mercoledì 16 gennaio 2019

Gilberto Isella “Arepo” (Book Editore, 2018)

“Mai si raggruma limo su chiodi d’assito/ né in pance d’alambicchi ombra è tenuta”; eccelso esempio di una magistrale architettura linguistica, questo distico iniziale fa parte di una poesia di “Arepo”, opera di Gilberto Isella. Autore di preziose figurazioni letterarie, tra i più significativi della generazione nata negli anni Quaranta del Novecento, Isella appare sempre più teso verso un vertice creativo che abbina l’esemplare costruzione poetica nella meticolosa definizione del significante con la profondità filosofica della identificazione del particolare nascosto ed enigmatico nel significato. Il titolo evoca l’elemento compreso in una antica iscrizione latina in forma di magico quadrato composto dalle parole sator, arepo, tenet, opera, rotas, capaci di determinare un palindromo. Ma l’autore non si sofferma su aspetti esoterici, privilegiando l’osservazione problematica nella sua inquieta dinamicità. Se l’esserci stesso in quanto tale è di per sé dinamico, secondo l’accezione espressa da Heidegger, l’esserci poetico ancor più infonde sostanza alle sfumature che acquisiscono toni ontologici. La materia deve riconvertirsi in forma capace di distinguere le personali attitudini che sensibilizzano cromie e fenomeni, emblemi e riemersioni, devozioni in un considerare aligero che scorre. Ma certo se il giallo è impaziente e non placa, trasferire i tratti inattuali è determinare il segreto possibile decifrarsi dei sintomi. La malinconia è trascinata dallo scorrere di tempi ubiqui, lontani dalla nostra capacità di coglierli se non sedotti, arresi alle discoste spinte vibranti sui bordi dei versi riaffacciati alle possibilità semantiche e autoriali. Isella ben comprende la necessità di superare, oltrepassare il significato usuale per svolgere ricognizione più vasta e adeguata all’ardente pazienza dei poeti. Un fluire incredulo detiene la grazia della continuazione esposta al bisogno emotivo di quella domanda alla quale la poesia azzarda la scelta della parola esatta, la folgorazione attimale dell’indicibile. I versi scolpiscono con la grazia del tratto una finezza espressiva che colpisce, nella stupita attenzione dell’ascolto. Siamo posti di fronte ad un esempio poetico di rara presenza nel tracciato di una produzione contemporanea troppo spesso adagiata in formule scontate e prevedibili. Qui la sostanza compone le simbologie e le coniugazioni, attraverso un’estensione lessicale ondulata e rapsodica. Le allitterazioni ricamano un disegno dalla raffinatezza espressiva oltre il definito, “dove la mente in esilio disvela/ i suoi segni più sagaci”, come profumi di pino che interrogano le nostre debolezze inusuali. Non vale forse l’episodio che concentra l’assolo nel deposto ancoraggio, attraverso sospensione di epitaffi e rigurgiti ad oltranza; meglio la svista, se mai sedotta, all’apice della configurazione nominale che sovrasta.  E così sai di poter individuare un’alternanza che, nei rivoli esegetici, comprende una via percorribile ed esposta alla riconoscibilità delle scansioni. Esistono ed emergono segnali di ripetute fisicità, rovine e pozzi, mulini ed anfore, sabbie e fave, sismi e ibis; come non esita a manifestarsi anche l’innesto in una prosa poetica che arde in umore di contenuta apocalisse. Denotazioni arcaiche impongono esperite visioni sottoposte all’implacabile e diuturno romitaggio quando, scrive Isella, “qualcosa peraltro s’inceppa/ nel montaggio vettoriale”. Significativa l’attenzione all’opera di Piranesi nei temi relativi alle rovine come elemento di un compiuto architettonico e il labirinto (o carcere) quale allegoria della condizione umana; proprio l’espressione, così, si attira l’elegante fioritura di una strofa del poeta capace di concentrare il sentimento delle cose colte dai sensi nella costruzione demiurgica dei moti tangibili: “Sul cilindro girante della notte/ concepì una ronda di pulegge/ per il suo piccolo cerebro/ sovrano”.



                Andrea Rompianesi     


martedì 15 gennaio 2019

Rosa fresca aulentissima


  Enea Biumi    “Rosa fresca aulentissima”   (Genesi Editrice, 2018)


