sabato 11 gennaio 2020

Speri Della Chiesa Jemoli - Un poeta varesino, ma non solo


In “Passione e ideologia”(1) Pier Paolo Pasolini dedica un accenno allo Speri Della Chiesa Jemoli affermandone il valore e la dignità per un posto a lui spettante tra i poeti dialettali nazionali. Una citazione e una nomination che dimostra, se ce ne fosse bisogno, la validità di un poeta, sia pure a livello locale.
La specificità di uno scrittore dialettale è appunto il perimetro geografico in cui opera. Non per questo il confine non può essere superato o insuperabile. Un po’ come la siepe leopardiana che, non permettendo al poeta una visuale ampia, trascina la sua fantasia al di là della materia portandolo ai limiti dell’universo e dell’infinito. Ma è comunque inevitabile partire dal luogo, che più di ogni altra cosa possiede il fascino dell’attrazione, della natalità e delle proprie radici.
Varese è il centro della poesia di Speri Della Chiesa e Varese ne riassume le tappe.
I due dialetti e le due grafie: milanese e varesino
Prima di proseguire nella disanima dell’opera del poeta è necessario soffermarci sulla grafia dialettale del Nostro e sulla contaminazione varesino-milanese che appare evidente in tutta la sua produzione e che, a grandi linee, potrebbe essere ricondotta a due modalità differenti: una che raccoglie prevalentemente la parlata e la scrittura milanese, e l’altra che sfrutta la parlata varesina riproducendola con i suoni tipici del cosiddetto “bosino”(2). Entrambe le situazioni non sono solo momenti di stile, ma riflettono un contenuto differente: prevalentemente poetico (in tutte le sue forme, dal lirico al poemetto) il primo, sicuramente teatrale e parodistico il secondo (“I nostri buoni villici”), a parte naturalmente qualche eccezione (come ad esempio i testi di vere e proprie canzoni popolari, che sono una trascrizione evidente del linguaggio varesino).
Non si tratta nemmeno di una fonologia diacronica, perché “Zachiel e Pasqual e le elezioni politiche” (che diventeranno parte integrante de “I nostri buoni villici”) appaiono in una edizione del 1895, mentre la prima edizione di “Vers… de lira!” è del 1901.(3)
Speri Della Chiesa Jemoli interagisce su due moduli di scrittura diversi a seconda di quanto deve dire e di chi deve argomentare. In quest’ambito l’anello di congiunzione è Varese, con il suo contado, le sue abitudini, le sue storie, i suoi personaggi. Infatti, sia con la grafia milanese, sia con quella varesina, la città e il paesaggio che la circonda hanno un ruolo centripeto nella poetica del Nostro.(4)
E’ vero anche però che il luogo per Speri diventa spesso un pretesto per descrivere altro. Varese e i suoi dintorni non sono solo un momento encomiastico fine a se stesso, come spesso accade in molti dialettali, ma diventano la circostanza contingente e la scusa per un ritratto di uomini ed avvenimenti, variando su un respiro più alto senza il quale, forse, l’attenzione di Pasolini non ci sarebbe stata.
Fatta questa piccola premessa, è necessario ora, didascalicamente, suddividere il lavoro del Nostro in alcuni aspetti, per così dire, principali. Che sono: gli uomini, la storia, la cronaca, la natura, la politica, l’amore, lo stile di vita, la filosofia.(5)
Gli uomini
Alcuni personaggi che si ritrovano nella sua opera sono di pura fantasia, oppure reinventati e riciclati al fine di un racconto o di una bosinata. Penso a “El bernazz de Don Malacchia” o a “I do pernis de Don Libori”. Si assiste in questi due poemetti ad una capacità descrittiva che viaggia sul binario della realtà e dell’ironia: elementi che verranno poi a coniugarsi e a fondersi nelle persone di Zachiel, di Pasqual, di Naclètto o della Togna. “I nostri buoni villici” sono il punto di partenza e di arrivo di uno studio e di un’attenzione all’uomo in sé, sia esso sacerdote, borghese, ricco, servo o contadino. E’ chiaro poi che il mondo rurale viene trattato con bonarietà ed ironia, soprattutto là dove si iniziava ad intravederne uno nuovo in netto contrasto con le tradizioni; là dove il “villico” si sarebbe trasformato in borghese: la parabola, insomma, compiuta dalla città natale di Speri Della Chiesa Jemoli, una Varese che da agreste avrebbe cambiato il proprio essere proponendo e assumendo l’aspetto della modernità. Tutto questo, però, almeno ai tempi del Nostro, senza rinunciare al ruolo, turistico(6) e non, di città giardino, così come l’aveva definita Leopardi “il Versailles di Milano”.(7)
Spesso questi uomini hanno un loro cognome e un loro nome: sono gli artisti, i notai, i medici, gli avvocati, i politici, che accompagnano la vita di Speri, di cui il poeta ottiene, frequentemente attraverso l’uso dell’ipotiposi, un ritratto epigrammatico e scultoreo. Nascono così le figure del prof. Calati, dell’attore Orimbelli, dell’ing. Cremona, dell’impiegato Gayarre, dell’ing. Torelli, del commediografo Bertini, di don Cabrini, di don Barzaghi e tanti altri.
