venerdì 1 febbraio 2019

Maria Pia Quintavalla “Quinta vez” (Stampa 2009, 2018)


Il percorso apre una soluzione al tu/madre nella composizione tipica del poemetto in prosa. Un luogo d’accoglienza intima, pensato e riproposto attraverso l’attenzione figurativa suscitante un’aspettativa dialogica. Così inizia “Quinta vez”, opera di Maria Pia Quintavalla, tra le voci poetiche più interessanti della generazione nata negli anni Cinquanta del Novecento. C’è un’accensione verbale in stile amplificante che denota la figurazione spirituale che s’irradia dagli spunti di una biografia passata e si traduce in considerazioni postume. La tessitura espansiva incoraggia una prosa determinata e poetica nella cadenza ritmica che vuole superare l’insidioso ossimoro insito nella stessa formula del poemetto in prosa. Allungando il passo lessicale nella trasformazione sensitiva dei vocaboli condensanti l’umore intimo e fertile della gestazione. La paura riconoscibile e antica può forse arretrare al caleidoscopico affiorare della musica, di quell’essere armonia di relazioni rivisitate alla luce di un congedo che si vuole limite valicabile attraverso un vibrare quieto, una gestualità avviata. La seconda sezione del libro imposta una versificazione asimmetrica concentrata nella evocazione dei passaggi generazionali; l’identità della figlia che compone la raffigurata estendibilità del percepire le delicate e, nello stesso tempo, forti tensioni modulate al femminile, quando poi “al commento/ che mi chiude in un grido a mezzanotte” risponde la trafittura colposa, l’intermittenza degli aloni. Il riscatto può coinvolgere storie quali quella di China, madre fanciulla rinata in Castiglia, come testimone di una volontarietà capace di amorosa espansione in una condotta di suggestioni aromatiche e speziate, quali i segni di terre ibride e canti nomadi. Il corso esorta vicissitudini di ancoraggio storico e mitico allo stesso tempo, in un travolgere le insidie diramate dagli accenni presunti che comportano la consistenza terrosa degli spasmi, gli aneliti emozionali condivisi mentre “la macchina da guerra già suonava/ antiche glorie di tenzoni,/ e di battaglie che perdute, sfumavano/ la linea di orizzonte di una persa notte”. L’ultima sezione dell’opera pone sulla pagina la vivacità pensosa di un dialogo teatrale, “le sorelle”, dove il patire intimo e sofferto dei più viscerali rapporti famigliari si fa scenario di affondo psicologico, nella volontà di richiamare l’attenzione verso le complessità spesso indicibili delle trame affettive.
                                                                                                                          Andrea Rompianesi
 

mercoledì 16 gennaio 2019

Gilberto Isella “Arepo” (Book Editore, 2018)