  
“Alle dieci e quindici precise il campanile di San Biagio diede un tocco grave che proclamò l’abbrivio di uno scampanio disordinato ma felicemente festivo”. Inizia così il romanzo “Rosa fresca aulentissima” di Enea Biumi, autore varesino, indicando dalla prima battuta la vocazione descrittiva e l’acutezza dell’osservazione intenta a ritrarre efficacemente il piccolo mondo della provincia lombarda. Si potrebbero evocare i nomi di Chiara e Vitali, di una predisposizione al ritratto ironico e allusivo, anche se qui la vicenda si concentra sulla scomparsa di una attraente ragazza, figlia del sacrista del paese, immergendosi quindi nel clima dell’investigazione condotta dal maresciallo Rosario Panepinto. Il tutto si distende nell’accortezza di una scrittura che vede l’autore calibrare le effusioni espressive a disegno dei particolari e degli ambienti con la tessitura spontanea e determinata dai vividi caratteri dei personaggi che animano ipocrisie e maldicenze di paese, passioni inconfessabili e nascoste, tracce definibili di subitanee accensioni. Ben presto la tragedia s’impone con il ritrovamento del corpo della giovane assassinata. Il giallo assume le condizioni di specchio di una società minima oppressa da vizi privati e pubbliche virtù. La fluidità narrativa si armonizza con una indagine coinvolgente che avanza attraverso spunti godibili mai slegati dall’inquietudine propria di una domanda che si trasforma in denuncia civile. Le insofferenze diffuse, che spesso si trasformano in derive violente, impongono alla riflessione del lettore tutta la problematicità dell’esistenza nei suoi tratti sociali che non possono non essere anche politici. Ma la durezza dei contenuti viene sempre compensata da un’andatura narrante che caratterizza la scrittura di Enea Biumi, la profonda declinazione umanistica e la capacità di tratteggio cromatico della sua identità di poeta.

                                                                                                                      Andrea Rompianesi

Passioni di Enea di Carlo Zanzi


PASSIONI DI ENEA
CARLO ZANZI - 14/12/2018
Artisticamente il suo nome è Enea Biumi, all’anagrafe invece si chiama Giuliano Mangano. Non è giovanissimo (nel 2019 compirà settant’anni), di professione pensionato, ma prima lavorava come docente di lettere negli istituti superiori varesini, dove ha diretto anche un laboratorio teatrale. Ha alcune passioni dichiarate, confortate dalle doti, perché non basta la passione per ottenere risultati pregevoli. Passioni: la musica e la scrittura. Suona una fisarmonica pagata oltre tre milioni negli anni Ottanta, quindi dell’attuale valore di seimila euro, compone canzoni, soprattutto in dialetto. Ne ha appena prodotta una, su testo del poeta dialettale Paolo Rattazzi: La prima fioca. Ama la poesia, la compone, fa parte del Cenacolo dei Poeti e prosatori dialettali della Famiglia bosina (cura il sito del gruppo) nonché del Gruppo Folk bosino. A partire dal 1969 (data del suo primo libro pubblicato, Lumen XXVIII, raccolta di poesie), in tanti anni ha pubblicato con grandissima parsimonia, pochi titoli, troppo pochi per uno come lui. In compenso ha collaborato ad altri volumi, ha scritto alcune opere teatrali e tradotto, in collaborazione con Maria Luz Loloy Marquina, poeti di lingua castigliana, soprattutto di area sudamericana. Importante la sua amicizia con Martin Micharvegas, poeta e pittore argentino, in Italia per fuggire alla dittatura: con lui ha fondato e curato per anni la rivista online I poeti nomadi. Infine collabora con alcune riviste letterarie e quotidiani locali.
Nell’aprile del 2018 è uscito, per Genesi Editrice, il suo romanzo giallo ‘Rosa fresca aulentissima’. Il Biumi ha vinto il premio I Murazzi per l’inedito 2018. Ecco stralci dalla motivazione della Giuria: ‘La Giuria, con l’unanimità dei voti, ha apprezzato lo stile fluente del racconto, sostenuto e arricchito da un dialogo ben strutturato, sia dei protagonisti che delle mezze figure, con sapiente dosaggio delle diverse inflessioni dialettali. Pregevole l’intreccio della vicenda…’
Intanto, per chi si appresta a leggere il romanzo, è d’uopo tenere a fianco il vocabolario, perché Enea Biumi usa termini desueti, specifici, ricercati, che non fanno più parte non solo dello stile giornalistico ma neppure di quello dei narratori contemporanei. La scrittura è elegante ma non ricercata, comprensibile e mai banale. I dialoghi, ossatura del romanzo, sono uno dei punti di forza. Leggendo Rosa fresca aulentissima non può non apparire lo scrittore Piero Chiara, o il suo ‘figlioccio’ Andrea Vitali.
Gli elementi del romanzo giallo ci sono tutti: la bella del paese, la più bella del paese trovata morta, trafitta da nove pugnalate, e poi una serie di personaggi vicini alla ragazza (compreso un sacerdote), per lo più spinti da ragioni amorose, che a tutta prima vengono sentiti e sospettati, quindi altri personaggi che si aggiungono inaspettatamente, un altro suicidio che forse è un omicidio, gli investigatori che si affannano, vari dialetti che si incrociano nel dialogo, infine una nuova pista, il colpo di scena finale. Lo sfondo della vicenda è un paese del varesotto. Enea Biumi mostra competenza non solo linguistica ma anche musicale, dialettale, nonché padronanza dei fondamenti di un romanzo giallo. Conosce l’ambiente ecclesiale, quello dei Carabinieri e quello dei tribunali. Se si può fare un appunto, lo siglerei facendo riferimento ai molti attori, che entrano in azione in veloce sequenza, disorientando un po’ il lettore, soprattutto chi, non più giovane, non gode di buona memoria. Per il resto, direi che il giudizio della Giuria è più che meritato. E soprattutto Enea Biumi merita di essere conosciuto adeguatamente, quanto meno nella sua città, che fa da sfondo al romanzo in questione. Biumi merita la lettura perché è autore di sostanza. Ha alle spalle anni e anni di letture: dai classici greci e latini ai classici italiani, poeti e narratori, con un amore particolare per Manzoni e un’infatuazione per Gadda. Preferisce certamente Morselli a Chiara, benché ammetta di essersi avvicinato, forse inconsapevolmente, allo scrittore luinese in questo romanzo, un autore che giudica piacevole e interessante ma nulla più. Rispetto all’ultimo lavoro letterario, in principio si trattava solo di una bosinata (poesia dialettale a sfondo comico-satirico) dal titolo ‘La tusa dul secrista de San Bias’. Dalla poesia si è passati al desiderio di scrivere un racconto breve, che si è andato via via popolando di personaggi e situazioni. Motivi di salute hanno obbligato Enea Biumi al riposo forzato, che gli ha permesso, nel 2017, di dedicare molto tempo alla scrittura, sicché il racconto è diventato romanzo, quello che oggi i varesini (e non loro soltanto) possono gustare.