Uomini reali e non, ma verosimili, secondo il concetto di letteratura del Tasso e del Manzoni.
L’abilità poetica di Speri stava nella capacità di saper penetrare l’animo umano, di scandagliarlo, analizzandone il bene e il male. La sua razionalità, unita alla sua scelta repubblicana, gli permetteva un’ampia scernita di valori che diventavano sulla sua pagina esempi positivi o negativi, colorati attraverso sfumature ironiche, sarcastiche, umoristiche o bozzettistiche.
Ecco perché Varese non è più l’enclave del poetare, non è più lo scoglio che non permette visualità. Per il Nostro diviene occasione di approfondimento, dimensione unica e propositiva di un oltre. E forse in ciò gli è valsa anche l’esperienza lavorativa di Marsiglia(8) o il breve periodo dell’esilio in Svizzera nel 1898 (inviso alle autorità del tempo per i suoi articoli sul “Cacciatore delle Alpi” se ne dovette stare  per un po’ in disparte, fuori dal contesto e dalla contesa italiana). Furono quei momenti, a mio avviso, come un Bildungsroman non letterario ma esistenziale.
La storia e la cronaca
Fra le diverse liriche la storia e la cronaca hanno un ruolo del tutto particolare. Qui emerge lo spirito repubblicano del Nostro che non si lascia sfuggire le critiche, anche pungenti, nei confronti del potere. Il quale potere ha la possibilità di ordinare le guerre, di subordinare la giustizia non al bene comune, ma al proprio interesse, di non ascoltare e soddisfare i desideri del popolo.
Ho volutamente unito storia e cronaca per il fatto che Speri fu anche e, soprattutto nella prima fase della sua vita, giornalista.(9) Attento conoscitore del mondo che lo circondava, interveniva con la sua verve poetica sui fatti più importanti e salienti. Tra tutti, la guerra.
Ne “La guerra d’Africa: Italia-Abissinia” de “I nostri buoni villici” il dialogo tra Zachiell e Pasqual è spesso umoristico, ma l’umorismo a volte lascia il posto alla crudele costatazione che comunque la guerra ingrassa chi già lo è e ai poveri cristi non rimane che inchinare la testa e pagare le tasse. Ecco qualche esempio: (sta parlando Pasqual che non capisce bene che cosa sia la guerra d’Abissinia e il perché)
                                   L'Italia l'è ra vacca... che intant la intisighiss...
ma a furia poeu da mòngiala, savii in doa sa forniss? (…)                                   Par quell, disarò sèmpar: ca nassan a r'inferno
                                  e quij ch'ha faj ra guèra! e r'Africa, e 'r Governo! (…)
                                  Con tutta sta miseria, e i tass ca gh'em adoss
                                  trasà i danee in ra guèra!... Canaja da baloss !
e ancora sempre più arrabbiato Pasqual
 
                                 Fin lì, mò, gh'hii reson...
                                ma sac...formento vacca!... va giuri che a nà innanz...
                                ma s'è s'ciarii ra vista!... Or Crespi!... Bei bondanz!
                                Nimà in sur fà forlònia! nimà fass incensà!
                                Settaa in su 'na poltrona, l'è bell a comandà
                                e i nost toson, gió in Africa, ga sménan or pelott…
                                (…)
                                e intant qui là da Roma sa sgonfian or bolgiott!...
                                Porscej da sacramento!... Vidii, mi bell e vecc…
                                ma senti 'doss 'na roba... on foeugh dent pa' i vorecc...
                                che mi gh'avaress spìrit — vardee, porca martinna! —
                                da tirà a voltra anmò ra canna lazzarinna…
                                m’hem faj d’or quarantott (…)
Un’altra nota dolorosa è la prima guerra mondiale. Mi riferisco al testo intitolato “Alla campana dei caduti in Rovereto” in cui i versi di due sestine centrali recitano così: (il poeta si rivolge alla campana)
                                                Digh  ch'hinn centenn de milla, ch'è andaa sott
Massacraa da ona furia belluïnna,
Senza cuntà tutt quei che se strascinna
Malconsciaa per i strâd, cont ï oss rott,
O ch'hinn anmò in di ospizzi e in di crozêr
Etegh, orb, o col coo senza pensêr!!
