Artigiano tipografo, ha iniziato a
comporre ad età avanzata, dimostrando una vena poetica maturata nell’amore per
le tradizioni locali e il dialetto della sua città. Forse poco conosciuto
nell’ambito varesino, nonostante la sua appartenenza al Cenacolo dei Poeti e Prosatori Varesini e Varesotti, fu ed è
sicuramente apprezzato e stimato nell’ambiente bustocco dove ha collaborato
assiduamente al mensile “Comunità”
della Parrocchia di San Michele Arcangelo di Busto Arsizio, nonché con il
Centro di Animazione dell’Istituto “La Provvidenza” sempre di Busto Arsizio. Ha
partecipato a diverse rassegne di carattere dialettale, ricevendo numerosi
riconoscimenti e nell'arco di pochi anni, ha pubblicato le seguenti raccolte di
poesie: “Tià sìa a lumbria”, “Ul mèrlu
sül curnà”, “I paòl di nostar genti”, “Sètas ch’a ta lu cöntu”.
In una così vasta e varia produzione
poetica, benché concentrata in pochi anni, si susseguono ritratti
piacevolissimi e gustosi, come vere e proprie bosinate in dialetto bustocco, il
cui fine è la celebrazione di un’etica connessa con la tradizione e la moralità
sedimentata nel tempo e nel territorio. L’amore per la sua Busto non lo porta,
come spesso accade nei dialettali, ad una celebrazione encomiastica dei luoghi
e dei personaggi, bensì ad una rielaborazione di storie e di racconti, sempre
in rima, che fanno emergere la sensibilità umana, oltre che poetica, di
Candiani, tutta volta alla percezione e alla decriptazione della realtà.
Lo sguardo del poeta non è tanto sul
passato, quanto sul presente, sulla fatica del quotidiano, sulle aspettative o
sulle gioie promesse o sperate. Esiste, in vero, un po’ di nostalgia,
soprattutto se il passato viene confrontato con il presente, ma il tutto è
stemperato nella benevolenza e nell’ironia che attenuano gli errori (o gli
orrori) della vita e dissipano malinconie e tristezze.
Come afferma la prof. Lidia Mari Crespi
nella prefazione a “I paòl di nostar
genti” in Mario Candiani si ritrova il “gusto
del narrare, l’abilità di far muovere personaggi, credibili nella loro
autenticità bustocca, come in una scena del teatro comico, suscitando nel
lettore – che si fa quindi anche spettatore – un’immediata curiosità e
divertimento.” E’ la caratteristica,
questa, della scrittura bosina di cui il poeta, pur nella ritmica del vernacolo
bustocco, si appropria concentrando in una dialloge sapiente e spesso
inaspettata le sue storie originali, mai lontane dal confronto con la realtà
dove il presente è giudicato con bonarietà, affetto e disponibilità. I
personaggi che vi appaiono, proprio come se fossero su un immaginario
palcoscenico, offrono il dialogo realistico della gente comune ed il senso di
una appartenenza provvisoria perché il palco che si calpesta è destinato ben
presto a scomparire.
Ruit hora, sembra ripetere con i latini. Ma nonostante ciò la vita prosegue, con
le sue incongruenze, con le sue aspettative, con le sue incognite, dove però la
Fede ha il sopravvento sulla storia e sulle tribolazioni. Il tutto costruito
con un dialetto(*) che risalta ed arricchisce dialoghi, riflessioni
e descrizioni, come ogni parlata, del resto, vicina al sentire della gente.
Enea Biumi
(*) Il dialetto bustocco, a differenza delle altre parlate lombarde, ha conservato alcune fondamentali caratteristiche "liguri". Ad esempio: l'assenza della erre tra due vocali (lauá, paóla) e la presenza delle atone finali, non solo -u (ögiu, téciu) ma anche le atone che portano a dire: tredasi, miliúni, sciguetúni e non tredas, milión, sciguetón. Si veda il saggio di Luigi Giavini in “Grammatica della lingua bustocca, vocabolario italiano-bustocco”, Centro culturale San Michele, Busto Arsizio, 1996.
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