martedì 23 giugno 2020

Emanuele Bettini “Il giorno e l’amore” (Book Editore, 2020)

 
 
“Quando la notte si ritira, lasciando filtrare la luce, lo sguardo cerca la dimensione del nuovo giorno e appare l’Alba. Presso gli antichi greci si chiamava Eos...”. Con tale premessa introduce il suo esito in poesia “Il giorno e l’amore”, Emanuele Bettini, scrittore, traduttore, storico, non nuovo alla vicinanza tematica con spunti riferiti alla sensibilità ricettiva verso il mito greco e gli intrecci culturali, stimolati dalla opzione del dialogo e dalle suggestioni coerenti. E’ un rivolgersi lirico alla seconda persona singolare, ove le attese, quasi affilate da rosee dita, coniugano silenti aspettative e travagli di inabissati contorni. E’ corollario di un’alba simbolica che tratteggia il verticalismo dei testi, comportando esitazioni diramate attraverso lo scalare dei pertugi e degli anfratti offerti alla dinamica delle variazioni fonetiche e termiche; quasi un ancoraggio disciolto nella possibilità del palpito, oltre un’ ansa ove “la notte s’acquieta/ nel remare della mia barca” scrive Bettini, osando la tensione della prossimità auspicata o echeggiata perché “”Il fiume ha spazzato/ la piena dei ricordi”. Si segnala, leggero, un tono di abbandono all’inesorabile lontananza di ciò che evoca un passato remoto, per questo non solo sostanzialmente mitizzato ma comunque esternato in un drappeggio “dove anche il pianto/ può essere/ tempesta/ irrefrenabile/ come vento/ contro le imposte/ chiuse dal tempo”. E il verso breve a vocazione di sintagma condiziona le vocalità dei sentimenti espressi in una condizione metatemporale. L’avvio indica plausibili esempi quali il volo impossibile di Icaro, la ricerca di Ulisse o Giasone. Ancor più struggente, poi, la vicenda di Orfeo e Euridice. Il canto poetico capace di commuovere gli dei ma non di evitare le ineluttabilità del destino. E’ una potenza amorosa quella che il poeta evoca, portandola alla contemplazione quotidiana dell’avvertibile sensibilità propria delle schegge di natura estendibili ai vigori diurni e alle contemplazioni serali. Le tessiture auspicate contendono al controllo espressivo la dinamica del percepibile ascolto enumerato negli umori ansiosi della domanda. Croce, anima e canto, dunque, anafora e accenni di illocutorio concentrano la trama del reiterato accorrere a stilemi in coerenza di dettato. E’ sofferta e incessante ricerca di altro e di oltre, di un’aura femminile che sembra rievocare certe figure muse, angelicate, ritratte in percorsi poetici singolari quale fu, in un contesto mitomodernista, quello di un autore come Dorian Veruda, nelle conferme al dato ricettivo che concesse Rosita Copioli. Attenzioni quindi alle suggestioni della mancanza, quella che incide il segno quotidiano, libera l’invocazione e la domanda, “regala la rete dove la solitudine è furia/ che trascina la mia passione” scrive il poeta; decide le sorti di esiti in naufragio. Allora si affronta la difficile esperienza di saper interpretare tutto ciò che rifugge, che alimenta le strategie di risposta al disagio, quello che si accampa, che deturpa le possibili espressioni della nostra fuga impedita; accorpa i silenzi estroversi alla spazialità votati, determinando l’assedio costante che cinge i fianchi e allenta solo nell’attimo estorto della prevedibile resa, al timore esausto accogliente quei silenzi al rompere dell’alba, come tracciato in versi che furono di Francesco Marotta. Il sangue dirama segnali di ferite individuali e collettive, epoche segnate dalla rigenerazione dei propositi che ostentano consapevoli debolezze. Emanuele Bettini riconosce però il destino umanistico del tracciato: “persino l’acqua tra le pieghe della terra/ e più simile al volto/ che al deserto bagnato”. Un lirismo accompagna la pena del distacco dalle cose; il dicibile evoca l’accatastato oltraggio destrutturando il pensiero nell’opposta linearità del verso ed oltre... “c’è per tutti/ un po’ di pietà/ se il muro divide/ l’infinito dal cielo”.
Andrea Rompianesi
 

giovedì 11 giugno 2020

Alessandro Ricci “Tutte le poesie” (Europa Edizioni, 2019)