Rosa fresca aulentissima


Rosa fresca aulentissima: un poliziesco ambientato nella nostra provincia scritto da Giuliano Mangano

di Gianfranco Gavianu

Nato nel 1949 a Varese, Giuliano Mangano, che si cela dietro lo pseudonimo di Enea Biumi, è un artista versatile che ha scritto testi poetici, narrativi, opere teatrali ed è appassionato di musica: fa parte del Gruppo Folk Bosino. Lo scorso aprile ha pubblicato per Genesi editrice di Torino il romanzo poliziesco  Rosa fresca aulentissima. L’opera presenta uno spaccato della vita di provincia, della mentalità radicata in ampie zone del ‘profondo Nord’, in cui si agitano personaggi e gruppi sociali riconducibili  a tipologie facilmente riconoscibili: il prete, il sacrestano, il coadiutore, il farmacista, il giovane neolaureato timido e introverso, padri esuberanti e autoritari, madri trepide, ambiziose, invadenti,  la giovane bella e desiderata da tutti, carabinieri, leghisti con simpatie fasciste. Un panorama umano ricco e variegato che rende vivace e coinvolgente il racconto.

Alla base, come inevitabile in un poliziesco, vi è un omicidio: Teresa Lovedovo, giovane militante pacifista, bella e spregiudicata, viene eliminata dall’intolleranza brutale di un gruppo di parafascisti. A questo personaggio evidentemente allude la dotta citazione che dà il titolo al romanzo “Rosa fresca aulentissima”, tratta dell’ incipit  del celebre contrasto di Cielo d’Alcamo che, come è noto, sta alle origini della nostra tradizione poetica. Attorno al fosco nucleo della vicenda ruota una serie di relazioni e di intrighi i cui protagonisti sono mossi dall’eros, le cui imperiose istanze entrano in urto col moralismo pio e ipocrita dell’universo piccolo-borghese e provinciale del Varesotto in cui il romanzo è ambientato. Nel personaggio del neolaureato Alvise Giavan l’autore ha forse proiettato alcuni suoi tratti psicologici e culturali: l’amore per la letteratura, una timida e scontrosa riservatezza; al tempo stesso, ad arricchire l’arazzo del racconto vi è un proliferare di personaggi disegnati con efficacia bozzettistica.

Una bonaria ironia pervade tutta la narrazione e getta una luce di indulgente comprensione sui comportamenti e gli atteggiamenti dei personaggi: in questa prospettiva di rappresentazione si rivela la visione della realtà  dell’autore che, pur non ignorando le contraddizioni e le durezze del vivere, distende su di esse uno sguardo fiducioso e rasserenante.

Tale disponibilità a comprendere e giustificare l’umano in tutte le sue manifestazioni si arresta, tuttavia di fronte all’assolutamente irrazionale, alla furia intollerante e omicida del gruppo di criminali che uccide Teresa (Terry); quest’ultima non a caso sembra assumere i tratti della vittima sacrificale, quasi una figura cristica.

Sapientemente e a lungo l’attenzione del lettore viene sollecitata e coinvolta dalla disseminazione degli indizi tra più personaggi che vengono sospettati del misfatto fino alla risoluzione conclusiva.

