EXCUSATIO NON PETITA
"A me sembra che
l'arte di parlare bene
sia quella di farsi capire..."
(Domenico Balestrieri)
Questa riflessione porta a termine, o
forse riapre e prosegue, un percorso nato, e da me intrapreso, negli anni
settanta sull'uso e l'utilità della scrittura dialettale.
Nato e cresciuto in un clima di ostracismo dialettale, sebbene poi il dialetto
fosse di casa nella parlata dei miei, percepivo comunque la scrittura in lingua
come un abito stretto. Sentivo il deficit di qualcosa. Un deficit che cercavo
di scoprire nei toni "bassi" di Pavese, ma che ancora non rendevano
giustizia al vuoto espressivo di un mondo e di un modo che non riuscivo a
cogliere nella sua completezza. Né lo potevo.
Fu allora la scoperta del pastiche linguistico di Gadda che mi aprì vie nuove e
per me inesplorate. Lessi l'Adalgisa con una voglia matta di riscatto. Ne
imparai le pieghe. Ne copiai i segreti. Insomma, rivedevo con occhi differenti
anche quei classici della letteratura, buttati lì quasi per caso, e che si
chiamavano Ruzante, Maggi, Goldoni, Porta, Belli. Da lì il passo successivo fu
lo studio del teatro di Bertolazzi, Defilippo, Martoglio, Fo e Testori, nonché
alcuni cosiddetti minori e tra questi il milanese Bertini.
Sostegno critico ed estetico, oltre il canzoniere e la passione e ideologia di
Pasolini, fu l'introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo all'Antologia dei Poeti
Italiani del Novecento, uscita nel '78 e permeata di novità, una delle quali
appunto l'attenzione ai poeti dialettali. C'erano dei passaggi, condivisi in
toto, che mi piace riprendere come punti fermi sui quali improntare una
giustificazione, se ce ne fosse necessità, della scrittura dialettale.
E parto dalla boutade di Contini secondo cui parlare di poesia dialettale non
avrebbe maggior dignità epistemologica di quella di poesia femminile, per
arrivare a sottolineare come la poesia in dialetto "può e deve essere
interpretata anche, globalmente, come atto di rifiuto e opposizione, magari in
articulo mortis, alla sempre più spietata rapidità del processo di
accentramento livellatore che sta completando la distruzione, avviata
all'origine dello stato unitario, di quelle variatissime differenze e
peculiarità di lingua e di cultura che erano una delle ricchezze, e delle più
originali, del nostro paese".
Allo stesso modo in una recente riflessione Camilleri sottolineava come
"la guerra che subito dopo l'Unità d'Italia si cominciò a combattere più o
meno scopertamente contro i dialetti, e che raggiunse il suo apice negli anni
del fascismo, è stata un'insensata opera di autodistruzione di un immenso
patrimonio. Si è scioccamente visto il dialetto come un nemico della lingua
nazionale, mentre invece esso ne era il principale donatore di sangue."
E' vero altresì che esiste una miriade di varietà dialettali. Parlo di quello
che conosco: in una provincia piccola come quella di Varese, se la radice, il
ceppo, le fondamenta del dialetto appartengono al milanese, si nota una
sequenza di variazioni centrifughe rispetto all'originale, che in alcuni casi fanno
parlare, senza giustificazione scientifica dal punto di vista linguistico, di
"altro" dialetto. E' il caso, ad esempio, del cosiddetto
"bosino", o dialetto che si parla a Varese, che comunque unitario non
è, perché nello stesso si concentrano differenze, tra paese e paese, tra rione
e rione.
Si vede quindi come sia abbastanza improprio regionalizzare un dialetto. Voglio
dire: non si può parlare di dialetto lombardo, e per quello che mi risulta,
piemontese, ecc. Anche perché ogni scrittore crea un suo proprio dialetto che
tra l'altro non sempre risulta essere quello parlato. Penso a Loi, ad esempio.
In quest'ambito la lingua della realtà tende a diventare, come è stato
sottolineato, lingua della poesia, tanto che Mengaldo parla di dialettalità
endofasica, non pesando sul dialetto norme e convenzioni grammaticali e
"perciò garante della massima autenticità individuale che in sostanza
immane in buona parte delle poetiche dialettali post-decadenti."
