“Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura”. Così leggiamo nel celeberrimo L’infinito di Leopardi. La mente si spinge oltre la siepe, che non è ostacolo invalicabile, ma solo confine naturale, e naturalmente sormontabile, tra il qui e ora della tangibile realtà e l’impalpabile altro che il pensiero immagina pur non vedendolo. Immaginario che la nostra immaginazione (si scusi l’inevitabile gioco di parole) partorisce: un immaginario che è in un altrove ma nello stesso tempo nel nostro pensiero, perché gli “interminati spazi” si allargano e allocano all’interno della mente. Se, per dirla con il Sartre de L’immaginaire, la percezione implica l’osservazione, l’immaginazione è invece totale. Così, nell’immensità si annega il pensiero per Leopardi, che si fa eterno e infinito. L’immaginazione – l’immaginario – è un trasumanare umano, troppo umano. E in questo immaginare, secondo Sartre – per tornare a lui – siamo “ontologicamente liberi”. Per quanto questa libertà possa fare leopardianamente paura.
La poesia
di Isabella Michela Affinito dà voce poetica alla celebre opera delle
Grazie di Antonio Canova, perché «anche la pietra di cui sono fatte si muove
perché s’abbracciano, come cinto è il triade pensiero che giungerà agli
artisti». Lo sguardo magico della sua visionarietà creativa incanta e inchioda
l’immaginario al fluido vitale dell’Altro, in una morsa stringente di bellezza
estatica. La poesia sedimenta, per accumulo, questo scenario dell’alterità e
il verso diventa il collante privilegiato di questa interazione straordinaria.
La ricerca dell’Altro e l’impulso alla disappartenenza calamita lo sguardo
attento del poeta in questi versi di straordinaria bellezza; fievole e leggero
è il tono della poesia di Sebastiano Aglieco, che, nel suo immaginario,
indulge a un ricordo dolce, ma inquietante. Le tracce mnestiche delineano
un focus irradiante di una visionarietà creativa, coinvolgente ed
empatica. L’immagine di questa nostalgica memoria è ferma nella mente del
poeta con i suoi risvolti perturbanti, creando “uno spazio dilatato fino ai
confini del cuore”. La poesia di Sauro Albisani è un acuto scandaglio
del suo io “disajutato”; leggero come una piuma è il suo verso nella
trasfusione di alcune immagini, che colgono la genuinità sorgiva del suo
fantasma interiore, sospeso tra l’essere e la necessità, in un
rapporto di reciprocità interattiva di una sabiana “parola onesta”. Delicata è
l’espansione dell’io poetico di Sandro Angelucci, in un dettato
lirico proteso verso l’altrove. Mediato da un’immagine pura, delimita
limpidamente il suo afflato, proiettandolo in una “dimensione indefinibile”. La
risonanza dell’illimite è in questi versi, disincantati e calamitanti, che
trascinano in un’aura di un’agnizione celestiale. Immagini icastiche di un
sobrio impulso poetico costellano il dettato lirico di Claudia Azzola,
assediato da un “arcano ricordo”. La poesia diventa per lei un’oasi
pacificatrice e liberatoria dal “pensiero dominante” e da un mondo “algido,
alieno dai sogni” di “una strana condizione del vivere”. Il dettato poetico
di Fabia Baldi è condensato nel fluido vitale del sentimento amoroso,
costruito su un climax di notevole spessore elegiaco. La sua
tenerezza è una proiezione di straordinaria radialità dell’immaginario,
restituita alla ricerca dell’Altro e al suo sguardo magico. “L’inquieto
sentire” viene placato nel rifugio dell’“amato Bene” nella “dolcezza del
crepuscolo” e nella “seduzione dell’alba”. Il rapporto inesausto con il Tu procede
per improvvise folgorazioni e per scatti improvvisi di straripante bellezza, il
cui centro d’irradiazione parte dagli occhi e porta direttamente al cuore.