“Mai si raggruma limo su chiodi d’assito/ né in pance d’alambicchi ombra è tenuta”; eccelso esempio di una magistrale architettura linguistica, questo distico iniziale fa parte di una poesia di “Arepo”, opera di Gilberto Isella. Autore di preziose figurazioni letterarie, tra i più significativi della generazione nata negli anni Quaranta del Novecento, Isella appare sempre più teso verso un vertice creativo che abbina l’esemplare costruzione poetica nella meticolosa definizione del significante con la profondità filosofica della identificazione del particolare nascosto ed enigmatico nel significato. Il titolo evoca l’elemento compreso in una antica iscrizione latina in forma di magico quadrato composto dalle parole sator, arepo, tenet, opera, rotas, capaci di determinare un palindromo. Ma l’autore non si sofferma su aspetti esoterici, privilegiando l’osservazione problematica nella sua inquieta dinamicità. Se l’esserci stesso in quanto tale è di per sé dinamico, secondo l’accezione espressa da Heidegger, l’esserci poetico ancor più infonde sostanza alle sfumature che acquisiscono toni ontologici. La materia deve riconvertirsi in forma capace di distinguere le personali attitudini che sensibilizzano cromie e fenomeni, emblemi e riemersioni, devozioni in un considerare aligero che scorre. Ma certo se il giallo è impaziente e non placa, trasferire i tratti inattuali è determinare il segreto possibile decifrarsi dei sintomi. La malinconia è trascinata dallo scorrere di tempi ubiqui, lontani dalla nostra capacità di coglierli se non sedotti, arresi alle discoste spinte vibranti sui bordi dei versi riaffacciati alle possibilità semantiche e autoriali. Isella ben comprende la necessità di superare, oltrepassare il significato usuale per svolgere ricognizione più vasta e adeguata all’ardente pazienza dei poeti. Un fluire incredulo detiene la grazia della continuazione esposta al bisogno emotivo di quella domanda alla quale la poesia azzarda la scelta della parola esatta, la folgorazione attimale dell’indicibile. I versi scolpiscono con la grazia del tratto una finezza espressiva che colpisce, nella stupita attenzione dell’ascolto. Siamo posti di fronte ad un esempio poetico di rara presenza nel tracciato di una produzione contemporanea troppo spesso adagiata in formule scontate e prevedibili. Qui la sostanza compone le simbologie e le coniugazioni, attraverso un’estensione lessicale ondulata e rapsodica. Le allitterazioni ricamano un disegno dalla raffinatezza espressiva oltre il definito, “dove la mente in esilio disvela/ i suoi segni più sagaci”, come profumi di pino che interrogano le nostre debolezze inusuali. Non vale forse l’episodio che concentra l’assolo nel deposto ancoraggio, attraverso sospensione di epitaffi e rigurgiti ad oltranza; meglio la svista, se mai sedotta, all’apice della configurazione nominale che sovrasta.  E così sai di poter individuare un’alternanza che, nei rivoli esegetici, comprende una via percorribile ed esposta alla riconoscibilità delle scansioni. Esistono ed emergono segnali di ripetute fisicità, rovine e pozzi, mulini ed anfore, sabbie e fave, sismi e ibis; come non esita a manifestarsi anche l’innesto in una prosa poetica che arde in umore di contenuta apocalisse. Denotazioni arcaiche impongono esperite visioni sottoposte all’implacabile e diuturno romitaggio quando, scrive Isella, “qualcosa peraltro s’inceppa/ nel montaggio vettoriale”. Significativa l’attenzione all’opera di Piranesi nei temi relativi alle rovine come elemento di un compiuto architettonico e il labirinto (o carcere) quale allegoria della condizione umana; proprio l’espressione, così, si attira l’elegante fioritura di una strofa del poeta capace di concentrare il sentimento delle cose colte dai sensi nella costruzione demiurgica dei moti tangibili: “Sul cilindro girante della notte/ concepì una ronda di pulegge/ per il suo piccolo cerebro/ sovrano”.



                Andrea Rompianesi     


martedì 15 gennaio 2019

Rosa fresca aulentissima


  Enea Biumi    “Rosa fresca aulentissima”   (Genesi Editrice, 2018)


  
“Alle dieci e quindici precise il campanile di San Biagio diede un tocco grave che proclamò l’abbrivio di uno scampanio disordinato ma felicemente festivo”. Inizia così il romanzo “Rosa fresca aulentissima” di Enea Biumi, autore varesino, indicando dalla prima battuta la vocazione descrittiva e l’acutezza dell’osservazione intenta a ritrarre efficacemente il piccolo mondo della provincia lombarda. Si potrebbero evocare i nomi di Chiara e Vitali, di una predisposizione al ritratto ironico e allusivo, anche se qui la vicenda si concentra sulla scomparsa di una attraente ragazza, figlia del sacrista del paese, immergendosi quindi nel clima dell’investigazione condotta dal maresciallo Rosario Panepinto. Il tutto si distende nell’accortezza di una scrittura che vede l’autore calibrare le effusioni espressive a disegno dei particolari e degli ambienti con la tessitura spontanea e determinata dai vividi caratteri dei personaggi che animano ipocrisie e maldicenze di paese, passioni inconfessabili e nascoste, tracce definibili di subitanee accensioni. Ben presto la tragedia s’impone con il ritrovamento del corpo della giovane assassinata. Il giallo assume le condizioni di specchio di una società minima oppressa da vizi privati e pubbliche virtù. La fluidità narrativa si armonizza con una indagine coinvolgente che avanza attraverso spunti godibili mai slegati dall’inquietudine propria di una domanda che si trasforma in denuncia civile. Le insofferenze diffuse, che spesso si trasformano in derive violente, impongono alla riflessione del lettore tutta la problematicità dell’esistenza nei suoi tratti sociali che non possono non essere anche politici. Ma la durezza dei contenuti viene sempre compensata da un’andatura narrante che caratterizza la scrittura di Enea Biumi, la profonda declinazione umanistica e la capacità di tratteggio cromatico della sua identità di poeta.

