È un inno all’Amore questo “Nudo di uomo” di Carlo Zanzi,
rivelato anche dalle citazioni iniziali (Dante, San Giovanni) e dall’esergo “a
quanti si amano follemente”. Nel contempo, però, siamo di fronte a un inno, o,
ancor meglio, al trionfo della Morte. Il binomio Amore-Morte, tanto caro alla
letteratura romantica, viene qui riproposto in termini e in situazioni del
tutto contemporanei il cui nucleo essenziale si manifesta in un costante e
inappagante autodafè dei protagonisti. Danilo, Massimo, Rosa, Maria, Alessandra – ma anche altri
personaggi meno presenti – si interrogano in continuazione sul loro ruolo,
sullo scopo della loro esistenza, sulla verità delle loro azioni. Il lettore si
trova davanti, pagina dopo pagina, a delle coscienze che scavano nei propri
anfratti più nascosti e segreti perché hanno desiderio di autoconoscersi,
verificando maniacalmente, secondo dopo secondo, ogni istante della propria esistenza.
Non era facile affrontare un tema così complesso e dalle varie sfaccettature,
ma Zanzi vi è riuscito attraverso un linguaggio scorrevole ed una scrittura
chiara – ma non semplicistica – che rende agevole la lettura e incuriosisce. Così
come sono curiosi, ma di se stessi, i protagonisti del romanzo, che vogliono
rendere visibile e cosciente quello che è determinato dal subcosciente.
Frequenti, ad esempio, sono i sogni, tipici momenti – e topici – dell’introspezione
freudiana. Ecco allora disvelata l’accezione iponimica di quel “nudo”. È un po’
come mettersi dinanzi allo specchio ed esaminarsi millimetro per millimetro. Ma
l’analisi è tutta interiore. Il nudo che appare è dentro di sé. È lo svelamento
di un dire e di un non dire, di un farsi e non farsi, a volte per
giustificarsi, a volte per condannarsi. Analessi e prolessi si alternano in un
flusso esasperato di domande che spesso non hanno risposte. È un procedere che
sembra non avere pause, un ritmo che non si ferma, nemmeno nel sonno. Anzi, è proprio
il sonno che fa pulsare maggiormente l’amore, che lo innalza alla clarità
platonica o che lo declassa a semplice gioco erotico. E dopo il sogno ricompare
la vita, con le sue affezioni, con i suoi tormenti. Amicizie, primi amori, tradimenti, incomprensioni, religiosità, lavoro, ricordi, desideri. Ma emerge, nella sua brutalità, anche la morte.
Tutti ne hanno paura. La temono. Massimo, addirittura, fugge dal capezzale
della moglie morente. Non ne vuole cogliere il dramma. Solo a posteriori intende
che il momento della morte è un supremo atto d’amore. In Dio, per chi è
credente. Allo stesso modo Danilo arriva in ritardo alla morte della madre. È il
caso? Può darsi. Il fatto è che il destino gioca brutti scherzi. Non sto a
raccontare il finale per non togliere al lettore la sorpresa di un racconto
acceso e intrigante. Dirò solo che Amore e Morte si incrociano inesorabilmente
in un ibrido di fatalità e di nemesi individuale. La fine si ricollega idealmente,
ma non solo, all’inizio del romanzo. Ripete quello che è il destino dell’uomo.
Rivela la sua nudità. La sua debolezza. Rimane, unica consolatrice, la
preghiera. E il pianto.
Enea Biumi
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