L’epilogo ci propone un lieto fine che sembra voler rassicurare il lettore contro gli orrori della violenza insensata: come in una carrellata finale di un film tutti i personaggi vengono passati in rassegna e coronano le loro  aspirazioni: l’idillio sembra ricomporsi: non è casuale che le ultime righe ci rappresentino il brigadiere Panepinto che ha condotto le indagini  mentre si gode la pensione contemplando adagiato su una sdraio il paesaggio del monte Rosa che ai suoi occhi appare “una gran grazia di Dio”.

Il romanzo, scritto in una prosa agile e scorrevole, cattura dunque e appassiona il lettore.

(Chi fosse interessato può ordinare il romanzo via internet rivolgendosi all’ email della casa editrice: genesi@genesi.org)

Rosa fresca aulentissima

Dal Blog di Carlo Zanzi (che ringrazio ufficialmente)



Che il romanzo di Enea Biumi, 'Rosa fresca aulentissima' fosse di buona qualità già lo sapevo, e la conferma è arrivata stasera, alla presentazione del volume alla Biblioteca Civica di Varese. Tre docenti e scrittori (uno anche editore), persone di ampia cultura e pratiche della materia mi hanno dato ragione. Carlo Banfi, Gianfranco Gavianu e Sandro Gros-Pietro (l'editore del volume, Genesi) hanno sottolineato con abbondanza di particolari le qualità dell'opera letteraria, un romanzo breve (o racconto lungo) di genere poliziesco, ambientato nel nostro territorio, ricco di personaggi, intrigante nella trama, venato di colta e sottile ironia, con un linguaggio che spazia dal dialetto alla terminologia ricercata. Laura Lampugnani ha letto alcune pagine del libro.
Come già sottolineato in altri post, Enea Biumi -poeta, narratore, musicista, autore di sceneggiature teatrali, uomo di cultura a tutto tondo-  merita di essere valorizzato.