                                                                                                                      Andrea Rompianesi

Passioni di Enea di Carlo Zanzi


PASSIONI DI ENEA
CARLO ZANZI - 14/12/2018
Artisticamente il suo nome è Enea Biumi, all’anagrafe invece si chiama Giuliano Mangano. Non è giovanissimo (nel 2019 compirà settant’anni), di professione pensionato, ma prima lavorava come docente di lettere negli istituti superiori varesini, dove ha diretto anche un laboratorio teatrale. Ha alcune passioni dichiarate, confortate dalle doti, perché non basta la passione per ottenere risultati pregevoli. Passioni: la musica e la scrittura. Suona una fisarmonica pagata oltre tre milioni negli anni Ottanta, quindi dell’attuale valore di seimila euro, compone canzoni, soprattutto in dialetto. Ne ha appena prodotta una, su testo del poeta dialettale Paolo Rattazzi: La prima fioca. Ama la poesia, la compone, fa parte del Cenacolo dei Poeti e prosatori dialettali della Famiglia bosina (cura il sito del gruppo) nonché del Gruppo Folk bosino. A partire dal 1969 (data del suo primo libro pubblicato, Lumen XXVIII, raccolta di poesie), in tanti anni ha pubblicato con grandissima parsimonia, pochi titoli, troppo pochi per uno come lui. In compenso ha collaborato ad altri volumi, ha scritto alcune opere teatrali e tradotto, in collaborazione con Maria Luz Loloy Marquina, poeti di lingua castigliana, soprattutto di area sudamericana. Importante la sua amicizia con Martin Micharvegas, poeta e pittore argentino, in Italia per fuggire alla dittatura: con lui ha fondato e curato per anni la rivista online I poeti nomadi. Infine collabora con alcune riviste letterarie e quotidiani locali.
Nell’aprile del 2018 è uscito, per Genesi Editrice, il suo romanzo giallo ‘Rosa fresca aulentissima’. Il Biumi ha vinto il premio I Murazzi per l’inedito 2018. Ecco stralci dalla motivazione della Giuria: ‘La Giuria, con l’unanimità dei voti, ha apprezzato lo stile fluente del racconto, sostenuto e arricchito da un dialogo ben strutturato, sia dei protagonisti che delle mezze figure, con sapiente dosaggio delle diverse inflessioni dialettali. Pregevole l’intreccio della vicenda…’
Intanto, per chi si appresta a leggere il romanzo, è d’uopo tenere a fianco il vocabolario, perché Enea Biumi usa termini desueti, specifici, ricercati, che non fanno più parte non solo dello stile giornalistico ma neppure di quello dei narratori contemporanei. La scrittura è elegante ma non ricercata, comprensibile e mai banale. I dialoghi, ossatura del romanzo, sono uno dei punti di forza. Leggendo Rosa fresca aulentissima non può non apparire lo scrittore Piero Chiara, o il suo ‘figlioccio’ Andrea Vitali.
Gli elementi del romanzo giallo ci sono tutti: la bella del paese, la più bella del paese trovata morta, trafitta da nove pugnalate, e poi una serie di personaggi vicini alla ragazza (compreso un sacerdote), per lo più spinti da ragioni amorose, che a tutta prima vengono sentiti e sospettati, quindi altri personaggi che si aggiungono inaspettatamente, un altro suicidio che forse è un omicidio, gli investigatori che si affannano, vari dialetti che si incrociano nel dialogo, infine una nuova pista, il colpo di scena finale. Lo sfondo della vicenda è un paese del varesotto. Enea Biumi mostra competenza non solo linguistica ma anche musicale, dialettale, nonché padronanza dei fondamenti di un romanzo giallo. Conosce l’ambiente ecclesiale, quello dei Carabinieri e quello dei tribunali. Se si può fare un appunto, lo siglerei facendo riferimento ai molti attori, che entrano in azione in veloce sequenza, disorientando un po’ il lettore, soprattutto chi, non più giovane, non gode di buona memoria. Per il resto, direi che il giudizio della Giuria è più che meritato. E soprattutto Enea Biumi merita di essere conosciuto adeguatamente, quanto meno nella sua città, che fa da sfondo al romanzo in questione. Biumi merita la lettura perché è autore di sostanza. Ha alle spalle anni e anni di letture: dai classici greci e latini ai classici italiani, poeti e narratori, con un amore particolare per Manzoni e un’infatuazione per Gadda. Preferisce certamente Morselli a Chiara, benché ammetta di essersi avvicinato, forse inconsapevolmente, allo scrittore luinese in questo romanzo, un autore che giudica piacevole e interessante ma nulla più. Rispetto all’ultimo lavoro letterario, in principio si trattava solo di una bosinata (poesia dialettale a sfondo comico-satirico) dal titolo ‘La tusa dul secrista de San Bias’. Dalla poesia si è passati al desiderio di scrivere un racconto breve, che si è andato via via popolando di personaggi e situazioni. Motivi di salute hanno obbligato Enea Biumi al riposo forzato, che gli ha permesso, nel 2017, di dedicare molto tempo alla scrittura, sicché il racconto è diventato romanzo, quello che oggi i varesini (e non loro soltanto) possono gustare.

