La realtà poetica ha numerose sfaccettature.
Didascalicamente si può decriptare attraverso l’analisi, da tempo codificata,
in significato e significante. Ma si farebbe torto al lavoro di Paola Pansa se
si usasse solo questo criterio scolastico per esaminare la sua lirica. Parlo di
lirica al singolare perché la sua è una poesia che parte da un centro vitale,
quale può essere il mondo, e si incanala in tanti rivoli che hanno per oggetto
la scrittura e per soggetto l’uomo. O viceversa. Non ci si lasci ingannare
dall’io sempre insistentemente presente. Si tratta di un soggettivismo che si
irradia nel lettore e che al tempo stesso riflette come in uno specchio le
emozioni del momento. Insomma, “tutto è
finzione/ ogni cosa/ può essere altrove.” Che significa sostanzialmente
tradotto in prosa: attento lettore, non lasciarti ingannare dalle parole, vai
oltre, guarda più a fondo della mia scrittura, solo così potrai trovare un
segno o il segno della fruibilità dei miei versi. “E faccio dello scrivere/ il proiettile che esplode/ il grilletto
premuto a occhi chiusi/ che va dritto a colpire/ pagine e pagine di silenzio”. A
volte sembra che la Poetessa giochi e scherzi con noi. Ci introduce in un
labirinto dove ad ogni angolo sta scritto “uscita”
ma l’uscita non la vedi. Anzi. Ad
ogni uscita sta un’altra uscita e tu giri in continuazione, richiamato
anche da una scrittura ponderatamente ironica, a tratti parossistica, a tratti
icastica in cui il realismo si sovrappone e si coniuga al soggettivismo
estremo, dissacrante. “Ma sedendo e
mirando/ inconclusi silenzi/ il pensiero si posa/ su un nulla/ che non conosce
confini”. Al di là della citazione leopardiana, subito graffiata e forse
punita da quel foscoliano nulla infinito ed eterno, il lettore è colto da una
specie di girotondo adulterino che lo fa trastullare, come fosse un adolescente
disperso in rivoli di pensieri sul futuro, in una lotta dell’oggi mai spenta e
mai sopita. Siamo polarizzati in una combine magica e accattivante, rinchiusi
in un sogno che anticipa e posticipa. “La
mia rivoluzione/ non è un mulino a vento/ l’unica cosa che aspetto/ è che il
momento/ diventi maturo”. E a proposito del don Chisciotte, implicito
nell’ultima citazione, la complicità con il lettore diventa trasparente reità: “mi credo un nobile cavaliere/ do alla
realtà le maschere che/ più si addicono alle mie assurde/ e strampalate
imprese”. Quando ero piccolo amavo andare al Luna Park, salire su di un
veicolo autotrasportante ed entrare in un tunnel dove incontravo
successivamente spettri, scheletri, streghe, pirati e subdoli visi da forca,
venendone da una parte attratto e dall’altra respinto. Ne avevo timore, certo.
Ma ne ero pure calamitato. Mi pareva di vivere in un incubo, ma ero consapevole
della falsità di quel momento e di quegli individui indecenti, lontani dal mio
vero ambito quotidiano. Ecco: la poesia di Paola Pansa ti veicola in questo
mondo che oggi si direbbe virtuale perché apparente, dove però nulla sembra essere
vero. Sembra. Perché i dati della realtà appaiono falsi, scorretti,
irrimediabilmente insinceri. Eppure non è così. Come “il fumo della sigaretta/ crea suggestioni/ sul foglio/ che portano
ovunque”, così la scrittura per la Poetessa diventa la scusa per
confessioni e ammissioni. Non esiste altra possibilità per vivere se non nella
poesia e con la poesia. In un gioco di continui echi e rimandi i versi di Paola
Pansa hanno la sorprendente leggerezza di una volontà costantemente alla
ricerca di qualche misterioso segreto. Infatti “C’è un sempre/ che non trova posto nel tempo/ e vaga nella mente/
smarrito e solo/ come un avverbio/ che non ha frase pronta ad ospitarlo/ un
senso ignoto/ anche a se stesso/ un significato/ che tarda ad arrivare”.
Enea Biumi
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