Linea Cadorna



Carlo Banfi, “Linea Cadorna”, Edizioni Virgilio, Milano, 2018, € 15.00



Mai come in questi tempi il detto “historia magistra vitae” è divenuto un azzardo: o una contraddizione. Ognuno guarda al suo particolare e la filosofia spicciola di Guicciardini la fa da padrone sul più autorevole e classico Machiavelli. A leggere il nuovo romanzo di Carlo Banfi, “Linea Cadorna”, in effetti, si intravede e si rafforza l’idea di un mondo isolato, a sé stante, che ruota su se stesso. E’ forse la nostra accidia che determina questa spaccatura netta fra noi e la storia. Sta di fatto che nessun avvenimento è leggibile come prototipo imitabile e didascalico. Così si ha l’impressione che quel pezzo di storia dei primi del novecento sia rimasto lì diroccato come i resti di quella difesa, divenuta simbolo di una nostra cecità: un’ostinazione a non voler vedere, a non voler apprendere dal passato, caparbiamente abbarbicati al presente, presuntuosamente persuasi che noi stessi e solo noi abbiamo contezza e ragione. La linea Cadorna diventa allora metafora della nostra sconfitta.
In effetti il Pedar, il protagonista della vicenda, potrebbe uscire da quelle pagine ed urlare che il fallimento è di tutti, che è necessario guardare al passato per capire il presente e risorgere, ma viene per così dire risucchiato dalla Storia, quella con la esse maiuscola, e come la linea Cadorna, preda del tempo e della natura che sembra voglia travolgerla e seppellirla per sempre”, è impossibilitato a superare gli avvenimenti, pur con tutta la sua volontà. Alla fine del romanzo, dopo una strenua lotta per affermare la Vita esce piangendo. Sopraffatto (E questa volta il Pedar, uscito dalla stanzetta, non era stato più in grado di trattenere le lacrime).
C’è un po’ di Manzoni in quest’opera di Carlo Banfi, non il Manzoni dei “Promessi sposi”, bensì quello dell’ “Adelchi” e del “Fermo e Lucia”. Innanzitutto nella concezione della vita. I più deboli, o i più umili, sono quelli che danno maggiormente il proprio contributo alla storia, ma alla fine rimangono figure marginali e sconfitte. Come se la Provvidenza si arrestasse davanti alle ingiustizie riscontrate. Il curato, don Paolo, un cardinal Borromeo in nuce, offre il proprio aiuto a tutti, ma alla fine non può che cedere davanti ai “grandi”. Significativo è il ricordo della rivolta del pane nella Milano di fine ottocento, rivolta che si concluse con le cannonate del tristemente famoso Bava Beccaris, e che ebbe un’eco simile, e quasi sconosciuta per i più, nella Luino di allora. La ricostruzione e la rievocazione di quei momenti di ribellione luinese, dove tra l’altro le donne hanno avuto un protagonismo inimmaginabile per quei tempi, hanno una drammaticità che emoziona e che coinvolge nella sua icasticità. Ciò che rimane a perenne memoria non è solo il quarto stato che tenta di avanzare e che viene sopraffatto, è il male dell’uomo, la sua insopprimibile cecità egoistica, il desiderio di vincere ad ogni costo, il sopruso perpetrato e giustificato per legge. Oltre a questa visione pessimistica il Manzoni – ripeto, quello del Fermo e Lucia – è presente nello stile e nella scelta del linguaggio: espressioni colte si accomunano ad espressioni dialettali, in questo concedendo cittadinanza anche al Verga e al miglior Pavese. L’erlebte rede è padroneggiato con libertà e sapientemente condotto, strategia letteraria, questa, che evita di trascinare il lettore pagina dopo pagina. L’andamento del romanzo infatti lo obbliga a riflettere, a ritornare sulle pagine lette, confrontando le varie situazioni, i luoghi, i personaggi. E’ un metodo intelligente che sanziona la corresponsabilità di chi fruisce dell’opera rendendolo consapevole di quello che l’autore gli propone.
Come ogni buon romanzo storico accanto a personaggi inventati si fronteggiano persone reali. E’ il caso dello scultore Zosi del quale Banfi ci offre uno spaccato artistico ed umano di notevole intensità. Dice infatti l’autore: Le opere ritrovate e riscoperte svelano un fascino e una bellezza incredibili e sottolineano la parabola dei contenuti stilistici espressivi dello Zosi, che spaziano nelle correnti tra fine ‘800 e primo ‘900 milanese (…) Tra la rara documentazione esaminata, tra quel poco rimasto che il tempo ha roso – topi compresi – e trascinato nella dimenticanza, ho trovato anche testimonianze dirette di quella “inutile” carneficina di inizio ‘900.”  Ed oltre la presenza dello scultore Zosi, oltre le lettere dei militari e dei loro famigliari, oltre le autorità che dispensano medaglie e ricompense, oltre il Pedar che racconta e fa da trait d’union all’intero romanzo, oltre l’anima buona di don Paolo, prete di campagna e consolatore degli afflitti, ci si svelano figure delicate come la moglie del protagonista, la figlia Marisa, purtroppo deceduta durante il parto, il nipote Paolino, un birichino irrequieto ma sostanzialmente ubbidiente. Né mancano i ritratti collettivi, verghianamente corali, come il già citato moto luinese, o l’osteria del Bagàtt,  o la società svizzera “Entreprises- Maçonneries & Cimentages” – situata a La Chaux de Fonds, nel Cantone di Neuchâtel, con gli operai coinvolti nell’impresa, o i lavoratori e le lavoratrici accorsi per la costruzione della trincea che doveva fermare un presunto attacco austriaco dalla parte della Svizzera: la linea Cadorna, appunto.
In tutto il romanzo, poi, emerge un mondo agricolo montagnolo per nulla bucolico o idilliaco, bensì faticoso nella gestione e duro nell’approccio, in cui non sempre la natura ne è madre benevola e consolatrice. Davvero una bella ricostruzione storica di quell’inutile carneficina, per dirla ancora con le parole di Carlo Banfi, degli albori del ‘900 nella visione particolare della Linea Cadorna, abbandonata a se stessa, che esprime ed esplicita il generale atteggiamento di quegli anni, rappresentato nella doppia veste dei vinti e dei vincitori. Non c'è retorica né rimpianti. Solo del sano realismo. Che ci obbliga a meditare sulla vita, oltre che sulla storia, soprattutto in momenti come questi dove l'uomo sembra lasciare il posto a degli ectoplasmi senza anima che stanno in piedi solo in funzione di se stessi e dei loro affari.