Digh che, per ogni vittima gloriosa
De sta guèrra inumanna, è restaa indree
O ona mamma, o di fioeû cont ona sposa
Che, per piang, no gh’hann pú lagrim assee!
E digh, col nomm di Màrtir, quell infamm
De chi ha sbattuu l' Europa in sto carnamm!!
 
La chiusa della poesia è ancora, se si vuole, più cruda e apocalittica, dove non manca però un fine di speranza e di pace per l’umanità:
 E se l'Umanitaa l’è inscì traviada
De podè nò schivà la mala fin
Che dal Ciel l'era stada decretada
Per la progenitura de Cain,
Vegna on alter Diluvi Universal
A resentà sto mond che và del mal!!...
Forsi allora . . . calmada la bufera,
Dai mont della Vallarsa el sô, a matinna,
El spontarà cont pussee bella ciera
Per quei che s'hinn salvaa in l'Arca Divinna …
E allora i tò « Don!... Don!...», santa campanna,
Saludarann la pâs tra gent umanna!!
In una nota dell’Autore si legge che la lirica partecipò ad un concorso di cui però lui non seppe più nulla. E non poteva essere diversamente, visto che la composizione è del 1930: un clima sociale e politico non certo sfavorevole alle guerre di conquista e di impero. E’ chiaro che un siffatto modo di intendere la guerra non poteva piacere alla cultura del regime fascista. Quegli accenti disperati nel ricostruire i mali della guerra li ritroviamo anche in alcuni sonetti del 1917 e 1918. Speri ribadisce la sua contrarietà e insiste sull’assurda condizione del soldato sbattuto in una guerra non sua, umiliato e martorizzato.
                                               O pover soldaa, mort lontan de cà,
In sui bricch, e in di vall, o in di crozêr,
Per 'vè faa cont coragg el vost dover,
Come stee ben de vèss al mond de là!... 
E vialter, mutilaa! disill sincer
Se no l'era anmò mei lassass coppà,
Che restà chi a vedè i voster bander
impiastrass de sta poca infamità!! . . . 
Dopo tanto combatt per portà in scima,
Su l’altar de l'onor, la nostra gent,
M'hann sbattuu giò in la palta pesg de prima! (…)
Interessante in questo contesto è anche la contrapposizione psicologica tra i prigionieri italiani e quelli tedeschi. Nei due sonetti “El cambi di presonee de guerra” i prigionieri italiani hanno patito
“famm e frecc… angarij e umiliazion
maltrattament e ingiuri d’ogni sort”  
ma sono ancora vivi dopo due anni e possono ritornare dai propri cari, guariti dai mali sopportati, dimenticando perfino le angherie subite in prigionia:
“ma fa nagott: ‘n’oggiada a la mia cà
on basin de mia mamma… e sont guarii!!” 
pensa il soldato italiano. Il prigioniero tedesco invece immaginando il ritorno nella sua terra esclama:
“mi pocch contenta: e, a dilla s’cetta,
mi sàra chi in te tì chissà fin quand!”  
perché in Italia il soldato tedesco si nutriva bene e se aveva voglia andava anche a “Villetta(10).
“In Vaterland, infeci, nicht magnàra!
Baston, balin, pagnotta, ist alles dur
e andar su la forca chi ciciara”  
Tanto è vero, conclude, che se dovesse tornare a combattere contro l’Italia, allora ritornerebbe volentieri prigioniero. L’impasto linguistico tra il dialetto e il tedesco rende vivacità ad una ironia sarcastica e pietosa allo stesso tempo.La seconda guerra mondiale offre al poeta un’occasione per considerazioni più spietate, sia sugli uomini che l’hanno voluta, sia sui bombardamenti che si andavano svolgendo. Nelle strofe intitolate “Donna Paola la descriv vun di primi allarmi aerei, per fortunna senza bomb”, che ha anche un curioso intercalare italiano e milanese, l’incipit ha un sapore leopardiano(11) e lo svolgimento appare come una scenetta teatrale: è un bozzetto leggero, dove alla fine si tira un sospiro di sollievo. Siamo nel 1940. La crudeltà delle bombe è ancora lontana. Ma sono i sonetti del 1943 che offrono una prospettiva ed un giudizio inequivocabile su quello che il poeta stava passando in quei giorni: una visione estremamente pessimistica di ciò che andava succedendo. In “Tarda nemesi” ecco come descrive Mussolini
                                               Par impossibil, se no 'l fudess vera,
che on ciarlatan, pajasc, e supponent,
l'ha poduu governà de prepotent
vint ann e passa ona Nazion intera,
consciandela pocch men d'ona ruvera, (…) 
Il pensiero del poeta è comunque sempre rivolto agli italiani, in modo particolare alle sofferenze dei militari, ed il suo sfogo finisce con l’essere estremamente sofferente e quasi cinico:
                                               Ghe vorariss, per fag purgà l'ingiuria,
che el gh'ha avuu coeur de fagh ai nost soldaa
che el tajassen giò a fett come on'inguria!! 