Carezzevoli sono le immagini, che delineano la poesia di Enea Biumi. Pura
e sincera è l’ispirazione, collocata in una dimensione alta, nel tempo
preterito della memoria. Nel ritessere la trama dei ricordi, il poeta accende i
sinistri bagliori del cuore, alimentando la fiamma della nostalgia. I nuclei
fondativi della poesia di Corrado Calabrò, nell’acuto respiro poematico
del dettato di Roaming, sono visti attraverso la sfera celeste, nel
bagliore tenue delle costellazioni, nell’evoluzione espansiva
dell’inappartenenza, nell’insondabile mistero della condizione umana. Siamo
oltre i limiti dell’infinito, sedotti dal tocco magico di questi versi alati. È
lo stato di grazia di chi coglie lo spazio dell’infinito multidimensionale, nel
teatro dell’io, dietro il milieu metaforico della poesia. La straordinaria
radialità dello scenario onirico e la genialità espressiva diventano il segno
della sua eccellenza poetica. Immagini deliziose e accattivanti sono
materia dell’empito poetico di Franco Campegiani, quando crea poeticamente
l’intreccio della storia di Pinocchio e di Alice. Sulle ali della fantasia il
coagulo della sua poesia è costruito, in modo mirabile, su un immaginario, la
cui radialità è proiettata verso un oltre, irraggiungibile e misterioso.
Incantevole e soave è la densa poesia lirica di Marina Caracciolo, soffusa
di echi di “vaghe memorie” e adombrata da “ambigue presenze” dell’ignoto. Le
immagini si disegnano in modo netto ed eloquente, ritagliando spazi innocenti
di un’acuta visionarietà. L’illusoria avventura di Robinson Crusoe è
nell’immagine suadente di Tiberio Crivellaro, che ci restituisce un
sentimento di esulità e di solitudine essenziale. L’avventura e la sfida sono
in un mondo altro, vagheggiato da questa preziosa invenzione della
creatività del poeta.
Su una similitudine, protratta per l’intero spazio poetico, tra parto reale e metaforico (quello poetico) si gioca il testo di Edith De Hody Dzieduszycka, che anche mediante l’utilizzo di versicoli univerbici rappresenta iconicamente il “cordone” a cui è “allacciata” “la poesia nuova / desiderata bimba”. Leggiadra e liberatoria è l’immagine poetica di Francesco D’Episcopo, segnata da un sentimento forte di vena pascoliana e scandita da un convincente empito di straordinaria freschezza. Il poeta sogna, evitando gli scontri dell’inconsistenza umana, ma “sovra gli altri com’aquila vola”, ignorando gli effetti nefasti del disinganno e della caducità dell’Esserci. Nel candore dei versi di Carlo Di Legge c’è un’ansimante pulsione di morte, espressa attraverso immagini nitide, di un forte afflato poetico. Il tracciato emozionale è segnato dalla rete associativa della parola, che si correla all’immagine, nel disvelamento trasversale dello struggimento dell’Essere. Nell’ottica disarmonica del Fuori di Chiave, la pittura pirandelliana viene analizzata da Carlo Di Lieto, in funzione dell’immagine, sul versante dell’esegesi psicoanalitica. L’estraneità dell’io, fantasmatizzata, viene disvelata nel gioco ambiguo dei contrari e sul clinamen degli scenari dell’alterità. Il ritratto dell’Autore viene alla luce nelle risonanze simmetriche delle vibrazioni interiori, che dilatano il paesaggio della natura e quello della mente nei colori della sua pittura. Delirio e sogno sono accomunati dall’immagine, per perlustrare il fondo segreto delle latebre inconsce di Pirandello, nella diuturna dialettica di vita e opera. Tra l’apparenza e le meraviglie del sensibile e i “pensieri contrastanti” si dipana il testo di Annitta Di Mineo, in uno scenario dagli incerti “confini”, dove la sospensione della ragione dà il la al dilagare dell’immaginazione.