Rosa fresca aulentissima


Rosa fresca aulentissima: un poliziesco ambientato nella nostra provincia scritto da Giuliano Mangano

di Gianfranco Gavianu

Nato nel 1949 a Varese, Giuliano Mangano, che si cela dietro lo pseudonimo di Enea Biumi, è un artista versatile che ha scritto testi poetici, narrativi, opere teatrali ed è appassionato di musica: fa parte del Gruppo Folk Bosino. Lo scorso aprile ha pubblicato per Genesi editrice di Torino il romanzo poliziesco  Rosa fresca aulentissima. L’opera presenta uno spaccato della vita di provincia, della mentalità radicata in ampie zone del ‘profondo Nord’, in cui si agitano personaggi e gruppi sociali riconducibili  a tipologie facilmente riconoscibili: il prete, il sacrestano, il coadiutore, il farmacista, il giovane neolaureato timido e introverso, padri esuberanti e autoritari, madri trepide, ambiziose, invadenti,  la giovane bella e desiderata da tutti, carabinieri, leghisti con simpatie fasciste. Un panorama umano ricco e variegato che rende vivace e coinvolgente il racconto.

Alla base, come inevitabile in un poliziesco, vi è un omicidio: Teresa Lovedovo, giovane militante pacifista, bella e spregiudicata, viene eliminata dall’intolleranza brutale di un gruppo di parafascisti. A questo personaggio evidentemente allude la dotta citazione che dà il titolo al romanzo “Rosa fresca aulentissima”, tratta dell’ incipit  del celebre contrasto di Cielo d’Alcamo che, come è noto, sta alle origini della nostra tradizione poetica. Attorno al fosco nucleo della vicenda ruota una serie di relazioni e di intrighi i cui protagonisti sono mossi dall’eros, le cui imperiose istanze entrano in urto col moralismo pio e ipocrita dell’universo piccolo-borghese e provinciale del Varesotto in cui il romanzo è ambientato. Nel personaggio del neolaureato Alvise Giavan l’autore ha forse proiettato alcuni suoi tratti psicologici e culturali: l’amore per la letteratura, una timida e scontrosa riservatezza; al tempo stesso, ad arricchire l’arazzo del racconto vi è un proliferare di personaggi disegnati con efficacia bozzettistica.

Una bonaria ironia pervade tutta la narrazione e getta una luce di indulgente comprensione sui comportamenti e gli atteggiamenti dei personaggi: in questa prospettiva di rappresentazione si rivela la visione della realtà  dell’autore che, pur non ignorando le contraddizioni e le durezze del vivere, distende su di esse uno sguardo fiducioso e rasserenante.

Tale disponibilità a comprendere e giustificare l’umano in tutte le sue manifestazioni si arresta, tuttavia di fronte all’assolutamente irrazionale, alla furia intollerante e omicida del gruppo di criminali che uccide Teresa (Terry); quest’ultima non a caso sembra assumere i tratti della vittima sacrificale, quasi una figura cristica.

Sapientemente e a lungo l’attenzione del lettore viene sollecitata e coinvolta dalla disseminazione degli indizi tra più personaggi che vengono sospettati del misfatto fino alla risoluzione conclusiva.