E non c’è spazio per l’illusione che aveva lasciato il primo dopoguerra, dove ancora si poteva sperare di ricostruire il paese. Ora rimane la disillusione, il rimpianto di un’Italia spezzata, afflitta, affranta. Nel sonetto “Demografia?” Speri arriva a queste conclusioni: 
 
                                        E alura, var la penna, in conclusion

                                       d'avegh tanta premura de fai nass(12)
                                       per mandà avanti on mond inscì cojon? 
In un altro sonetto, “Che infamità”, il poeta racconta di una Milano distrutta dai bombardamenti: è un’infamità, dice, tanto che sentendo la descrizione che ne fa la figlia per quanto era successo alla città, gli era venuto a mancare il fiato “per el magon”. La disperazione è tale che 
(…) Mi vui sperà de podè andà al foppon
senza vedè come me l’hann conscià 
Il sonetto è del 43 e purtroppo di lì a poco, il 9 gennaio del 1946, Speri Della Chiesa Jemoli ci lascerà davvero. Materialmente, intendo. Non certo spiritualmente, perché le sue poesie lo fanno rinascere ogniqualvolta le si legge e se ne gusta il sapore.
La storia, fortunatamente, non è fatta solo di guerre. Ed ecco allora trovare il Nostro che ricostruisce con giudizi tranchant alcuni avvenimenti dell’Italia del suo tempo (1865-1946).  A mezzo tra la storia e la cronaca stanno i sonetti “Imprecazion (dopo i croattad del 1898 a Milan)” e “Che vergogna”, il primo riferito alle cannonate che ha dovuto subire la popolazione milanese più povera mentre manifestava il proprio disagio (la protesta dello stomaco) e che fece diventare tristemente famoso il generale Bava Beccaris, (al quale però il re Umberto I non negò l’encomio e una medaglia di valore) la seconda riportante l’episodio dello schiaffo dato al maestro Toscanini da alcuni esagitati fascisti perché lo stesso si era rifiutato di eseguire gli inni richiesti, la Marcia reale e Giovinezza.(13) Ne do di seguito un piccolo cenno.
                                               (…) dal gran schivi, ho imprecaa contra ‘l destin
                                               Ch’el m’ha minga faa nass Turch o Chinês,
                                                pur d’ess minga nassuu in de sto paës,
                                               dove chi men gh’ha coeur, pu gh’ha fortuna
                                               dove infamia e Governo fan tutt’una
                                               dove gh’ha ona medaja anca Cain! 
La cronaca del tempo che Speri traduce in poesia (soprattutto sonetti ed epigrammi) è costituita in gran parte di avvenimenti politici (le elezioni, in particolare) e fatti di paese. Sarebbe impossibile ricordarli tutti. Per sommi capi trascrivo qui alcuni titoli che potrebbero interessare: “La voss di poveritt sulla quistion di ospedaa”, “Epigramma elettoral”, “La visita del Prefett”, “On episodi in Consilli comunal”, “Dopo i sciogliment di Circol socialista e della Camera del Lavoro de Roma”, “Bottellocarlandreide (Echi del passaggio di S.E. Carlandrea a Morazzone)(14), “A Milan per la vittoria del 10 dicember 1899”. Da questi pochi cenni si vede comunque come il Nostro non tralasci nulla dell’attualità, nemmeno una visita pastorale del Cardinal Ferrari.
Nell’ambito della politica non manca un’attenzione particolare alla giustizia. E la visione che ne sorte è una costatazione deludente: la giustizia è una bella parola, soprattutto sulla bocca dei malviventi che ne sanno trarre vantaggio, ma per l’uomo onesto è un’illusione, una parola lontana e irraggiungibile, tanto che forse non vale la pena essere galantuomini.
                      Giustizia… La maestaa de sta parolla
La vanza sù talment sora a tuscoss,
Che quei cont la coscienza a tira- e-molla
Schiven el dèbet de vardagh adoss.  (…)  
Inscambi el galantomm, che di sò Anzian
L' ha eredittaa i arlij del pont d' onor,
L' invòca sta parolla de lontan,
Ma per ciappalla l' ha bell pari a cor:
Quand l'è lì lì per mettegh sora i man,
Tracch!... la spariss. . Doe l' è ?... Le sà 'l Signor
E ghe ven de pensà, a quell pover omm,
Se var la penna de fa 'l galantomm.