È un immaginario umanistico quello di Enrico Fagnano, oltre che “perfetto”, come recita il titolo del suo testo, una perfezione leibniziana ritenuta possibile al di là dell’imperfetto mondo attuale. Come qualcuno ha detto, un “ottimismo della volontà” per realizzare ciò che le idee riescono comunque a concepire. La dimensione comunitaria (“Uomini / che camminano / insieme / ad altri uomini”) trova però forza a partire da uno sguardo introspettivo (“Io sono / la mia memoria”, “Io sono / le mie domande”, “Io sono il mio respiro”) che però si proietta fuori di sé (“Io sono l’altro”) per realizzare una comune libertà. Per Paolo Fichera l’immaginario sembra essere ciò che è rimasto ancora sospeso tra l’evento non accaduto e ciò che appare invece dimenticato o non detto (“Quel che non accade resta / sovrano, eppure cade / tra i grani di una parola impronunciata / fedele alla stirpe d’Eleusi”; “Forse che dimenticata possa accadere?”), come se fosse necessaria un’iniziazione per addentrarvisi. La scrittura, elegante e levigata, si nutre di riferimenti cólti che vanno dal mondo della mitologia antica a quello delle arti figurative (Eleusi, Rodin, Renoir). Le immagini si susseguono con forza fantasmatica, laddove per fantasmatico s’intende sia il favoloso, sia l’inafferrabile (“Chicchi d’uva travalicano neve, / perde nel bianco la terra la fame / precisa, la fiamma nel giglio / leviga mani, guance, neve / inesauribile tra terra / in incanto: atroce terra”). Antonio Filippetti mette in discussione il valore salvifico dell’immaginazione; “immaginazione è il migliore / dei mondi possibili?” si chiede rovesciando la fiducia di Leibniz e spezzando con un enjambement e un rientro del verso successivo la stessa espressione del filosofo tedesco lasciando “migliore” a pencolare monco nel verso precedente e isolando a capo i mondi possibili. La speranza sembra essere diventata illusione, e il cassetto dei sogni appare irrimediabilmente chiuso. Se uno spiraglio rimane aperto è che la forma interrogativa se da un lato appare mera domanda retorica, dall’altro assume pure l’aspetto d’un interrogare ancora aperto. Luigi Fontanella, dalla sua nuova patria, gli Stati Uniti, dove vive da decenni, all’immaginazione sostituisce la percezione del tragico dato sconfortante fornito dai sensi. Attraverso il diaframma trasparente della finestra lo sguardo sembra spingersi ben oltre il suo “amato albero” e la scena, lo scenario sembrano diventare il tragico mondo dei nostri giorni. Se l’albero, che è la vita, è diventato suo fratello, non si può non pensare all’autodistruzione verso la quale invece corre lo svolgersi del nostro tempo: “E penso di colpo, per contrasto, / all’autoannientamento / di tutto ciò che abbiamo costruito, / al cadavere oramai rattrappito / di quella madre in fuga / con l’umile sporta / delle sue bagatelle, / a quei due figli stramazzati a terra, / ai rigagnoli di sangue rappreso / sul suo viso contratto”. Sono “visioni incrociate”, come le “stagioni incrociate” di cui in precedenza Fontanella ha scritto, due realtà diverse, quella pacificata e rasserenante che vede dallo schermo della propria finestra, quella tremenda e perturbante che proviene dai monitor televisivi, di oggi ma anche di ieri. Di sempre. La musica è l’arte del tempo, non c’è musica senza lo scorrere del tempo, ma non ci sarebbe neanche la vita in un punto fisso nell’atemporalità, ci dice Sonia Giovannetti; ma anche la poesia musicalmente è arte del tempo: la puoi trovare fissata per sempre sulla pagina, ma è nata dal movimento della scrittura, della mano sul foglio, e vive nel tempo della lettura, del movimento degli occhi sulla pagina. Ma, sinesteticamente, la musica è anche luce che fuga le ombre: “C’è un bordo oscuro nelle cose / ma c’è chiarezza nelle note che / muovono il suono: non morirà / così il verso nel percorso del dire”; “Eppure resta il suono / dei panni stesi al sole, / musica di un rimpianto / che non si estingue”. La musica che ci vibra dentro e vibra nelle cose riaggancia anche il passato: “Mio padre è ancora là, / col bastone in mano / a tracciare linee sulla polvere rimasta”. L’immaginario per Vincenzo Guarracino s’insinua nella disposizione stessa dei versi sulla pagina, non solo: entra nelle parole e le spezza, le deforma, ne trae altri echi. La Pagina è un Telaio che tesse e disfa parole e frasi (“verifica l’ans(i)a del fiume la ferita / la rotta segnata l’ombra conosciuta, per / es(empio)…”) lasciando incompiuto il senso che si ricompone – se si ricompone, se è necessario che si ricomponga – al di là della pagina stessa. Il segno diventa un sogno che ha le regole apparentemente anarchiche del sogno (che pure ha una sua normatività): “discende l’occhio è reale (altrove) / alterni golfi che ora (a cerchio) (in sogno) / il segno registra in volo (inventa) ap- / punta il centro”. E si lascia tronco il famoso assioma scolastico fatto proprio da Locke – “nihil in intellectu nisi prius in” – e integrato da Leibniz: nisi ipse intellectus. E qui infatti l’intelletto gioca con sé stesso e in sé stesso trova un immaginario verbale. Narrazione surreale, quella di Giorgio Linguaglossa, polifonica e a tratti sincopata: non a caso, il riferimento alla musica attraversa tutto il testo, una musica killer che uccide uccelli e fiori. E un finale noir inatteso (ma forse non tanto) in chiusura. L’atmosfera straniante è introdotta da un misterioso K. che non si sa se identificare con il più famoso K. della letteratura mondiale, ma il fatto che fumi un sigaro cubano smentirebbe l’ipotesi: “K. esce dal tempo. Rientra nel tempo. Nel presente. / Notte. Pioggia. Ombrello. Sotto l’ombrello, il cappello. K.” Ma non si sa di cosa essere sicuri: “«Le parole tradiscono le parole», disse K”. E l’autore si fa chiamare in causa da una delle voci che interloquiscono nel testo: “È un peccato che Lei non abbia stile caro Linguaglossa”. Cosa che certo non si può dire di questa particolare scrittura poetica. In una sorta di incubo ci trascina soprattutto il secondo dei due testi di Roberto Lombardi. Ma già il primo, “dedicato” alla pubblicità, ci proietta in un mondo in fondo irreale: “di cosa parla? d’illusione. la sua. / l’ha detto la pubblicità / che può essere magra e grassa / non importa l’importante è che / sia libera. libera da che da che cosa? / non lo dice. la pubblicità non lo dice / non dice da questo o da quello. libera”. Pubblicità che incontriamo anche nel secondo testo: “una mucca morta in una pubblicità giammai / una fetta di sangue sì una fetta sola con parsimonia e meglio se cotta / se ben cotta / ma l’intero animale l’intera morte no”. Ma la morte della mucca introduce al tema dell’inevitabile scomparsa personale, tutti destinati a nuotare nello stesso lungo e interminabile sogno, che è appunto un incubo, un insostenibile immaginario. Ai cigni di New York, appunto Swans, s’intitola il testo di Eugenio Lucrezi dedicato alla moglie Paola. Ma che il musicista Eugenio non alluda anche alla band omonima attiva dal 1982 sulla scena newyorchese? Alla fine scrive infatti “Un gruppo Gothic / così vola / Tra lacrime, / the Swans”, e la loro music fu pure detta gothic rock: quindi l’autore confessa. Musicalmente, il testo si articola in una serie di haiku – almeno li chiamiamo così perché tutti di tre versi brevi – nei quali i cigni effettivamente compaiono (“Cigno ritagli / L’acqua e l’aria / Senza ferire foglia”) in una serie di fotogrammi, fenomenologia della grande mela vista attraverso piccoli scorci che pure spingono a trovare altro senso negli spazi bianchi tra una stanza e l’altra del testo essenziale e raffinato: “Il cigno veglia / Dorme l’eme / La clorofilla sogna”. Immagini di giovani ragazze attraversano i testi di Angelo Manitta: “seni fanciulli”, “lo sguardo diafano della ragazza / che trasforma in pura luce / deserti di miraggi”, “fanciulle inebriate / da vaghi corteggiamenti”. Un’atmosfera soffusa pervade i versi, talvolta inquietante, talaltra malinconica. Se troviamo “labili oscurità”, c’imbattiamo anche nella “carezza d’una mamma” e ci muoviamo tra un che di fiabesco e la tenera quotidianità. Uno scarto è rappresentato dall’ultimo testo, dove domande senza risposta s’interrogano sul perché d’una scomparsa prematura di una bambina: eppure è come se fosse ancora tra noi: “Ma tu vivi e corri / e sorridi e mi abbracci: immagine / sciolta in un bacio”. La serie delle “e” congiunzione è come se rafforzasse questa presenza assommandone le manifestazioni.