L’epilogo ci propone un lieto fine che sembra voler rassicurare il lettore contro gli orrori della violenza insensata: come in una carrellata finale di un film tutti i personaggi vengono passati in rassegna e coronano le loro  aspirazioni: l’idillio sembra ricomporsi: non è casuale che le ultime righe ci rappresentino il brigadiere Panepinto che ha condotto le indagini  mentre si gode la pensione contemplando adagiato su una sdraio il paesaggio del monte Rosa che ai suoi occhi appare “una gran grazia di Dio”.

Il romanzo, scritto in una prosa agile e scorrevole, cattura dunque e appassiona il lettore.

(Chi fosse interessato può ordinare il romanzo via internet rivolgendosi all’ email della casa editrice: genesi@genesi.org)

Rosa fresca aulentissima

Dal Blog di Carlo Zanzi (che ringrazio ufficialmente)



Che il romanzo di Enea Biumi, 'Rosa fresca aulentissima' fosse di buona qualità già lo sapevo, e la conferma è arrivata stasera, alla presentazione del volume alla Biblioteca Civica di Varese. Tre docenti e scrittori (uno anche editore), persone di ampia cultura e pratiche della materia mi hanno dato ragione. Carlo Banfi, Gianfranco Gavianu e Sandro Gros-Pietro (l'editore del volume, Genesi) hanno sottolineato con abbondanza di particolari le qualità dell'opera letteraria, un romanzo breve (o racconto lungo) di genere poliziesco, ambientato nel nostro territorio, ricco di personaggi, intrigante nella trama, venato di colta e sottile ironia, con un linguaggio che spazia dal dialetto alla terminologia ricercata. Laura Lampugnani ha letto alcune pagine del libro.
Come già sottolineato in altri post, Enea Biumi -poeta, narratore, musicista, autore di sceneggiature teatrali, uomo di cultura a tutto tondo-  merita di essere valorizzato.