Un’altra immagine di come Speri percepiva la giustizia (e tutto il mondo che le girava attorno) è data dal sonetto intitolato “On simbol induvinaa”, dove si trova sì dell’ironia mista a sarcasmo, ma anche, a ben vedere, tanta e profonda amarezza (tra l’altro pare che lo stato delle cose non sia poi così lontano dal giorno d’oggi) 
Mi soo nò cont che idea e cont che sûgh,
sui scimâs di dò entrad ai sal ďudienza,
ľarchitett ľha miss su vott tartarûgh
ma voriss nò, di volt, che ľintendess
de dedicai, cont pocca riverenza,
ai giùdes che, lì dent, fann i process!! 
Nelle quartine dedicate all’inaugurazione del Palazzo di giustizia di Varese il poeta immagina che arrivi una vecchietta
malvestiva, goeubba e stracca
par or gran caminà, cont ‘na bisacca,
e ‘na stadéra in man (…)
Naturalmente, poiché tutto il pubblico che assisteva all’inaugurazione era vestito “’me ‘r dì d’or Corpisdòmin”, cioè a festa, non la lasciano entrare. La vecchia reclama, dice che quello è il suo posto, ma non c’è nulla da fare, la signora non ha capito che il suo nome è scritto sulla facciata del Palazzo solo per figura
                        Alora lee, sintèndas sto parla,
                        l’ha toeu su la stadéra malconsciava
                        par mettas da bell noeuv a batt ra strava,
                        senza mai trovà ‘r sit da nà a possà(15) 
Il componimento è del 1929, tra lo scherzo, la fantasia e la realtà, il Nostro mostra tutta quanta la verità: la giustizia non abiterà mai in quel Palazzo. E’ un concetto estremo, è vero. Non sarà, non è proprio così. Ma, secondo il sentire del popolo, e Speri ne era un interprete attento, difficile è fare ed ottenere giustizia. La poesia, poi, si sa, ha il compito e, in alcuni casi, il dovere di sintetizzare, radicalizzando determinati concetti, per una propria e sicura efficacia.                                    
L’amore, la vita e la filosofia              
 
E vengo, per finire, al tema poetico di tutti i tempi e di tutti i luoghi, per eccellenza, che è l’amore.
L’argomento è trattato in forme differenti: la panzaniga, la canzone, la barzelletta, la lirica, l’epigramma. In tal modo il pensiero di Speri cambia a seconda del momento e dell’occasione, anche se, tutto sommato, per il Nostro l’amore ha un posto speciale nella vita. Bisogna poi stabilire se sia sincero, interessato, sfacciato, inopportuno. Rivelandoci la sua idea dell’amore, Speri ci offre anche uno spaccato della sua filosofia e del suo stile di vita. Ne “On dramma su on tècc” il poeta racconta del grande amore tra un passerotto ed una passerottina. Ma tra un volo e l’altro il passerotto incontra una canarina
                                                               (…) Che la s’era mettuda a sbarloeuggià
                                               De sbièss sul cornison,
                                               Cont qui so bej oggitt pien de passion (…) 
Nasce così tra loro l’amore (o la passione). Il tradimento, però, viene scoperto dalla “moglie” del passerotto (cioè dalla passerottina) che immantinente si scaraventa sul “marito” colpendolo a dovere. Chi ci rimette le penne, è il caso di dirlo, è la povera canarina che rimane bell’e che morta sul cornicione.
                                               Per on poo l'ha guardada, el passarott,
Cont on sens tra dispett e compassion …
(Forsi pensand anmò a qui moment bon)
Poeu, zònfeta ! . . . el l'ha tràda giò de sott
In d' on groppett de ortîgh . . .
A fass rosegà foeura di formîgh ! 
Per Iù, el limon, ormai l' era spremmuu …
Sicchè . . . cossa vorii che ghe n'importa
Che l'altra la sia viva o la sia morta
Iù l'ha godùda . . . e chi n'ha avuu n'ha avuu!
Se l'ha trattaa de can                                            
No l'ha faa d'alter che imità i cristian!