La composizione di Irene Marchegiani, Metamorfosi,
risulta come sviluppo immaginario della terzina iniziale, dove l’angelo,
oggetto di fede dell’ava, costituisce la base di ogni rapporto d’amore.
L’angelo “laico”, infatti, con la sua luce per la poetessa è fonte di ogni
valore vitale e umano: fortezza, gentilezza, gioia, affetti imperituri,
rinnovamento ad ogni svolta della vita. Tra luci ed ombre, con l’aiuto
dell’immaginazione, e sforzandoci di scandagliare i meandri della memoria,
possiamo cercare di capire i vari risvolti della realtà e della vita. Infatti,
secondo Adriana Gloria Marigo nel gruppo di sette poesie ancora
inedite, non è facile neppure cogliere il significato delle parole e delle
frasi: bisogna spesso osservare le movenze degli sguardi per interpretare e
capire l’esistenza delle persone; è necessario ricorrere alla fantasia e
all’intuito per percepire il mistero dei movimenti del sole e della luna e per
trovare una spiegazione al crescere e al morire degli alberi, per cogliere il
senso del differenziarsi dei fregi nei blasoni e negli stemmi dei casati e dei
raggruppamenti umani. Il rumore prodotto dallo scorrere di un fiume (nella
lirica Le fronde di un salice) o l’infrangersi delle onde sulla riva del
mare (nella lirica La spuma del mare) risvegliano nell’animo della
poetessa, Manuela Mazzola, sensazioni e immagini varie. Presso il fiume la
vicinanza di un salice frondoso evoca l’affollarsi delle vane illusioni
giovanili mentre la spuma marina, sciogliendosi, rappresenta l’evanescenza dei
sogni, che, come corpi perduti per sempre negli abissi, non avranno nessuna
possibilità di realizzarsi. Le due liriche si fondono in un’unità poetica per
l’affinità della tematica. Come la mangusta, animale carnivoro, un tiranno è
capace di stritolare un gran numero di persone. Nell’Ode alla Mangusta
Occidentale Vincenzo Moretti ricorrendo all’immaginazione ci offre la
metafora di questa micidiale bestiola per denunziare i casi di varie dittature,
quale quella cinese, che ha fatto milioni di vittime, o quella attuale operata
dal russo Putin aggressore della Georgia e dell’Ucraina. I mass-media, afferma
l’autore, tuttavia, pur mostrando ostilità, attenuano i toni per il timore
dello scoppio di conflitti atomici, anche se c’è da augurarsi che prima o poi
la mangusta volga contro “Vlad” i propri denti. Nella composizione poetica, in
verità di sapore un po’ prosastica, Adolescenza, di Giampiero Neri,
si riscontra un tuffo nella lontana adolescenza. Adesso l’autore non dà molto
spazio all’immaginazione, ma rivive lucidamente diversi risvolti di quell’età,
anche se allora una certa visione fantastica o bizzarra della vita non gli
mancava. Vengono rievocati i vari rapporti con un amico coetaneo già compagno
di scuola, con la madre e con il padre: il tutto tra un diffuso senso di
insoddisfazione e di voglia di cambiamenti. La lirica Sacrilegio, di Emanuele
Occhipinti, denunzia la malvagità di gran parte degli uomini e, portando il
discorso sul piano religioso, immagina persino che essi sarebbero anche capaci
di ricattare il Padreterno. Infatti, dopo aver martirizzato e messo a morte
Gesù Cristo, se Egli non avesse portato in cielo il proprio corpo certamente lo
avrebbero usato per escogitare ricatti a Dio al fine di ottenere introiti in
denaro. Il guadagno economico, pertanto, è considerato dall’autore il movente
più rilevante dell’ingordigia e della corruzione nell’ambito dell’umanità. In
un gruppo di sette brevi poesie (L’inesistenza della morte, Vorrei vederti tu,
Sul bordo del libro, Uno che mi somigliava, Un bel cervello, Inzuppo gli errori
fatti, Autostrade interrotte) Ernesto Ponziani dà sfogo alla propria
immaginazione. Ora c’è la speranza di non morire mai, ora l’illusione di vivere
senza essere osservato, ora lo spargere petali di ortensia al passare di una
bella donna, poi l’illusione dell’incontro con una persona che gli somiglia
perfettamente, poi ancora il desiderio di un’intelligenza superiore, quindi la
rassegna degli errori commessi, infine la considerazione che parte dalle unghie
maltenute. Enzo Rega ripercorre le riflessioni di Jean-Paul Sartre
sull’immaginario, un tema che ha affascinato il filosofo francese fin dai suoi
primi passi nella filosofia: ben due opere si susseguono negli anni che
precedono l’uscita del suo capolavoro, L’essere e il nulla. Non stupisce
questa precoce attenzione di Sartre per l’immaginario se si considera che ha
accompagnato la riflessione filosofica con la scrittura di romanzi e drammi e
con l’analisi della musica. Rega concentra la breve nota proprio sul rapporto
che Sartre individua tra arte e immaginazione, considerando l’opera d’arte non
una mera realizzazione dell’immagine mentale dell’artista: anzi,
l’oggetto dell’arte, come tout court quello dell’immaginazione è un
oggetto irreale che sì, si serve della realtà materiale per oggettivarsi,
ma trascendendo il reale stesso.
Con tutta una serie di figure allusive Davide Riccio espone la condizione dell’esistenza umana, soprattutto nella composizione poetica Cascame. C’è, innanzitutto, l’ingresso nella storia fra trasformazioni e metamorfosi, tra speranze e delusioni, in un alternarsi di ferite paragonate alle punture dei tafani e la fede nella sopravvivenza dell’anima dopo aver lasciato il corpo. L’altra lirica, Pareidolie, pur nella conferma delle varie traversie esistenziali, rivela l’accettazione della vita così com’è. L’espressione è allusiva e metaforica. Al di là del semplice significato che a prima vista esprimono, le parole spesso rivelano concetti ben più profondi e inaspettati. Nella Magia dell’immaginazione Paolo Ruffilli mette in rilievo che ciò può avvenire grazie alla sonorità e alla varietà delle sfumature che i vocaboli possono assumere nell’ambito del discorso scritto o parlato tra pause, silenzi, allusioni, che costituiscono il lievito dell’immaginazione in chi legge o ascolta. Emerge, così, la vera natura delle parole, che vengono qualificate come “assetate di libertà”. Eugenia, probabilmente vittima quindicenne di un assassino di cui non si conosce il volto, dà il titolo alla composizione poetica di Laura Sagliocco. La poetessa si sofferma sui tratti della ragazza a cominciare dall’infanzia, magari aiutandosi con l’immaginazione: gioie semplici, spontanee, il flusso dei capelli e le movenze delle labbra carichi di eleganza e di fascino; tutti elementi che denotavano un’alta spiritualità protesa verso valori celesti. Quelle di Eugenia erano qualità che rappresentavano il meglio della natura, e la poetessa si augura che i suoi versi ne proteggano il fulgore. Antonio Spagnuolo nella composizione poetica divisa in quattro titoli (Richiami, Misteriosa, Candore, Storia), evoca la compagna della propria vita tra silenzi, tremiti, paure e ricordi. Il poeta riflette sul mistero del silenzio eterno che caratterizza la morte, sulle promesse della giovinezza, sui momenti incantevoli trascorsi sotto