all’osservante coincidenza di segnale e risposta. E’ una fluente meditazione sull’attimo che imprime ai versi l’attenzione in varchi e colori, squarci e amnesie, tendendo poi al passaggio verso ulteriori espressioni pensanti; “lì il muschio posa le tinte/ dei propri umori alogeni/ scontando le vertigini/ di chi l’ha calcato”, oltre il ritorno sillabico interno nella tramatura di suono e ritmo per cogliere la precisione del passo cronologico che assiste al tono possibile. Gilberto Isella deterge la pagina tra viali e tetti, albe e venti, silenzi e petali, onde e pause; le voci veicolano sussurri dagli interstizi, portando la complessità minimale dei particolari su destrezze linguistiche di elegante efficacia: “angolo giro che ruota/ intorno a breviari d’acqua/ terre rare e tormenti/ candele ignifughe e tare/ su pietre che accerchiano/ passioni mai sgravate”. C’è un tentare, comunque, un vedere risalire le cose verso un accenno di chiarore; formula che riporta le poesie ad ordine verticale d’inizio verso, quasi a riprendere il filo del tracciato tra le polarità della materia stessa affrontata nel suo essere, posta nell’ottica di una manipolazione che oggi si avvale della dirompente frenesia tecnologica per poi addossarsi ad una variazione grafica che allude a tensioni ulteriori ed opposte, perfino a richiami omerici. Certo, un intervento sarebbe quanto mai urgente per condurre verso la possibilità di cogliere tra gli spazi dilatati l’insieme dei ponteggi da noi costruiti nella ricerca incessante di riferimenti per risolvere almeno il moto iniziale della scrittura, il suo compito primario: “quadro da raddrizzare, chiodo/ estorto a un singhiozzo/ sfacciata obliquità”. Di ogni divaricamento si coglie quindi il tratto che manca, la sonora esclusione che conduce però non alla resa ma a quello spostamento della prospettiva che riporta alla cura, alla progettualità poietica esigente l’attesa di una memoria riavvolta e recuperata come preludio e scommessa, come evento che può raggiungere perfino la vetta mistica. Infatti l’ultima sezione evoca la figura di Ildegarda di Bingen, riferendosi al suo “Libro delle opere divine” nel conforto delle osservazioni e delle allegorie; “ma tu/ il suono giusto implora/ il suono/ non lo stridere eterno di un dubbio”. Il cromatismo è incisione verso un’apertura alta e ambita, in un passo che solca le asperità terrigne ma accosta poi moti che non escludono effluvi d’estasi: “io scosto garofani di fango/ giro la lancia/ guardo nel biondo divario/ delle trine”. Gilberto Isella compie uno sviluppo costante che supera cicli e rimandi, ponendo segnali svelanti limiti esistenziali ma anche prospettive possibili, in citazioni ad esergo; giungendo a quell’ “incespicare nei dislivelli/ brumosi del colle” che coinvolge Leopardi.

                          Andrea Rompianesi