lunedì 20 maggio 2019


Eros Pessina "Nell'eredità senza tempo"

giovedì 16 maggio 2019

Emilio Rentocchini “44 Ottave” (Book Editore, 2019)


 

 



Un pigro pomeriggio della primavera 1988. La rilettura frenetica dell’Orlando Furioso conquista definitivamente Emilio Rentocchini all’uso dell’ottava. L’endecasillabo ariostesco cattura attenzione e passione verso una forma metrica che conferma poi l’uso del vernacolo sassolese quale rifugio atemporale e mitico. Una riprova è “44 Ottave”, proposto nella collana curata da Nina Nasilli. Testo originale, quindi, nella lingua di Sassuolo e corrispondente variante, come detto in passato da Giovanni Giudici, in una più libera forma d’italiano. L’esito è una rigorosa e preziosa tessitura stilistica di magistrale sapore, seducente e fluttuante in una originaria naturalezza orale che abita la struttura corposa di una fonetica echeggiante e ammaliante, espansa nella temporalità suggerente la significatività inalienabile del contrasto indotto dall’istante. Tra le due lingue, fecondazioni e sviluppi imprevisti generano conduzioni di monadi in partitura a segni sfociante nell’ottava doppia. Allitterazioni assorbono echi su approfondimenti dinamici e ribattuti rimandi attraverso suggestioni di viatico costituente implicazioni materiche e significanti sonorità. Si liberano così pensieri che ricalibrano i suggerimenti di una percezione scampata allo smarrimento, ritrovando i punti di contatto con l’essenzialità degli enti che non eludono quell’apparente “nulla inesprimibile” contaminato dal segreto di ungarettiana memoria. Gli abissi della solitudine sanno diventare cenacoli di preghiera e inducono alla percezione più acuta delle delicate premesse che accompagnano l’osservazione e l’ascolto, la minima convergenza della cerniera. I dissidi sembrano placati dalla paziente opera dell’artigiano trasformato in fine dicitore di una profondità essenziale e incisa nella composizione del sensibile. In una società volutamente privata di effettivi valori umanistici, Emilio Rentocchini recupera e ricrea un linguaggio poetico che pone i cardini di una autenticità quasi rivelata ed immediatamente solidificata nel dettato stilistico. E allora il tempo è fuori dal tempo e coniuga una scansione intrecciata alla ricerca; così “an a tor sò na léngua a la deriva” (“anni a raccattare una lingua alla deriva”), come fosse una forma esplicitata di emozione acustica, di veleggiata saggezza.

 

Andrea Rompianesi

martedì 14 maggio 2019

FABIO DAINOTTI (a cura di) IL PENSIERO POETANTE – IL MITO – GENESI EDITRICE, TORINO, 2017, € 14,00


Il pensiero poetante è un’antologia tematica di poesia e teoria il cui ideatore e direttore è Fabio Dainotti, il codirettore Emanuele Occhipinti e i curatori del settore letterario e filosofico rispettivamente Carlo Di Lieto e Enzo Raga. I temi degli anni passati furono “Gli angeli”, “Il viaggio”, “L’enigma”. Quello attuale è “Il mito”.
Si tratta di un exursus che, attraverso la poesia, il disegno, la saggistica, mette in evidenza il valore del mito come momento fondante della nostra cultura: trait d’union fra il passato e il presente che illumina e accompagna buona parte della letteratura occidentale.
L’esergo ci riconduce a “Il mito dell’eterno ritorno” di Mircea Eliade del 1949 che giustifica lo studio del mito considerato “una vera metafisica” perché, una volta svelati, i miti rivelano, nelle civiltà arcaiche, il desiderio di scoprire la propria identità e la propria ubicazione all’interno dell’universo, mentre nelle civiltà moderne ed occidentali offrono uno spaccato del rapporto uomo-storia. Su posizioni diverse si pone Edgar Morin che comunque ribadisce in un saggio intitolato “Autocritica” l’importanza del mito, intrinseco elemento della “struttura umana”. Si viene in questo caso a giustificare, prendendo a pretesto sponde diverse, la scelta del tema e l’ineludibilità del confronto con il mito.
L’introduzione segna quindi il percorso dell’antologia che ci conduce, rigorosamente in ordine alfabetico, agli autori, poeti, saggisti, disegnatori, presenti con le loro opere significativamente improntate al mito, visto tramite scritti poetici o saggi filosofico letterari. Si tratta di una sintesi che didascalicamente incuriosisce il lettore e lo induce a confrontarsi con i vari testi riscoprendo o la bellezza attrattiva del verso  poetico o la riflessione critica letteraria e filosofica approfondita e sistemicamente strutturata.
Un’antologia da leggere con la lente euristica che vuole apprendere, avanzare, inoltrarsi nella
consapevolezza che la conoscenza acquisita non offre mai nulla di scontato.

ANTONIO MARCELLO VILLUCCI – PER PRODIGIO D’AMORE- GENESI EDITRICE, TORINO, 2017, € 8,50


La civiltà romana, ai suoi primordi, aveva espresso fra le sue più alte forme di religione e di cultura la venerazione per i propri famigliari: i cosiddetti “Penati”, che, affiancati ai tradizionali “Lari”, vegliavano sull’andamento domestico unendo in una sorta di “amorosi sensi” il passato, il presente ed il futuro. Sulla stessa linea gli Incas adoravano “Pachamama”, la Grande Madre, che vigilava sul buon andamento del desco permettendone lo sviluppo e la continuità attraverso i prodotti della terra. Era la dea che nel ciclo delle stagioni acconsentiva e dirigeva la vita. “Per Prodigio d’amore” richiama sotto un certo aspetto, e comunque in una visione del tutto contemporanea, entrambe le concezioni religiose appena sottolineate. Da una parte propone quella particolare devozione per la famiglia sotto le ali protettive di Dio (“Tu sei il Signore/ che segue i miei passi sulle strade”) e dall’altra presenta il ritmo del tempo imbrancato nel lavoro febbrile ma propizio e vitale dei campi (“Nei solchi tracciati dalla marra/ spuntano i primi frutti della terra”). Si può affermare che ogni pagina della silloge poetica di Antonio Marcello Villucci ripercorre un rapporto intimo, intenso e religioso fra l’autore e la propria famiglia, condotto nell’armonia generale del tempo e della natura. Il richiamo al passato offre lo spunto per una riflessione sul presente nella convinzione che sia quasi d’obbligo lasciare una traccia di sé, così come gli avi avevano dimostrato e proposto. Non è però un’eredità materiale quella che il poeta ha ricevuto e che a sua volta affiderà ai posteri, bensì spirituale e letteraria “per nuovi orizzonti/ lungo la sequenza degli anni”. E in un simile percorso “di libri nell’età/ che tende all’infinito” si distende e si amplia lo sguardo di Antonio Marcello Villucci tra “una capanna di paglia”, una “casa di povera gente”, “un dagherrotipo ingiallito”, alcune “dimore signorili” esaltate dalla “policromia dei marmi”, nella stessa Amatrice ferita “dalle faglie della Terra”, mentre ricalca le orme che il viaggio della sua vita gli ha concesso e che ora tende ad esaurirsi (“Ora erompe la vecchiaia/ spenta e dolente/ nell’opaco cielo invernale”). E non sono solo i ricordi che si affacciano serenamente con dolcezza e delicatezza amorevoli, ma anche le cose, gli oggetti (del quotidiano e non), la natura stessa che si ripete a distanza di anni (“Nelle sere fredde d’inverno/ m’era compagno mio padre”; “mentre la mamma sullo sporto della panca/ arredava di scarpe, corpetto e gonnella/ l’ultima nata in uscita per la festa”; “Il nonno in riposo sulla panca/ sogna le fatiche che l’attendono l’indomani”). Tutto ciò regola e regala i versi in un andante continuo, armonioso e ben strutturato, offrendo al lettore il ristorno di una convivenza a dir poco perfetta, sebbene spesso intrisa di dolore e nel dolore redenta, perché a supporto rimane la fede, la consapevolezza di un arrivederci al domani, nella dimenticanza della tristezza dell’oggi (“Incappai nel turbine del Nulla/ quasi a pelo d’acqua,/ quando un angelo o un dio/ mi fecero d’àncora soccorso”; “Due lastre in marmo sovrapposte/ avranno i nostri volti”). La natura, in questo quadro, fa da sfondo e supporta, in una visione che alcuni potrebbero definire panica, il poeta, invitandolo al raccoglimento e alla riflessione (“Sulle mie tracce s’adunano/ ninfe ed Oreadi in ascolto”; “Mi porto dentro il profumo dei fiori”; “Con l’alba l’anima lascia i tremori notturni”). E, attraverso la sublimazione della natura, soffuso nei versi si libra l’amore, che propone d’altra parte - e giustamente - il titolo dell’opera. E’ l’amore che l’autore devotamente rivolge al padre e alla madre in momenti che ne esaltano l’autorità e l’influenza per l’impegno terreno e per la consacrazione del “dopo-vita”; è l’amore per i nonni che ne rammenta i sacrifici e la lealtà, nonché la pervicacia educativa (“Giuseppa aveva tirato su i figli/ timorati di Dio ma anche cresciuti/ tra abbondanza e doveri/ mentre il suo sposo era su nave oltreoceano”); è l’amore per la moglie (“Sfioro in sogno il tuo volto”; “Ascoltavo la tua voce di fanciulla/ resa varia da un refolo di vento/ che mi rendeva la gioia/ d’altri chiari mattini”); è l’amore “Per la mia ultima nata” o per il nipote Lorenzo: in una parola è il prodigio. D’amore, appunto.

LUCIA MONTAURO – L’ENIGMA DEI PENSIERI NASCOSTI – GENESI EDITRICE, TORINO, 2018, € 10,00


 
I termini “tempo” e “vita” sono forse i vocaboli che maggiormente ricorrono nella silloge poetica di Lucia Montauro “L’enigma dei pensieri nascosti”. E sembrano quasi essere un filo rosso sopra il quale la poetessa approda in punta di piedi, senza rumore od urla inconsulte, e che percorre con apparente leggerezza (leggerezza ritmico formale, non certo di contenuto), sorvolando quell’immenso e periglioso abisso che sta tra la vita che spazia nel tempo e la morte. Il titolo stesso dell’opera parrebbe indicare un mistero o qualcosa di indefinito ed indecifrabile cui però è necessario aggrapparsi per poter andare oltre: dove non si sa. Così l’enigma è tutto nei pensieri che la poetessa incorpora e traduce osservando il mondo circostante. La sua decifrazione sarà la presa d’atto dell’imponderabilità dell’esistenza la cui complessa e difficile imperscrutabilità rimanda ai classici della letteratura. In tal guisa i pensieri nascosti sembrano disvelarsi al lettore con un pudore e una delicatezza del tutto femminile, sebbene ad una più significativa lettura ciò si traduce in una voce formidabilmente forte e stentorea. I suoi versi richiamano ciò che noi siamo o che vorremmo essere, subiscono il fascino di una meditata epifania volta a scandagliare animi e volti, natura e metanatura. Così facendo la poetessa ci indirizza verso l’essenza stessa della sua scrittura che è raffinatezza del dire e del sentire, come giustamente annota Maria Luisa Spaziani.
Si apprende, purtroppo, dalla nota introduttiva di Giorgio Seropian che questa silloge è l’ultima fatica di Lucia Montauro, pubblicata postuma, ma da lei stessa preparata e raffinata poco prima del “compimento del suo destino terreno”. Grazie a questa precisazione iniziale alcune liriche assumono un significato epigrammaticamente tragico, sebbene la levità della scrittura trascenda e, per dir così, oltrepassi l’immanente drammaticità. In quei versi riecheggia, infatti, il respiro di un’anima che guarda oltre le cose perché ha in sé il senso dell’infinito: “un segnale profetico/ urlato dalla bocca di Eolo/ dio vanitoso del vento/ pianto di morte/ che la notte sovrasta e respinge.” Ecco allora che la realtà si frantuma in rivoli di memoria, in ricerca paziente di rimandi, di metafore nascoste, come i pensieri, che riemergono dal silenzio dove “l’attesa fa rifiorire più volte/ la vita”, dove “il giorno e la notte/ tingono il nostro cammino/ con chiaroscuri tappeti/ d’erba selvatica e nebbia”. Sta in questa sfida tra il possibile e il fattibile, tra la carnalità del vissuto e la spiritualità della preghiera che Lucia Montauro offre momenti di intensa liricità scoprendo  e rincorrendo “fantasmi felici”, “scenari aperti alla vita/ con distillati di succhi/ appaganti per l’anima”, perché il procedere si fa più responsabile, fra paesaggi idilliaci e passaggi “senza risposte ideali”, in cui i responsi appaiono inafferrabili e sembrano inseguire interrogativi ancestrali perché “viviamo paure incontrollate/ come conchiglie svuotate/ per mancanza di mare/ o alghe sinuose/ che accarezzano il corpo/ per non farci perdere/ nell’infinita nullità”.

Sandro Gros-Pietro intervista Chicca Morone

Augusto Zucchi presenta Sandro Gros-Pietro
Vivere è raccontare

"Il cavalieri, la contessa, il santo" di Roberto Lo Piano

"La taverna di Yannis" di Adelfo Maurizio Forni

"La maschera della grande Eugene" di Paola Grandi

"Intrigo nell'impero napoleonico" di Fabrizio Olivero

"Cara Mamma, ti prometto che tornerò presto" di Carlo Bosso e Liaqat Kasemi

martedì 7 maggio 2019


"Fratello cattivo" di Sandro Gros-Pietro - Neos Edizioni