il chiaro di luna, sul rinnovarsi dei rapporti amorosi, tra carezze occasionali, anche nell’avvicinarsi della vecchiaia. Ora, conclude il poeta, non mi rimangono che rari ed evanescenti desideri passionali. Le tre liriche di Imperia Tognacci (Germogliano sogni, Nel respiro della notte, Verso la sconosciuta riva) ci accompagnano attraverso il nascere della vita e lo scorrere del tempo. Con la nascita “si apre la porta del tempo”, lungo il quale se ci guardiamo allo specchio osserviamo come mutano via via le fattezze del nostro viso. Le singole vite sono come delle piccole luci che si accendono nel buio profondo, dove si muovono innumerevoli galassie e “rosari di stelle”. Nell’ambito di questa immensità si verificano misteriosamente “amori, trionfi e sconfitte”. Cesare Vergati nella composizione D’inavventura secondo natura ci propone tre pagine di parole in libertà, senza punteggiatura e senza concordanze, in assenza di nessi sintattici e grammaticali; insomma, un gioco di immaginazione, che affida alla fantasia del lettore più che al suo gusto personale. Anche sul piano logico tutto sembra affidato al caso e alla successione di espressioni e vocaboli, talvolta di originale invenzione (a cominciare dal titolo), che fanno pensare a un puro divertimento, anche se dal sottofondo è possibile captare una profonda preoccupazione esistenziale. Il tutto sembra voler riprodurre il disordine che misteriosamente esiste nella natura, cui già sembra alludere il titolo.
Per Matteo Veronesi, l’immaginario risiede in sé stessi, plotinianamente
si diventa visione in un gioco ossimorico: “accesa cecità, tenebra ardente”. È
appunto una visione cieca, persa nel nulla: “Nulla intorno ha più senso – /
spettro ogni corpo, larva / ogni moto di vita”. Ogni vita sembra ripetersi in
un eterno ritorno dell’identico, come in un cerchio senza uscita, in
un’ontogenesi che non è che mera e stanca ripetizione della filogenesi: “Perché
se non per ripetere l’orma con l’orma – / eco / il passo al passo che precede e
segue – / cammino senza tempo, prigioniero e danzante / che se stesso ripete,
nel suo cieco cerchio…”. Alla fine non sembra esservi un immaginario, un
altrove. È disponibile a far rotta verso l’immaginario Giuseppe Vetromile anche
se il viaggio sarà difficile e poche le luci a indicare la rotta. Entusiasmo e
amara consapevolezza sembrano alternarsi nello sguardo del viaggiatore: “E
intanto cerco luce / cerco la fiamma della vita / quella che lasciai sfinire
dentro le zolle / in una notte d’apocalisse”. Agli interminati spazi
dell’infinito fa da contraltare l’immagine di un anonimo e quotidiano
condominio, uno di quelli che spesso abbiamo visto comparire nella sua poesia.
Ma qui è abbandonato in una terra livida e buia che ci ricorda il mondo
popolato di macerie nel quale viviamo. Ma non tutto sembra perduto: “vedo lo
zampillare di un’antica vita / quella che fluiva nelle mie vene / prima di
quest’addobbo finto / che è la mia pelle // viaggerò di notte / dissetandomi
alla fonte del perdono”.
La Redazione
Unicuique suum: i testi che vanno da Affinito a Di Legge sono stati commentati da Carlo Di Lieto. Quelli da Di Mineo a Dzieduszycka da Fabio Dainotti. Quelli da Fagnano a Manitta e quelli di Veronesi e Vetromile sono stati commentati da Enzo Rega, che ha redatto anche la parte generale della premessa. Da Marcheggiani a Vergati sono stati commentati da Emanuele Occhipinti.
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