Enea Biumi



Quote di non proletariato




Già in “Versi civili”, silloge pubblicata nel 2003, Andrea Rompianesi aveva privilegiato il rapporto poeta-società. Si estrinsecava allora quella particolare tensione-attenzione nei confronti di un mondo che appariva perennemente in lotta tra l’essere e l’apparire: una realtà che viaggiava in una superficiale ipocrisia e che non voleva vedere, forse perché disturbata, o peggio ancora distratta, la schizofrenia plateale di facili egoismi o edonismi che giocavano partite fine a se stesse. Il poeta richiamava alla nostra memoria fatti e circostanze, uomini e azioni che in una specie di bolgia dantesca ruotavano accavallandosi in metaforiche carole, cercando di insufflare in loro una minima coscienza di giustizia, di onorabilità, di credibilità. Erano quei versi come un’alapa militare che intendeva risvegliare chi al sonno o alla cecità era ancora votato. In “Quote di non proletariato” Andrea Rompaniesi sembra voler ricollegarsi, almeno nel titolo ed in alcuni spazi, a quella sua iniziale raccolta, in una dimensione però che, depauperata del clima di mera denuncia, va oltre il cosiddetto profilo politico per raggiungere ab imis il carattere metafisico della rappresentazione, che, a sua volta, e con sottolineature sorprendenti, si ramifica in impressioni fonetiche tipizzanti la poesia. A conferma di ciò stanno quei versi che richiamano (en passant e quasi per caso, volutamente mimetizzati) gli “Strumenti umani” di Sereni e “La ragazza Carla” di Pagliarani(1): due momenti topici di una poesia “civile” che trascende la storia e si fa simbolo di coscienza ed esistenza. Non c’è chi non vede la particolare attinenza a quei due lavori poetici: l’uno (Sereni)  che nella silloge citata dilata il  verso fin quasi a raggiungere una connotazione prosastica, che coinvolge un non-poetico quotidiano, cui si ricollegheranno successivi poeti come Raboni, Rossi, Majorino, Cesarano; l’altro (Pagliarani) decisamente e volutamente coinvolto nell’avanguardia del Gruppo 63, che trasferisce in Carla Dondi le aspettative di un futuro benessere consegnato alle insegne del lavoro (all’ombra del Duomo) quale laico e moderno pantocratore. Ed è vero, anche, che nella pagina seguente, come fosse una nota, tramite asterisco vengono citati altri due poeti: Olivieri, un ideale continuatore di Sereni, e Fortini, che riscopre esplicitamente un linguaggio poetico “politico” nella sua accezione brechtiana. La citazione iniziale di Pierre-Joseph Proudhon(2)  dà l’abbrivio alla raccolta poetica che si dipana come voce di coscienza per una vita che si distende nel giorno, che arranca nella notte, che lotta per il divenire, che si frantuma in quesiti e si sovrappone a certezze.(3) Il significato sigilla il significante, la materialità si fa rada, quasi surreale,  diventa suono e la fonicità così ottenuta offre spunti di immaginazione ed intuizione che collimano alternandosi in momenti di tangibilità e di astrazione. Rompianesi non è nuovo ad una architettura linguistica siffatta. Ma in questa sua ultima fatica il verso sembra raccogliersi attorno alla possibilità di riflettersi nel tempo, di imporsi nell’oggi e nel domani, al di là dei contratti, delle manovre economiche, nel “diritto-dovere di/rinviare la morte”, perché “il tempo per pensare/accumula le attese conduce/al lavoro intellettuale”. Il  che ontologicamente si traduce nell’esistenza quotidiana della poesia.

Enea Biumi

………………….
(1)(mi sono immerso negli strumenti umani/poesie ed errori di ragazze carle)
(2)   La proprietà è il furto; la proprietà è la libertà
(3)  (…) tre cose soltanto pane/ acqua casa te le darà il sistema

Andrea Rompianesi, Quote di non proletariato, Scrittura Creativa Edizioni, Borgomanero, 2017, € 14,00


Exusatio non petita


EXCUSATIO NON PETITA

"A me sembra che l'arte di parlare bene
sia quella di farsi capire..."
(Domenico Balestrieri)