Linea Cadorna



Carlo Banfi, “Linea Cadorna”, Edizioni Virgilio, Milano, 2018, € 15.00



Mai come in questi tempi il detto “historia magistra vitae” è divenuto un azzardo: o una contraddizione. Ognuno guarda al suo particolare e la filosofia spicciola di Guicciardini la fa da padrone sul più autorevole e classico Machiavelli. A leggere il nuovo romanzo di Carlo Banfi, “Linea Cadorna”, in effetti, si intravede e si rafforza l’idea di un mondo isolato, a sé stante, che ruota su se stesso. E’ forse la nostra accidia che determina questa spaccatura netta fra noi e la storia. Sta di fatto che nessun avvenimento è leggibile come prototipo imitabile e didascalico. Così si ha l’impressione che quel pezzo di storia dei primi del novecento sia rimasto lì diroccato come i resti di quella difesa, divenuta simbolo di una nostra cecità: un’ostinazione a non voler vedere, a non voler apprendere dal passato, caparbiamente abbarbicati al presente, presuntuosamente persuasi che noi stessi e solo noi abbiamo contezza e ragione. La linea Cadorna diventa allora metafora della nostra sconfitta.
In effetti il Pedar, il protagonista della vicenda, potrebbe uscire da quelle pagine ed urlare che il fallimento è di tutti, che è necessario guardare al passato per capire il presente e risorgere, ma viene per così dire risucchiato dalla Storia, quella con la esse maiuscola, e come la linea Cadorna, preda del tempo e della natura che sembra voglia travolgerla e seppellirla per sempre”, è impossibilitato a superare gli avvenimenti, pur con tutta la sua volontà. Alla fine del romanzo, dopo una strenua lotta per affermare la Vita esce piangendo. Sopraffatto (E questa volta il Pedar, uscito dalla stanzetta, non era stato più in grado di trattenere le lacrime).
C’è un po’ di Manzoni in quest’opera di Carlo Banfi, non il Manzoni dei “Promessi sposi”, bensì quello dell’ “Adelchi” e del “Fermo e Lucia”. Innanzitutto nella concezione della vita. I più deboli, o i più umili, sono quelli che danno maggiormente il proprio contributo alla storia, ma alla fine rimangono figure marginali e sconfitte. Come se la Provvidenza si arrestasse davanti alle ingiustizie riscontrate. Il curato, don Paolo, un cardinal Borromeo in nuce, offre il proprio aiuto a tutti, ma alla fine non può che cedere davanti ai “grandi”. Significativo è il ricordo della rivolta del pane nella Milano di fine ottocento, rivolta che si concluse con le cannonate del tristemente famoso Bava Beccaris, e che ebbe un’eco simile, e quasi sconosciuta per i più, nella Luino di allora. La ricostruzione e la rievocazione di quei momenti di ribellione luinese, dove tra l’altro le donne hanno avuto un protagonismo inimmaginabile per quei tempi, hanno una drammaticità che emoziona e che coinvolge nella sua icasticità. Ciò che rimane a perenne memoria non è solo il quarto stato che tenta di avanzare e che viene sopraffatto, è il male dell’uomo, la sua insopprimibile cecità egoistica, il desiderio di vincere ad ogni costo, il sopruso perpetrato e giustificato per legge. Oltre a questa visione pessimistica il Manzoni – ripeto, quello del Fermo e Lucia – è presente nello stile e nella scelta del linguaggio: espressioni colte si accomunano ad espressioni dialettali, in questo concedendo cittadinanza anche al Verga e al miglior Pavese. L’erlebte rede è padroneggiato con libertà e sapientemente condotto, strategia letteraria, questa, che evita di trascinare il lettore pagina dopo pagina. L’andamento del romanzo infatti lo obbliga a riflettere, a ritornare sulle pagine lette, confrontando le varie situazioni, i luoghi, i personaggi. E’ un metodo intelligente che sanziona la corresponsabilità di chi fruisce dell’opera rendendolo consapevole di quello che l’autore gli propone.
Come ogni buon romanzo storico accanto a personaggi inventati si fronteggiano persone reali. E’ il caso dello scultore Zosi del quale Banfi ci offre uno spaccato artistico ed umano di notevole intensità. Dice infatti l’autore: Le opere ritrovate e riscoperte svelano un fascino e una bellezza incredibili e sottolineano la parabola dei contenuti stilistici espressivi dello Zosi, che spaziano nelle correnti tra fine ‘800 e primo ‘900 milanese (…) Tra la rara documentazione esaminata, tra quel poco rimasto che il tempo ha roso – topi compresi – e trascinato nella dimenticanza, ho trovato anche testimonianze dirette di quella “inutile” carneficina di inizio ‘900.”  Ed oltre la presenza dello scultore Zosi, oltre le lettere dei militari e dei loro famigliari, oltre le autorità che dispensano medaglie e ricompense, oltre il Pedar che racconta e fa da trait d’union all’intero romanzo, oltre l’anima buona di don Paolo, prete di campagna e consolatore degli afflitti, ci si svelano figure delicate come la moglie del protagonista, la figlia Marisa, purtroppo deceduta durante il parto, il nipote Paolino, un birichino irrequieto ma sostanzialmente ubbidiente. Né mancano i ritratti collettivi, verghianamente corali, come il già citato moto luinese, o l’osteria del Bagàtt,  o la società svizzera “Entreprises- Maçonneries & Cimentages” – situata a La Chaux de Fonds, nel Cantone di Neuchâtel, con gli operai coinvolti nell’impresa, o i lavoratori e le lavoratrici accorsi per la costruzione della trincea che doveva fermare un presunto attacco austriaco dalla parte della Svizzera: la linea Cadorna, appunto.
In tutto il romanzo, poi, emerge un mondo agricolo montagnolo per nulla bucolico o idilliaco, bensì faticoso nella gestione e duro nell’approccio, in cui non sempre la natura ne è madre benevola e consolatrice. Davvero una bella ricostruzione storica di quell’inutile carneficina, per dirla ancora con le parole di Carlo Banfi, degli albori del ‘900 nella visione particolare della Linea Cadorna, abbandonata a se stessa, che esprime ed esplicita il generale atteggiamento di quegli anni, rappresentato nella doppia veste dei vinti e dei vincitori. Non c'è retorica né rimpianti. Solo del sano realismo. Che ci obbliga a meditare sulla vita, oltre che sulla storia, soprattutto in momenti come questi dove l'uomo sembra lasciare il posto a degli ectoplasmi senza anima che stanno in piedi solo in funzione di se stessi e dei loro affari.

Enea Biumi



Paolo Di Paolo “Romanzo senza umani” (Feltrinelli Editore, 2023)

Evidente il cursore che opprime, attende voce di un passato da interpretare, lo struggente redimere i fatti avvenuti o mancati attraverso un...