Si tratta di una panzaniga, è vero, ma nell’accostamento finale tra l’universo animale e quello umano, tra i sentimenti del passerotto che sono pari a quelli dell’uomo, si intravede tutta la forza etica dell’insegnamento e dell’esempio. Le sestine sono del 1892, in piena giovinezza, dunque, ma già foriere di una maturità e di una visione di vita ben precisa. Una visione che ritorna, ogni tanto, a farsi sentire come in questo passaggio di “Una canzun dinamica
                                          Incoeu, iscambi, se Dio voeur,
                                          Se fa pù inscì tant cuntee:
                                          Sentiment, coscienza e coeur
Hinn sta miss tutt in soree (…)
Tant se sa che incoeu in amor
Per avegh fortuna e stima
Tutt el merit l’è in del côr
E in del fa a chi riva prima 
Ma l’amore possiede anche il dono della freschezza e della leggerezza di un sentimento sereno, positivo, che si ritrova nell’ambito della tradizione popolare. La canzone più famosa è forse “Ta sa regordat?” dove nemmeno il tempo può fermare o frenare il bene che l’uno e l’altra si vogliono.
                                               Mò ti set veggia – ra mè Luziètta
                                               E mì, a fa ‘r martor – sont giò da straa…
                                               Ma quand ca vedi – ra Schirannetta
                                               Senti anmò i streppit – da innemoraa!! 
Il ricordo diventa forza per poter proseguire in quella via d’amore reciproco iniziato sì con un pizzicotto ed uno schiaffo, ma proseguito sull’altare e non ancora terminato. Il tutto inquadrato in una logica borghese di benessere e salute, come nei versi finali di “Su massera                                       
                                               L’è inscì bell – mì  e vù massera –
                                               Tost che ‘r sô l’è nai da là,
                                               a nà foeu a scennà in su r’era
                                               quand sa sent i grì a cantà!
                                               Ringraziemm ra Provvidenza
                                               Finna quand sa po' scampà,
                                               Ca l’è anmò ra mei sentenza:
                                               vegh salût par lavorà! 
Si può notare, tra l’altro, che in tutte le liriche d’amore del Nostro non si trovi una donna: lui nomina sempre “la” donna, che si chiami Luzietta, Maria o altro, i nomi sono solo un flatus vocis: quello che il poeta descrive è l’amore in sé, nelle sue varie accezioni, smorzato, a volte, in una sensualità indefinita, a volte in una emozionante, quasi adolescenziale, ingenuità e genuinità.
                                               Ma a stagh visin, che gioja che se proeuva:
                                               A scoltalla, a parlagh, e anca a tasè!
                                               E l’è on gust che ogni volta el se rinnoeuva!
                                               Ah! On basin de qui lì, l’è nò ch’el piasa
                                               Domà perché a basass se gh’ha piasè:
                                               Lì se sent ch’hinn do ànim che se basa!! 
L’adolescente, diventato adulto, continua in questa visione, sebbene se ne adombri un poco, perché gli anni non gli permettono più di essere come prima. 
                                               (…) Cosa me serva
                                               De ripensà ai bei dì de la legrìa,
                                               ch’hinn come tant ferìd che me se derva? (…)
                                               Mi già, pensàndegh sora, me par fina
                                               Ch’el maa del limonà ghe l’abbia adoss
                                               Come ona féver crònega, assassina,
                                               Che resta dent per semper in dì oss. 
                                               Hin già distant i ôr de la matina…
                                               L’è squasi nocc, de sarà su tuscoss,
                                               Eppur, se scolti, senti ch’el se ostinna,
                                               Sto póver coeur, a batt a pù non poss… (…) 
Il fervore della gioventù, ma anche l’approssimarsi della vecchiaia, l’uomo maturo, la malattia e la salute, il lavoro, il ringraziamento a Dio e la possibilità di accontentarsi del bene che si ha. Tutto ciò contribuisce a costruire l’eterna espressione dell’amore. Ma esiste una definizione di amore per Speri Della Chiesa? Leggiamo i primi versi di un sonetto intitolato, non a caso, “Amor” e immediatamente ci accorgiamo della contraddizione in sé, secondo il poeta, di questo sentimento (il sonetto è del 1892) 
                                               Amor!... Foeugh delizios.. tremenda fiamma
                                               Manna del ciel… e tossich infernal!
                                               Gioja e martiri… spada a doppia lamma
                                                Che tocca e sanna, o dà feriid mortal (…) 
Le antinomie che offre l’amore sono quelle della vita. Ecco la filosofia di Speri. Varie sono le esperienze, vari sono gli uomini,(16) varie sono le situazioni e i sentimenti. Allora si può anche cantare. Si può scherzare. Si può ironizzare. Lo scherzo e l’ironia sono gli elementi che ci salvano dall’odio, che ci aiutano ad andare avanti, a superare gli ostacoli che immancabilmente la vita ci propone.(17) Per questo, però, è necessario salvaguardarsi con degli ideali che sono: onestà, giustizia, pace, solidarietà. “Voremmes ben” dirà nell’omonimo sonetto lo Speri. 
