“L’albergo
dei morti” è una silloge-diario-poetico che spazia tra gli affetti del
poeta e ne traduce le emozioni, i dubbi, le incertezze, i rimorsi. Il percorso
è quello del quotidiano vissuto in uno spirito che raccoglie le più svariate
sfumature dell’essere: uomo, amico, amante. Il tutto dosato e bilanciato
attraverso una lente che ne esalta la specificità e inquadra le liriche in un
attento gioco di contrappunti sonori volti ad accendere l’attenzione del
lettore e a distribuire musicalità e potenza ai versi che si dispiegano come
appartenessero ad un album fotografico di ricordi. “Amaramente
soffia e spinge il vento / le onde
sul litorale abbandonato; / pare il
suono di un corno desolato. / Quanto
tempo è passato, un anno, cento.” Testimoniano
l’aspetto diaristico le dediche che l’Autore pone a numerose poesie qui
inserite. Dediche che danno il “la” e vivacizzano volti, situazioni, luoghi.
Ecco allora che tutto si anima in una specie di esame di coscienza seralsolitario
per un confronto con la propria esistenza: la memoria di ciò che è stato fatto
e di ciò che si sarebbe potuto fare. Ma non c’è rimpianto. Il poeta non vuole
consolazione né commiserazione. A volte rimane un sorriso, a volte subentra il
dolore, a volte appaiono desideri inesprimibili o inespressi. Il tutto, però,
senza inutili e fastidiose lamentazioni. Lo spazio della vita, sembra voler
sottolineare l’autore, è talmente breve che non ci si può soffermare sui
reclami. “Mi sento
sollevato: / non voglio
essere interrato / da solo,
senza tutti i miei parenti; / da solo,
come sono sempre stato.” Si entra
allora in questo grande “albergo dei morti” e si fotografa il vissuto,
lo si studia nei suoi meandri più profondi e occulti, ci si interroga su
occasioni perse o sprecate, si firma il registro posto sul banco della
reception che è poi, come dicevo all’inizio, un diario poetico. “Ci sono
ancora rose nei rosai, / le rose
che profumano (e non colsi), / nel
giardino incantato della villa (…) / E tu,
fuggita via, forse per sempre. / Ingiustamente. / Forse./ Amaramente.” Da
sottolineare il fatto che pur nella componente diaristica le poesie non sono
presentate in forma cronologica, se cronologia esiste questa ha la
caratteristica dell’interiorità o del fluire della coscienza. Il poeta,
dapprima, ci introduce nel suo mondo con una lirica dedicata al fratello (Al
fratellino già vecchio) per poi passare alle sue prime amicizie in cui fa
capolino la sua sensibilità, il suo disagio, la sua solitudine che sconfina con
un quasi isolamento sociale. “nei
viaggi ho perduto il mio cuore / dover
andar dove / non
ti aspetta nessuno / quanti
fiori ho calpestato / quanti
amori ho rifiutato / Torino
Genova Roma / per
l’altro mondo si cambia.” Il sentimento
comunque che prevale è l’amore in tutti i suoi aspetti, familiari, autorevoli,
evocativi, in tutti i suoi momenti di gioia, di speranza, di attesa, in tutti i
suoi anfratti di malinconia, ironia, compiacimento. E come nel più classico
schema tradizionale ecco che l’amore viene accostato alla morte, rievocata tra
l’altro nel titolo stesso della silloge. Il tutto ancora una volta stemperato
in una serie di composizioni che tendono ad abolire il tragico sostituendolo
con l’oggettiva realtà del normale. “Se
sfiori i tasti bianchi e neri, come / i
tuoi pensieri, rondini volate / oltre
mare per sempre, / forse
è per caso, forse in sogno, infatti / si
muove la tua chioma al ralenti.” E ancora: Scene
di vita, stanza interno tre, / del
popolare vecchio casamento, / dove
la vita scorre sempre uguale / e
moriamo ogni giorno, ogni momento: / ma
il faut tenter de vivre, sì, tentare / di
vivere sapendo di vivere.” Tuttavia, la
poesia di Fabio Dainotti trascende spesso il suo io e lo amplifica fino a consegnarlo
al lettore, il quale, consapevolmente o no, lo traduce nella sua vita, nelle
sue abitudini, nei suoi comportamenti, passati ed attuali, rivestendolo, se
così si può dire, con il proprio quotidiano. Non si tratta infatti solo della
“sua” Milano, della “sua” Vigevano, della “sua” Agropoli. Città, paesaggi,
viaggi, così come ci vengono presentati dal poeta, appartengono a tutti, sono
di tutti. Come di tutti sono i sogni, le delusioni, gli amori. L’io dell’autore
diventa l’io del lettore che si vede coinvolto e trascinato in esperienze
simili alle sue. "Uomini
di dolore, disperati, / affondando
tra le ondate/ con
gli occhi dilatati dall’orrore / alzavano
al cielo / le
braccia che reggevano bambini / per
dargli ancora un attimo di vita.” In
definitiva ne sorte un viaggio, a tutto tondo, entro l’anima del poeta, che ripercorre
luoghi, persone, accadimenti che lo hanno formato, ai quali Dainotti offre
pagine di autentica consapevolezza e amorevole acquiescenza. È un ricercare il
senso della vita, spesso oscurato da inganni e mistificazioni, con le sue
piacevolezze, le sue virtù, le sue cadute. Attraverso una specie di flashback
interiore l’autore si guarda allo specchio e disvela al lettore l’importanza di
essere se stessi in ogni momento ed in ogni luogo, sia esso Agropoli o Milano,
perché non è tanto l’apparire agli occhi dell’altro che plasma l’uomo ma il suo
atteggiamento di fronte alla vita: una corporeità richiamata in continuazione
dalla propria caducità e dalla presenza della morte.
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