Questa riflessione porta a termine, o forse riapre e prosegue, un percorso nato, e da me intrapreso, negli anni settanta sull'uso e l'utilità della scrittura dialettale.
Nato e cresciuto in un clima di ostracismo dialettale, sebbene poi il dialetto fosse di casa nella parlata dei miei, percepivo comunque la scrittura in lingua come un abito stretto. Sentivo il deficit di qualcosa. Un deficit che cercavo di scoprire nei toni "bassi" di Pavese, ma che ancora non rendevano giustizia al vuoto espressivo di un mondo e di un modo che non riuscivo a cogliere nella sua completezza. Né lo potevo.
Fu allora la scoperta del pastiche linguistico di Gadda che mi aprì vie nuove e per me inesplorate. Lessi l'Adalgisa con una voglia matta di riscatto. Ne imparai le pieghe. Ne copiai i segreti. Insomma, rivedevo con occhi differenti anche quei classici della letteratura, buttati lì quasi per caso, e che si chiamavano Ruzante, Maggi, Goldoni, Porta, Belli. Da lì il passo successivo fu lo studio del teatro di Bertolazzi, Defilippo, Martoglio, Fo e Testori, nonché alcuni cosiddetti minori e tra questi il milanese Bertini.
Sostegno critico ed estetico, oltre il canzoniere e la passione e ideologia di Pasolini, fu l'introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo all'Antologia dei Poeti Italiani del Novecento, uscita nel '78 e permeata di novità, una delle quali appunto l'attenzione ai poeti dialettali. C'erano dei passaggi, condivisi in toto, che mi piace riprendere come punti fermi sui quali improntare una giustificazione, se ce ne fosse necessità, della scrittura dialettale.
E parto dalla boutade di Contini secondo cui parlare di poesia dialettale non avrebbe maggior dignità epistemologica di quella di poesia femminile, per arrivare a sottolineare come la poesia in dialetto "può e deve essere interpretata anche, globalmente, come atto di rifiuto e opposizione, magari in articulo mortis, alla sempre più spietata rapidità del processo di accentramento livellatore che sta completando la distruzione, avviata all'origine dello stato unitario, di quelle variatissime differenze e peculiarità di lingua e di cultura che erano una delle ricchezze, e delle più originali, del nostro paese".
Allo stesso modo in una recente riflessione Camilleri sottolineava come "la guerra che subito dopo l'Unità d'Italia si cominciò a combattere più o meno scopertamente contro i dialetti, e che raggiunse il suo apice negli anni del fascismo, è stata un'insensata opera di autodistruzione di un immenso patrimonio. Si è scioccamente visto il dialetto come un nemico della lingua nazionale, mentre invece esso ne era il principale donatore di sangue."
E' vero altresì che esiste una miriade di varietà dialettali. Parlo di quello che conosco: in una provincia piccola come quella di Varese, se la radice, il ceppo, le fondamenta del dialetto appartengono al milanese, si nota una sequenza di variazioni centrifughe rispetto all'originale, che in alcuni casi fanno parlare, senza giustificazione scientifica dal punto di vista linguistico, di "altro" dialetto. E' il caso, ad esempio, del cosiddetto "bosino", o dialetto che si parla a Varese, che comunque unitario non è, perché nello stesso si concentrano differenze, tra paese e paese, tra rione e rione.
Si vede quindi come sia abbastanza improprio regionalizzare un dialetto. Voglio dire: non si può parlare di dialetto lombardo, e per quello che mi risulta, piemontese, ecc. Anche perché ogni scrittore crea un suo proprio dialetto che tra l'altro non sempre risulta essere quello parlato. Penso a Loi, ad esempio. In quest'ambito la lingua della realtà tende a diventare, come è stato sottolineato, lingua della poesia, tanto che Mengaldo parla di dialettalità endofasica, non pesando sul dialetto norme e convenzioni grammaticali e "perciò garante della massima autenticità individuale che in sostanza immane in buona parte delle poetiche dialettali post-decadenti."
Da qui la verginità del dialetto e la possibilità di costruire ex-novo, una specie di avanguardia linguistica su cui è possibile innestare novità e originalità, quasi fossimo davanti ad una novella scuola siciliana cui nessun Dante - o toscano - può cambiarne le peculiarità, ricordando, alla fine, che lo stesso Alighieri operava su un terreno linguistico tutto da scoprire. Altri poi imposero la sua scrittura come punto d'arrivo, ignorando del tutto o quasi il suo de vulgaris, che non inglobava, bensì esplorava.
Strano destino davvero quello del poeta fiorentino. Per molto tempo eluso, se non escluso, dal cenacolo degli intellettuali italiani, ottiene la sua rivincita solo nella rivendicazione di uno statu quo che non era nel suo stile ("fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtude e canoscenza) anche perché, come detto, fu lui a proporre e ad esaminare minuziosamente, come si usava nel Medioevo, i vari volgari della penisola.
Certo, oggi, le cose sono cambiate. Il suo dialetto, cioè il toscano-fiorentino, si è imposto come lingua unificatrice dell'Italia, letteraria e non. Ma la supremazia di quella lingua non ha cancellato - o per lo meno, non ha cancellato del tutto - quegli altri linguaggi che, fino al secolo scorso, appartenevano al popolo e quindi rifiutati, in linea generale, dal potere, sia culturale che politico. Si pensi, ancora una volta, al fascismo e a quel suo vietare l'uso del dialetto, sebbene ai suoi albori (siamo nel 1925) un sussidiario per le elementari (Chiomaverde, a cura di Ismaele Mario Carrera) conteneva tra le proprie pagine proverbi, poesie e modi di dire in dialetto milanese e simile. E questa era l'introduzione: "Giovane lettore! Questo libro è tutto consacrato alle glorie della tua terra natale, quella che tu ami di più, e che è giusto tu conosca prima di ogni altra. Ma è bene che tu non creda che altre regioni siano meno gloriose della tua Lombardia. Ogni regione ha le sue glorie e le sue ricchezze. Pensa dunque, quanta è, tutta insieme la gloria d'Italia." Parole di novant'anni fa, e che valgono tuttora, tradite da un'insipiente politica e da un'altrettanto miope cultura ufficiale.
Eppure ancora a tutt'oggi quei linguaggi resistono ed esistono, nonostante la massificazione dovuta al livellamento linguistico della televisione, con contaminazione dapprima del romanesco, fino agli anni settanta, e successivamente del milanese con l'avvento delle tv private.
Accanto ad una lingua "italiana", infatti, si sono tramandate altre lingue, con le quali il popolo si esprime e delle quali soprattutto i poeti hanno creato un loro specifico modo di scrivere e descrivere. Per dirla con Lucio Pallavera "dentro l'anima di un popolo c'è un impasto di storia e di tradizioni , di tenacia e di religiosità, di modi di vivere e di gustare la vita". E quest'anima si esprime col proprio linguaggio che è quello che noi chiamiamo, anche impropriamente, dialetto.
Perchè dico impropriamente? Perchè il dialetto è sempre stato considerato, fino a poco tempo fa, un modo "inferiore" di esprimersi. E qui sta lo sbaglio. Come modo espressivo, il dialetto è una vera e propria lingua. Chi conosce un po' di letteratura italiana sa come lo scontro tra dialetto e italiano sia stato molto duro soprattutto a partire dalla fine del settecento. E sa anche le risposte che i vari intellettuali hanno dato per difendere o per denigrare il dialetto. Ma sa anche che la letteratura italiana ha avuto nel quattrocento un passaggio elitario: fu il fenomeno del cosiddetto "umanesimo". In quel momento si ruppe un rapporto: la cultura - e quindi la lingua con la quale detta cultura si trasmetteva - divenne di pochi e per pochi.
Già Dario Fo aveva notato una simile frattura portata avanti con disinvoltura dalla cultura ufficiale. Si veda il suo commento alla poesia di Ciullo d'Alcamo (Ciullo e non Cielo come riportano in gran parte i testi scolastici per non so quale pudore).
Dicevo, dunque: l'umanesimo riconosce solo la propria produzione, rifiutando in toto quello che viene dal mondo contadino e popolare. Che comunque crea proprie canzoni, proprie poesie, proprie favole e soprattutto un proprio teatro. Dico soprattutto perché il teatro, per sua natura, è l'elemento più conosciuto a livello dialettale (sarà forse per questo che Croce negò sempre la possibilità di una estetica teatrale?). Ruzante, Carlo Maria Maggi, Francesco de Lemene, lo stesso Goldoni sono autori teatrali che hanno fatto del dialetto un momento topico della loro produzione. Ma non si possono dimenticare poeti che, voltando le spalle ai vari petrarchisti di mestiere, seppero imporsi con le loro opere. Considerare questi al di fuori della letteratura o appartenenti, come spesso si usa dire, ad una letteratura minore mi sembra cieco e fuorviante. La storia ha poi fatto il suo corso. E ci ha restituito un Belli, un Di Giacomo, un Porta, un Viviani, un Marin, un Tessa. L’elenco si fa lungo e quasi sicuramente pareggia o forse supera i poeti in lingua.

