“Quando la notte si ritira, lasciando filtrare la luce, lo
sguardo cerca la dimensione del nuovo giorno e appare l’Alba. Presso gli
antichi greci si chiamava Eos...”. Con tale premessa introduce il suo esito in
poesia “Il giorno e l’amore”, Emanuele Bettini, scrittore, traduttore, storico,
non nuovo alla vicinanza tematica con spunti riferiti alla sensibilità
ricettiva verso il mito greco e gli intrecci culturali, stimolati dalla opzione
del dialogo e dalle suggestioni coerenti. E’ un rivolgersi lirico alla seconda
persona singolare, ove le attese, quasi affilate da rosee dita, coniugano
silenti aspettative e travagli di inabissati contorni. E’ corollario di un’alba
simbolica che tratteggia il verticalismo dei testi, comportando esitazioni
diramate attraverso lo scalare dei pertugi e degli anfratti offerti alla
dinamica delle variazioni fonetiche e termiche; quasi un ancoraggio disciolto
nella possibilità del palpito, oltre un’ ansa ove “la notte s’acquieta/ nel
remare della mia barca” scrive Bettini, osando la tensione della prossimità
auspicata o echeggiata perché “”Il fiume ha spazzato/ la piena dei ricordi”. Si
segnala, leggero, un tono di abbandono all’inesorabile lontananza di ciò che
evoca un passato remoto, per questo non solo sostanzialmente mitizzato ma
comunque esternato in un drappeggio “dove anche il pianto/ può essere/
tempesta/ irrefrenabile/ come vento/ contro le imposte/ chiuse dal tempo”. E il
verso breve a vocazione di sintagma condiziona le vocalità dei sentimenti espressi
in una condizione metatemporale. L’avvio indica plausibili esempi quali il volo
impossibile di Icaro, la ricerca di Ulisse o Giasone. Ancor più struggente,
poi, la vicenda di Orfeo e Euridice. Il canto poetico capace di commuovere gli
dei ma non di evitare le ineluttabilità del destino. E’ una potenza amorosa
quella che il poeta evoca, portandola alla contemplazione quotidiana
dell’avvertibile sensibilità propria delle schegge di natura estendibili ai
vigori diurni e alle contemplazioni serali. Le tessiture auspicate contendono
al controllo espressivo la dinamica del percepibile ascolto enumerato negli
umori ansiosi della domanda. Croce, anima e canto, dunque, anafora e accenni di
illocutorio concentrano la trama del reiterato accorrere a stilemi in coerenza
di dettato. E’ sofferta e incessante ricerca di altro e di oltre, di un’aura
femminile che sembra rievocare certe figure muse, angelicate, ritratte in
percorsi poetici singolari quale fu, in un contesto mitomodernista, quello di
un autore come Dorian Veruda, nelle conferme al dato ricettivo che concesse
Rosita Copioli. Attenzioni quindi alle suggestioni della mancanza, quella che
incide il segno quotidiano, libera l’invocazione e la domanda, “regala la rete
dove la solitudine è furia/ che trascina la mia passione” scrive il poeta;
decide le sorti di esiti in naufragio. Allora si affronta la difficile
esperienza di saper interpretare tutto ciò che rifugge, che alimenta le
strategie di risposta al disagio, quello che si accampa, che deturpa le
possibili espressioni della nostra fuga impedita; accorpa i silenzi estroversi
alla spazialità votati, determinando l’assedio costante che cinge i fianchi e
allenta solo nell’attimo estorto della prevedibile resa, al timore esausto
accogliente quei silenzi al rompere dell’alba, come tracciato in versi che
furono di Francesco Marotta. Il sangue dirama segnali di ferite individuali e
collettive, epoche segnate dalla rigenerazione dei propositi che ostentano
consapevoli debolezze. Emanuele Bettini riconosce però il destino umanistico
del tracciato: “persino l’acqua tra le pieghe della terra/ e più simile al
volto/ che al deserto bagnato”. Un lirismo accompagna la pena del distacco
dalle cose; il dicibile evoca l’accatastato oltraggio destrutturando il
pensiero nell’opposta linearità del verso ed oltre... “c’è per tutti/ un po’ di
pietà/ se il muro divide/ l’infinito dal cielo”.
Andrea Rompianesi