                                               (…) El piott, i grì, i bottrîs, la raganella,
                                               Par che disen: O gent, siee nò rabbiaa!
                                               A voress ben, la vitta l’è pùr bella! 
Si tratta in massima parte di valori laici, è vero. Ma che sconfinano e si sovrappongono a quelli cristiani. Se c’è polemica, in alcune liriche, con il comportamento di alcuni sacerdoti è solo per la mancanza, in questi ultimi, di spicciola razionalità, di “larghezza di vedute(18), di sensibilità e pietà umana in alcuni casi. Lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, i pistolotti poetici di botta e risposta tra il Nostro e Monsignor Angelo Del Frate,(19) apparsi rispettivamente sul ”L’Olona” e sul “Cacciatore delle Alpi” nel 1899. 
Conclusione 
L’opera di Speri Della Chiesa Jemoli ha offerto vari spunti di riflessione e di studio. Non tutto è stato affrontato.(20) Ma per lo meno si è inteso – e qui mi ripeto – dare credito a quell’intuizione pasoliniana che ha messo il Nostro sul piedistallo dei poeti dialettali degni di essere annoverati a livello nazionale. Ecco perché Speri va al di là della semplice e scontata varesinità. Uno sponsor come Pasolini non poteva essere meglio ingaggiato. 
Enea Biumi                                   
(1)   Pier Paolo Pasolini, “Passione e ideologia”, Garzanti, Milano, 1973, pag. 85: “Tenuamente più rilevati – riferito ad alcuni poeti presi in considerazione in precedenza – S. Della Chiesa Jemoli il cui consueto tono prosastico, raso terra, dialettalmente scherzoso, ha una maggiore compattezza d’impasto, una più naturale pronuncia, e A. Negri, etc…”
(2)   Nel linguaggio varesino o bosino è frequente il fenomeno del rotacismo (“la” diventa “ra”, “on” diventa “or”). Da notare, nonostante la trascrizione della parlata bosina, la grafia che rimane pressoché “milanese”. Solo recentemente i poeti varesini adottano una grafia indipendente, così che il milanese “on” diventa “ur” e non “or”. Si veda anche il “Calandari” che passa dalla prima dizione dove si usava “do ra Famiglia Bosina par or…” al recente (più varesino) “d’ra Famiglia Bosina par ur…”. D’altra parte Speri non aveva grandi e famosi esempi di poeti varesini a cui attingere per la scrittura. E si sa tra l’altro che ogni quartiere, proprio per la peculiarità del dialetto, ha la sua pronuncia. La scelta di un riferimento al milanese mi è sembrata inevitabile per il Nostro.
    (3)   Sebbene la scrittura di questa silloge si basi prevalentemente sulla grafia milanese, si incontrano poesie che mostrano la parlata varesina (si veda ad esempio “Ta sa regórdat?”)
(4)   Si veda “On’impresson de viagg” o “ Marzio” o “I nost campagn
(5)   I testi cui faccio riferimento sono: “Vers … de lira!” Mai & Malnati, Varese 1932 (terza edizione); “I nostri buoni villici e Poesie diverse” a cura del Rotary Club di Varese, Grafici A. Nicola & C. Varese-Milano 1955; “Ricordo di Speri Della Chiesa Jemoli – poeta” a firma di Clemente Maggiora in “Calandari do ra Famiglia Bosina par  or 1983”, pag. 90; “Varés di temp indrée” edizioni Lativa, Varese 1993; “Novell, Panzanigh, Canzon, Bosinâd e Minestron” , Edizioni Lativa, Varese 1995; “Su e giò de sti rotai” Edizioni Lativa, Varese 1995; “In ricordo di Angelica Della Chiesa Jemoli” a firma di Natale Gorini in “Calandari d’ra Famiglia Bosina par ur 2009” pag. 84
(6)   Se non ricordo male, ma non saprei citare la fonte, ai primi del ‘900 il Sacro Monte di Varese era raggiungibile da Milano – piazza Duomo – con solo i mezzi pubblici (tram-treno-tram) in circa un’ora e mezzo. Con l’auto oggi forse ci si impiegherebbe di più (con l’aggiunta dell’inquinamento atmosferico e acustico)
(7)   Da una lettera alla sorella Paolina (7 settembre 1825). Non si può comunque non ricordare l’impressione che ne ebbe – non tanto di Varese, quanto dei suoi dintorni  – lo scrittore francese Stendhal: Ensemble magnifique; au coucher du soleil, nous apercevions sept lacs. Croyez-moi, mon ami, on peut courir la France et l'Allemagne sans avoir de ces sensations-là.”.  Mentre il Balestrieri così descriveva il panorama dal castello di Masnago:
" De chì se osserven miss in proporzion
Camp, ronch, bosch, praa, mont, vall, collinn e lagh
Chì i pittor e i poetta ponn vedè
cà e terr ben scompartii come in peltrera;
E marcaj e distingui con piasè."