Da qui la verginità del dialetto e la possibilità di costruire ex-novo, una
specie di avanguardia linguistica su cui è possibile innestare novità e
originalità, quasi fossimo davanti ad una novella scuola siciliana cui nessun
Dante - o toscano - può cambiarne le peculiarità, ricordando, alla fine, che lo
stesso Alighieri operava su un terreno linguistico tutto da scoprire. Altri poi
imposero la sua scrittura come punto d'arrivo, ignorando del tutto o quasi il
suo de vulgaris, che non inglobava,
bensì esplorava.
Strano destino davvero quello del poeta fiorentino. Per molto tempo eluso, se
non escluso, dal cenacolo degli intellettuali italiani, ottiene la sua
rivincita solo nella rivendicazione di uno statu quo che non era nel suo stile
("fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtude e
canoscenza) anche perché, come detto, fu lui a proporre e ad esaminare
minuziosamente, come si usava nel Medioevo, i vari volgari della penisola.
Certo, oggi, le cose sono cambiate. Il suo dialetto, cioè il
toscano-fiorentino, si è imposto come lingua unificatrice dell'Italia,
letteraria e non. Ma la supremazia di quella lingua non ha cancellato - o per
lo meno, non ha cancellato del tutto - quegli altri linguaggi che, fino al
secolo scorso, appartenevano al popolo e quindi rifiutati, in linea generale,
dal potere, sia culturale che politico. Si pensi, ancora una volta, al fascismo
e a quel suo vietare l'uso del dialetto, sebbene ai suoi albori (siamo nel
1925) un sussidiario per le elementari (Chiomaverde, a cura di Ismaele Mario
Carrera) conteneva tra le proprie pagine proverbi, poesie e modi di dire in
dialetto milanese e simile. E questa era l'introduzione: "Giovane lettore!
Questo libro è tutto consacrato alle glorie della tua terra natale, quella che
tu ami di più, e che è giusto tu conosca prima di ogni altra. Ma è bene che tu
non creda che altre regioni siano meno gloriose della tua Lombardia. Ogni
regione ha le sue glorie e le sue ricchezze. Pensa dunque, quanta è, tutta
insieme la gloria d'Italia." Parole di novant'anni fa, e che valgono
tuttora, tradite da un'insipiente politica e da un'altrettanto miope cultura
ufficiale.
Eppure ancora a tutt'oggi quei linguaggi resistono ed esistono, nonostante la
massificazione dovuta al livellamento linguistico della televisione, con
contaminazione dapprima del romanesco, fino agli anni settanta, e
successivamente del milanese con l'avvento delle tv private.
Accanto ad una lingua "italiana", infatti, si sono tramandate altre
lingue, con le quali il popolo si esprime e delle quali soprattutto i poeti
hanno creato un loro specifico modo di scrivere e descrivere. Per dirla con
Lucio Pallavera "dentro l'anima di un popolo c'è un impasto di storia e di
tradizioni , di tenacia e di religiosità, di modi di vivere e di gustare la
vita". E quest'anima si esprime col proprio linguaggio che è quello che
noi chiamiamo, anche impropriamente, dialetto.
Perchè dico impropriamente? Perchè il dialetto è sempre stato considerato, fino
a poco tempo fa, un modo "inferiore" di esprimersi. E qui sta lo
sbaglio. Come modo espressivo, il dialetto è una vera e propria lingua. Chi
conosce un po' di letteratura italiana sa come lo scontro tra dialetto e
italiano sia stato molto duro soprattutto a partire dalla fine del settecento.
E sa anche le risposte che i vari intellettuali hanno dato per difendere o per
denigrare il dialetto. Ma sa anche che la letteratura italiana ha avuto nel
quattrocento un passaggio elitario: fu il fenomeno del cosiddetto
"umanesimo". In quel momento si ruppe un rapporto: la cultura - e
quindi la lingua con la quale detta cultura si trasmetteva - divenne di pochi e
per pochi.
