Il “tu” a cui si rivolge il poeta è un Doppio anche critico,
un “detective di nomadismi”, nel continuo andare attraverso l’espressione
canterina di un tempo in duplice accezione: tempo universale e tempo
individuale. Quasi una presocratica necessità di conciliare ragione ed
esperienza dopo l’ancoraggio eleatico all’essere. Ma c’è anche tutto il vissuto
e il pensato che antepone al gesto la responsabilità di una scelta. “Mi uso
dunque esisto:/ e consento ad altri l’uso/ voi compresi”. dice Adelio Fusé in questo
suo sempre coinvolgente esito poetico dal titolo “Tempo ventriloquo”. Nel passo
sicuro di differenti combinazioni strofiche si amalgama l’evolvente richiamo
alla cedevole penalità attesa e, nello stesso tempo, osservata come dicibile,
narrabile dialogo tra l’affermazione in
evento e l’inestricabile suono delle sillabe congedate. Fusè sollecita il
verso, in questa occasione, verso un più aperto intento comunicativo,
nell’urgenza di allontanarsi dal quantificabile in costruzione assidua ma
divelta dalla preoccupazione semantica. Il tempo che concede il tu proponibile
riabilita avventure solo apparentemente nugaci, impone gravido l’utilità
dialettica delle tesi. Rari ritorni fonetici in assenza d’insistenza rivelano
accorti e assaporanti quasi un pullulare di emersi tratteggi, l’impatto della
vita e il perdurare paziente nella superficie. E davvero Fusé insegue, in
questo testo, il suono notturno di contemporanee sirene inavvistabili;
l’emotiva domanda che reinterpreta sensualmente l’empatia travolta dei desideri,
lo scorrimento che non è misura ma stato di veglia (e mi ricollego al
precedente titolo poetico dell’autore “La veglia del sonnambulo”). Come allora
ondeggiare sui detriti e le insidie, nella testimonianza dei versi...”si è mai
là dove si vorrebbe/ soprattutto nei giorni di pioggia/ quella sghemba e
sottile/ intermittente con la battente”; oltre l’apertura verso sviluppi
inattesi e indocili. “Diremo più tardi quello che deve essere detto”, scriveva
Franco Fortini in “Paesaggio con serpente”, “Per ora guardate la bella curva
dell’oleandro,/ i lampi della magnolia”; e il guardare di Fusé è un imprimersi
le sequenze, alla cadenza di un tempo musicale e mistico. Il ritmo
accondiscende a strutture eclatanti di esiti linguisticamente felici: “la
pioggia s’impioggia s’impiovasca/ ma questa è pioggerella/ non
l’acquazzonesco”, ed allora coniuga la strofa nella sua collocazione visuale il
passo desto e deciso della ricerca consapevole e critica. C’è una costante
necessità di domande urbane, empatici silenzi, tempi ricorrenti ma impalpabili;
la soglia invita ad un passo arduo, spesso incerto, che obbliga ad un
quotidiano, minimo coraggio. La stessa implorazione, la sua possibilità, è già
determinato sollievo, mobilità interpretabile nelle cromie del flusso quale il
verso lungo: “fino al mare porto arso di un salpare al plurale”. Sembra quasi
un desiderio d’incontri imprevisti capaci di superare i limiti del definibile e
dell’imponibile (tema toccato da Fusé nel suo volume in prosa “L’astrazione non
è la mia passione principale”); un senso di coltivato smarrimento in
potenzialità di stimoli eversivi. Potente l’immagine della cenere a
testimonianza di un respiro dall’individuale all’universale, nella traduzione
di un ben altro impulso rispetto a quello di un semplice calcolo temporale
asettico. Ci appare, quindi, un Adelio Fusé in viaggio, desideroso di
conciliare gli estremi del presente con le propaggini dell’infinito, rimarcando
una saggezza ironica: “se ti affretti all’osteria sul canale/ avremo un giro di
bicchieri”.
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