Singolare esito questo volume antologico, curato da Francesco Dalessandro, che ripropone l’insieme dell’opera poetica di Alessandro Ricci (1943-2004), figura particolarmente appartata e di profonda espressione stilistica. Il volume contiene i due titoli pubblicati in vita dall’autore (“Le segnalazioni mediante i fuochi”, “Indagini sul crollo”) e i tre editi postumi (“I cavalli del nemico”, “L’arpa romana”, “L’editto finale”). Come afferma Michele Ortore nella prefazione, la scrittura di Ricci è complessa ma per lo più “ragionativa”; aggiungerei particolarmente sofferta e attraversata da due corsi che anelano alla partecipazione esegetica. Da un lato la memoria storica e mitica che affonda le radici nei più articolati riferimenti all’antichità classica, dall’altro il personale e privato sentire posto all’offerta della pagina, l’io denudato da orpelli e svelato nel pudore del concesso; tale solo perché combattuto come ogni amore lacerato. Una connotazione evidente lo porta spesso all’uso calibrato del poemetto, ma sempre in una formula che riesce a valorizzare la tenuta timbrica del verso anche nell’approccio discorsivo, differenziandosi nettamente su questo piano da sviluppi e recuperi storicamente evocati da nomi e voci come avviene ad esempio nelle formule del monologo in versi proprio di un autore come Roberto Mussapi. Nella poetica di Ricci il tono è totalmente autentico, a volte irritato per una postura in esistenza mai scontata o prevedibile. L’appello della sua voce sulla pagina impone attenzione e domanda, quella ricezione accorta che scorge il guizzo esponenziale dove nasce inatteso. Al di là di un impianto ricco di sintagmi colti, latinismi, grecismi, arcaismi e tonalità policrome, quindi anche tracciate da espressioni più concrete e dicibili, una compattezza severa ed esigente conclude l’operato sulla pagina nel momento definitivo della delimitazione di ciò che svolge e che conquista inoltre il diritto alla vocalità immediata resa pensosa dall’uso dell’enjambement, dal dubbio che chiede prove d’amore impossibili. Ricci sembra quasi richiamare un dio a cui dice di non cedere, affacciandosi alla necessità della bellezza nella sua peculiare presenza in ogni cosa, pensando che la religiosità cristiana sostenga che bella sia l’anima sola. Tutto il contrario. E’ proprio il Cristianesimo, in realtà, quello autentico, che trova la bellezza nel concreto seme più piccolo, nella sua beltà creaturale ancora indifesa, proprio perché il cuore del messaggio evangelico ci rivela che il Regno è già tra noi, e qualsiasi intolleranza non può certo essere giustificata da chi ci invita persino ad amare i nemici. La domanda del poeta, allora, affonda nel solco della distribuzione di un bisogno emotivo, struggente e, allo stesso tempo, culturale, che sia auspicio di una vertigine pagata col prezzo della disputa, dell’irrequieto accadere dei crolli reiterati. Chi legge è spinto alla voglia di dialogare con l’autore, di soffermarsi su parentesi di trattato alla luce di una esigenza esistenziale misurata nella solidità di una figurazione mai gratuita, scontata; sempre acuta, invece, interrogativa, esigente perché mossa da quel rovello interiore e perenne che rivela l’intimità dell’artefice, lo nutre di squarci quotidiani e mitici che s’intrecciano. Particolarmente suggestivo anche l’uso del verso breve: “Nel golfo balenavano/ le correnti soltanto,/ in mosse pigre di nuvola”; quando è accorto il sentire di ciò che scuote, agita, “ed è già ieri, dilaga/ l’appena stato”, e ancora: “Poi ricomincia./ E’ una fine potente,/ spettacolare, da/ vergognarsi”. Il luogo, la topografia romana in particolare emerge in tratti estremamente nitidi e incisi, a volte quasi scolpiti da perizia nomade, perciò indocile: “Come hai fatto a estrarre un cielo/ dai tetti e rondini valorose e il colore/ ocra della città, o le conversazioni...”. Una maestria poietica concentra strutture lessicali in imprevisti innesti che rendono acuti e profondi i confini della versificazione e positivamente stupisce il tocco maturo del rimando: “Già dunque oltreautunno è arrivato qui,/ è carica la strada di gente calda/ sotto i cappotti e che chiasso bene o male/ si leva, tamburo assai più di pifferi cresce/ e sale ma non sbarazza/ questo freddo improvviso...”. Il tono di Alessandro Ricci è temerario, le sue strofe sanno dirsi pensanti e variabili nella lunghezza, in una conduzione abile e attenta del periodo; riavvolte nell’abdicazione a ciò che imprime l’usuale, scegliendo il recupero accolto nelle trepidazioni che guardano a storie e cenni proponenti le peculiarità dei riflessi classici di miti trascinati sulla strada randagia del vissuto, e quando le parole si fanno più comuni e transitabili è allora, in quel momento, che l’avvenuto rilascio pone i vocaboli in una successione imprevista. Li mischia nella concretezza del loro essere scrittura di pensiero. A volte, in lontananza, sembra di cogliere echi della poesia di Leopardi e Pascoli, annunci di un cammino nella vanità del tutto sul far della sera. Ricci è autore che incide i suoi versi sulla pelle del vissuto, in una partecipazione che non può dirsi mai parziale, ma interamente testimoniata dalla stessa forza di una corporeità gettata nello spazio della pagina quale luogo da abitare nella consapevolezza dello stesso rischio esistenziale. “Vissi della corona sul picco,/ il tempio nell’astratta nube/ di devozione che saliva, scoprendo poco/ a poco la linea di confine errante/ fra mare e rena, nella stagione nata/ insieme al giorno, all’ora...”; è l’erranza quindi in una visione duplice del vagare e del poter sbagliare, in una profonda domanda che incunea e svolge inquietudini agostiniane. C’é poi un senso di rimpianto diffuso echeggiante figure femminili, amori che hanno deluso; domanda sulla possibilità di trattenere qualcosa che inevitabilmente sfugge o non mantiene la peculiarità della promessa. I tempi si avvicinano, s’intrecciano; la sofferenza di Catullo è quella del contemporaneo sentire che ridisegna le agnizioni e ripete i timbri inagibili del rifiuto, dell’attardato ritrarsi, dell’inappagato contorno. Molto evocata la figura del padre, un riferimento di forte ausilio, una memoria esperita nella disanima del legame apparentemente perduto, scrive Alessandro Ricci: “E poi mai, mai/ potrò dirtelo e toccarti di nuovo”. Ma noi sappiamo che ogni bene consacra, rimane; così confidiamo in un incontro avvenuto, presente, notando che ancora “laggiù si leva/ il fumo delle colazioni”.
                                                                                                                                               Andrea Rompianesi