Ciò che spesso, ma non solo, accomuna i dialettali - sebbene non sia solo una loro prerogativa, sia chiaro - è la voglia di raccontare, di indagare, di scoprire quello che c'è in se stessi e quello che c'è nel mondo. Le parole sono semplici, certo. Ma esprimono nella loro concretezza la verità. I termini altisonanti ed aulici li lasciamo al mondo accademico - quel mondo che continua ad andare avanti nel nome di una cultura che non appartiene al popolo: un mondo autereferenziale, criptico, che sembra far apposta nel non farsi comprendere.

 
La validità del dialetto sta dunque nella sua spregiudicata forza per irrompere, anche portando traumi, nel panorama letterario italiano del terzo millennio. Sostenere la scrittura in vernacolo può apparire, sotto un certo punto vista e di primo acchito, una battaglia di retroguardia. Una battaglia destinata a perdersi. Non è così invece per il critico Giorgio Barberi Squarotti (purtroppo recentemente scomparso) col quale fin dagli anni 80 ho intrattenuto una corrispondenza letteraria per me utilissima, ritenendolo un valido maestro. La sua risposta ha in parte contraddetto le mie riflessioni amare sul dialetto. Ha sostenuto innanzitutto la validità del vernacolo, in secondo luogo lo ha additato come momento poeticamente importante. Si sa che la poesia è ritmo, suono, colore. Ecco, nel dialetto, sosteneva il professore, colore, ritmo e suono sono gli elementi qualificanti che la lingua italiana spesso non possiede. Non è una difesa. Barberi Squarotti lamentava di non sapere usare il vernacolo. E' una costatazione. Poi, possiamo dire che il "nostro" dialetto per particolarità socio-economiche (immigrazione, vergogna, ignoranza ed altro) è solo sulla carta dei poeti o nelle tradizioni canore. Ma esiste una gran parte d'Italia dove il dialetto è vivo e "parlante". Penso a scrittori come Camilleri o Laura Pariani, dove a mio avviso il loro linguaggio è un siciliano o bustocco italianizzato. In quest'ottica si muovevano nel secolo scorso Gadda e Testori. La trilogia degli scarrozzanti è un esempio di impasto linguistico notevole, così come l'Adalgisa (che ogni tanto vado a rileggere per divertirmi). Manzoni è un grande scrittore non solo per i Promessi sposi, risciacquati, si sa, nell'Arno, ma anche per quel Fermo e Lucia che era un pastiche linguistico tra italiano, milanese, francese e perfino latino. La mia preferenza va a quest'ultimo, naturalmente. Il dialetto sarà pure destinato ai Musei, ma che i Musei non siano distrutti.