Già Dario Fo aveva notato una simile frattura portata avanti con disinvoltura
dalla cultura ufficiale. Si veda il suo commento alla poesia di Ciullo d'Alcamo
(Ciullo e non Cielo come riportano in gran parte i testi scolastici per non so
quale pudore).
Dicevo, dunque: l'umanesimo riconosce solo la propria produzione, rifiutando in
toto quello che viene dal mondo contadino e popolare. Che comunque crea proprie
canzoni, proprie poesie, proprie favole e soprattutto un proprio teatro. Dico
soprattutto perché il teatro, per sua natura, è l'elemento più conosciuto a
livello dialettale (sarà forse per questo che Croce negò sempre la possibilità
di una estetica teatrale?). Ruzante, Carlo Maria Maggi, Francesco de Lemene, lo
stesso Goldoni sono autori teatrali che hanno fatto del dialetto un momento
topico della loro produzione. Ma non si possono dimenticare poeti che, voltando
le spalle ai vari petrarchisti di mestiere, seppero imporsi con le loro opere.
Considerare questi al di fuori della letteratura o appartenenti, come spesso si
usa dire, ad una letteratura minore mi sembra cieco e fuorviante. La storia ha
poi fatto il suo corso. E ci ha restituito un Belli, un Di Giacomo, un Porta,
un Viviani, un Marin, un Tessa. L’elenco si fa lungo e quasi sicuramente
pareggia o forse supera i poeti in lingua.
Ciò che spesso, ma non
solo, accomuna i dialettali - sebbene non sia solo una loro prerogativa, sia
chiaro - è la voglia di raccontare, di indagare, di scoprire quello
che c'è in se stessi e quello che c'è nel mondo. Le parole sono semplici,
certo. Ma esprimono nella loro concretezza la verità. I termini altisonanti ed
aulici li lasciamo al mondo accademico - quel mondo che continua ad andare
avanti nel nome di una cultura che non appartiene al popolo: un mondo
autereferenziale, criptico, che sembra far apposta nel non farsi comprendere.
La validità del dialetto sta dunque nella sua
spregiudicata forza per irrompere, anche portando traumi, nel panorama
letterario italiano del terzo millennio. Sostenere la scrittura in vernacolo
può apparire, sotto un certo punto vista e di primo acchito, una battaglia di
retroguardia. Una battaglia destinata a perdersi. Non è così invece per il
critico Giorgio Barberi Squarotti (purtroppo recentemente scomparso) col quale
fin dagli anni 80 ho intrattenuto una corrispondenza letteraria per me
utilissima, ritenendolo un valido maestro. La sua risposta ha in parte
contraddetto le mie riflessioni amare sul dialetto. Ha sostenuto innanzitutto
la validità del vernacolo, in secondo luogo lo ha additato come momento
poeticamente importante. Si sa che la poesia è ritmo, suono, colore. Ecco, nel
dialetto, sosteneva il professore, colore, ritmo e suono sono gli elementi
qualificanti che la lingua italiana spesso non possiede. Non è una difesa.
Barberi Squarotti lamentava di non sapere usare il vernacolo. E' una
costatazione. Poi, possiamo dire che il "nostro" dialetto per
particolarità socio-economiche (immigrazione, vergogna, ignoranza ed altro) è
solo sulla carta dei poeti o nelle tradizioni canore. Ma esiste una gran parte
d'Italia dove il dialetto è vivo e "parlante". Penso a scrittori come
Camilleri o Laura Pariani, dove a mio avviso il loro linguaggio è un siciliano
o bustocco italianizzato. In quest'ottica si muovevano nel secolo scorso Gadda
e Testori. La trilogia degli scarrozzanti è un esempio di impasto linguistico
notevole, così come l'Adalgisa (che ogni tanto vado a rileggere per
divertirmi). Manzoni è un grande scrittore non solo per i Promessi sposi,
risciacquati, si sa, nell'Arno, ma anche per quel Fermo e Lucia che era un
pastiche linguistico tra italiano, milanese, francese e perfino latino. La mia
preferenza va a quest'ultimo, naturalmente. Il dialetto sarà pure destinato ai
Musei, ma che i Musei non siano distrutti.