(8)   Racconta a tal proposito Lino Oldrini nella prefazione a “I nostri buoni villici” edito nel 1955 dal Rotary di Varese: “Giovanissimo tentò l'avventura in terra straniera, recandosi a Marsiglia, ove fu impiegato presso un armatore: nell'ambiente cosmopolita, a lui ancora ignoto, si trovò a suo agio, pur conservando nel cuore il ricordo della sua terra, come appare dai pochi autografi di quel tempo. Tornò in patria per l'esigenza del servizio militare; ma con molto poco entusiasmo giacché la vita del soldato non era fatta per la sua natura.”
(9)   Scrisse dapprima sull’”Uomo di pietra”. Il foglio era l’organo milanese dei repubblicani, fondato nel 1856 da Carlo Ricetti, uno degli esponenti della Scapigliatura, che lasciava ampio spazio alla satira di costume contro il mondo borghese e avanzava velate critiche politiche provocando numerosi interventi della polizia austriaca. Dopo l’Unità l’”uomo di pietra” eserciterà una più aperta satira politica verso i governi di Destra e di Sinistra. Nel 1892 Speri fondò a Varese il “Cacciatore delle Alpi”, di cui fu proprietario e direttore. Su quelle colonne fecero la loro prima apparizione a puntate “I nostri buoni villici
(10)Per antonomasia, luogo di ricreazione (N.d.A.)
(11) Scintillaven, i stell, nel firmament  / A imitazion di lucciol in d’on praa, /e la luna con l’ultim so segment  / la ostentava i duu corni illuminaa (…) / La pareva una nott d’incant divin /  Creada par dagh l’ansit ai poetta /  De esarà qui canzon faa a tavolin /  Senza che i pett sia el coeur che ghe je detta (…) 
(12)Cioè “far nascere i figli”
(13)L’episodio è avvenuto a Bologna il 14 maggio del 1931
(14)Una delle poche poesia in italiano. Fortemente satirica.
(15)Da notare l’uso del rotacismo, tipico della parlata bosina
(16)El mond l’è bell perchè l’è variaa” , canzone del 1893
(17)“Tiremm innanz, cerchémm de restà a galla,
fin che ven l’ora de andà sott del tutt”
(18)Si veda ad esempio “Sonetto indirizzato a don Cabrini, parroco di Arcisate che dal pergamo aveva inveito contro i giornali liberali”, oppure “Se l’è vegnuda la vegnarà - A sora i procession per fa pioeuv
(19)Un esempio può essere il sonetto “Est distinguendum” di Mons. Del Frate, con replica di Speri, controreplica del Monsignore e replica alla controreplica del Nostro.
(20)Esplicita ed esaustiva l’introduzione a “Varés di temp indrèe” di Franco Lanza dell’Università della Tuscia (1983) così come la presentazione ai lettori, nello stesso volume, di Clemente Maggiora. Interessante, e da sottolineare, anche il dibattito avvenuto all’Università degli Studi dell’Insubria nel dicembre del 2015 per onorare il 150° anniversario della nascita del Nostro. L’incontro fu reso possibile grazie al “Centro Internazionale di Ricerca per le Storie Locali e le Diversità Culturali” (International Research Center for Local Histories and Cultural Diversities) dell’Università degli Studi dell’Insubria che l’ha organizzato. Relatori furono: Alberto Bentoglio (Università degli Studi di Milano – professore di Storia del teatro e dello spettacolo e di Organizzazione ed economia dello spettacolo), “La scena teatrale milanese tra Otto e Novecento”; Angelo Stella (Centro Nazionale Studi Manzoniani – Accademia della Crusca), “La cornice dialettale”; Felice Milani (Accademia Ambrosiana, Classe di Italianistica), “Mondo contadino e passione politica nella poesia dialettale di Speri Della Chiesa”; Serena Contini (Coordinatore museale – Responsabile Archivi Letterari, Musei Civici di Varese), “I ritratti di Speri”; Nicoletta Sabadini (Università degli Studi dell’Insubria – professore ordinario di Informatica, Dipartimento di Scienza e Alta Tecnologia), “Il progetto “Portale dei dialetti”. Moderatore dell’incontro fu il professor Gianmarco Gaspari (Università degli Studi dell’Insubria – docente di Letteratura Italiana, Dipartimento di Scienze teoriche e applicate, Direttore scientifico del Centro Internazionale di Ricerca per le Storie Locali e le Diversità Culturali dell’Università degli Studi dell’Insubria).

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento