I termini “tempo” e “vita” sono forse i vocaboli che
maggiormente ricorrono nella silloge poetica di Lucia Montauro “L’enigma dei
pensieri nascosti”. E sembrano quasi essere un filo rosso sopra il quale la
poetessa approda in punta di piedi, senza rumore od urla inconsulte, e che
percorre con apparente leggerezza (leggerezza ritmico formale, non certo di
contenuto), sorvolando quell’immenso e periglioso abisso che sta tra la vita che
spazia nel tempo e la morte. Il titolo stesso dell’opera parrebbe indicare un
mistero o qualcosa di indefinito ed indecifrabile cui però è necessario
aggrapparsi per poter andare oltre: dove non si sa. Così l’enigma è tutto nei
pensieri che la poetessa incorpora e traduce osservando il mondo circostante.
La sua decifrazione sarà la presa d’atto dell’imponderabilità dell’esistenza la
cui complessa e difficile imperscrutabilità rimanda ai classici della
letteratura. In tal guisa i pensieri nascosti sembrano disvelarsi al lettore
con un pudore e una delicatezza del tutto femminile, sebbene ad una più
significativa lettura ciò si traduce in una voce formidabilmente forte e
stentorea. I suoi versi richiamano ciò che noi siamo o che vorremmo essere,
subiscono il fascino di una meditata epifania volta a scandagliare animi e
volti, natura e metanatura. Così facendo la poetessa ci indirizza verso
l’essenza stessa della sua scrittura che è raffinatezza del dire e del sentire,
come giustamente annota Maria Luisa Spaziani.
Si apprende, purtroppo, dalla nota introduttiva di Giorgio
Seropian che questa silloge è l’ultima fatica di Lucia Montauro, pubblicata
postuma, ma da lei stessa preparata e raffinata poco prima del “compimento del
suo destino terreno”. Grazie a questa precisazione iniziale alcune liriche assumono
un significato epigrammaticamente tragico, sebbene la levità della scrittura
trascenda e, per dir così, oltrepassi l’immanente drammaticità. In quei versi riecheggia,
infatti, il respiro di un’anima che guarda oltre le cose perché ha in sé il
senso dell’infinito: “un segnale profetico/ urlato dalla bocca di Eolo/ dio
vanitoso del vento/ pianto di morte/ che la notte sovrasta e respinge.” Ecco
allora che la realtà si frantuma in rivoli di memoria, in ricerca paziente di
rimandi, di metafore nascoste, come i pensieri, che riemergono dal silenzio
dove “l’attesa fa rifiorire più volte/ la vita”, dove “il giorno e la notte/
tingono il nostro cammino/ con chiaroscuri tappeti/ d’erba selvatica e nebbia”.
Sta in questa sfida tra il possibile e il fattibile, tra la carnalità del
vissuto e la spiritualità della preghiera che Lucia Montauro offre momenti di
intensa liricità scoprendo e rincorrendo
“fantasmi felici”, “scenari aperti alla vita/ con distillati di succhi/
appaganti per l’anima”, perché il procedere si fa più responsabile, fra
paesaggi idilliaci e passaggi “senza risposte ideali”, in cui i responsi
appaiono inafferrabili e sembrano inseguire interrogativi ancestrali perché
“viviamo paure incontrollate/ come conchiglie svuotate/ per mancanza di mare/ o
alghe sinuose/ che accarezzano il corpo/ per non farci perdere/ nell’infinita
nullità”.
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