martedì 13 ottobre 2020

Fabio Scotto, Storia di Emma C. e altre poesie, Puntoacapo, Alessandria, 2020

 


In una nota finale ed esplicativa di questa silloge Fabio Scotto ci ricorda la sua idea di poesia, che rivela poi il suo modus operandi, e cioè: “costante fedeltà all’autoascultazione del corpo, della sua voce e dei luoghi del mondo”. Che didascalicamente tradotto significa privilegiare il campo dei cinque sensi, come insegna la lezione leopardiana. In effetti non c’è pagina in cui non si presenti la materialità ontologica che si trasmuta, per magia di parola, in una visione meramente pura, scevra dai ceppi illusori della semplice realtà, la cui scaturigine sperimenta un’idea totale della scrittura intesa come poetica, teatrale, lirica. Si innesta così una specie di non-luogo, di non-tempo (o meglio: oltre-tempo), che si dipana nel duplice binario antipodale: hic et nunc, da una parte, e ascesi inesprimibile, dall’altra: al pari di quella zattera gremita d’invisibile di Raboni.(1)  Il trait d’union che agisce da stimolo, sia di lettura che di scrittura, è il sentimento (desiderio, voglia, urgenza, tensione) d’amore. Si potrebbe nel concreto partire da questi suoi due versi, inclusi nella lirica Le parole, come ex ergo o incipit di critica al volumetto: “Ti dico ‘amore’, rispondi ‘amore’/ E già la sera è più serena”. Sì, perché l’amore la fa da padrone (mi si permette la semplicità di questa espressione), risultando il dominus indiscusso e riconosciuto di tutta la raccolta poetica, l’elemento centripeto e centrifugo, colto in ogni suo spessore, nella sua poliedrica consistenza e nella sua necessaria ambiguità.

Nel pezzo iniziale, altamente drammatico, e che dà il titolo a tutta l’opera “Storia di Emma C.”, la protagonista, Emma appunto, racconta la propria vita di fanciulla povera, dove la fatica del quotidiano e la miseria si accumulano di anno in anno. Mentre i genitori non tralasciano di azzuffarsi, anche per un nonnulla, Emma si ritaglia uno spazio tutto suo, un recinto di protezione che sarà alla fine spezzato, una volta raggiunta la pienezza di donna, dalla violenza e dallo stupro del padre su di lei. “Io che ti amavo se mi tenevi in braccio/ se mi donavi bambole di pezza, o un gelato/ eccomi lacera e vuota/ qui tra la latta e il vetro/ nel silenzio del sangue…”. Il padre verrà denunciato e portato in galera, ma la povertà costringerà la protagonista a prostituirsi. “Il  mio corpo è altrove/ persa ne è la chiave/ Così Emma C. muore…/ Cercatemi nella gola di mio padre/ Nelle tomba degli elfi/ Nella bava del sole”. 

Questo monologo teatrale(2) mette in luce, come in un metaforico caleidoscopio, l’ambiguità dicotomica insita nel concetto d’amore, rivelando (è il suggerimento dello stesso autore)  un non lieto fine, quell’impossibile su cui insiste la filosofia di Georges Bataille.(3) E non c’è chi non veda che la realtà si trasforma, oltre che in denuncia, in intensa  riflessione sui comportamenti umani. Ecco lo scarto di cui parlavo inizialmente. I luoghi, i personaggi, le azioni diventano ipso facto universali. Sforano in un oltre, immateriale, dove la carne si fa coscienza e la parola assume la probità della ricerca della verità.

Allo stesso modo possiamo intendere gli altri capitoli del volumetto, forse meno drammatici ma comunque sinceramente vitali e di interesse. Così il “Diario di Ciutadella” diventa l’occasione per un dialogo d’amore con il padre. Qui l’elemento autobiografico prevale chiaramente, tuttavia non pregiudica la prosa poetica, rimanendo sempre in un ambito “alto”, come se Fabio Scotto ritraesse se stesso e il proprio padre, in una sorta di linea d’ombra del ricordo, non tanto per speculum in aenigmate quanto dentro lo specchio medesimo. “Carrer del Portal de la Font/ Carrer del Dormidor de las Monges/ Una panchina riflette la mia ombra/ Basta poco, purché la vita duri”. In tal modo la meditazione non è solo sul rapporto d’amore fra padre e figlio, sui loro gesti, sulle loro aspettative o intenzioni, bensì uno scoprire che al di là del muro, che li ha separati, la vista si spalanca su nuovi orizzonti, offre infinite letture. E c’è un passaggio, nel diario, da non sottovalutare, perché rinforza l’immagine di un poeta non astratto, non lontano dalla realtà, anche quando parla di se stesso. Lo cito nella sua completezza perché dimostra, se ce ne fosse bisogno, come la poesia, quando è veramente tale, non è né cieca né sorda. “Altri pianti di bambini meno udibili e meno visibili solcano in queste ore il Mediterraneo su vecchie barche sovraccariche di carne umana votata al macello, la cui vita conta ormai meno di nulla e non godrà della misericordia dei pescecani (i peggiori sono quelli umani). Ecco la vita in tutta la sua complessità, con tutte le sue ferite, nei suoi momenti più brutali di una morte ingiusta. Forse per questo si rende necessario proseguire, continuare, ridisegnare nuovi spazi, nuovi progetti, nuovi dialoghi. “La vita è un hangar dal quale spicchiamo voli senza senso./ Il senso, se c’è, padre, sta nel volo, non nella meta, né nel consenso (maestra fu da sempre in tal senso l’Itaca di Kavafis)”.

Un altro capitolo di questa raccolta poetica si intitola “Trittico lericino”. In esso il poeta, di origini spezzine (importante sottolinearlo), ritrova i colori e i sapori della sua terra natale e soprattutto si congiunge idealmente alle orme di artisti che di quei luoghi hanno valorizzato il nome. “Qui sono nato/ nel Golfo dei Poeti/ dove ogni hôtel/ si chiama Byron o Shelley” Per continuare nei versi successivi con una nota di melanconica autobiografia, come se, magari inconsciamente, volesse stabilire quasi un confronto con l’esperienza di chi, poeta, l’ha preceduto: “E la Venere che invoco ogni mattina/ ancora tarda/ ancora non risponde”.

Molto più esplicito, invece, è il rapporto con la sua Venere (F.) nel capitolo intitolato Movenze. Si tratta di una sequenza di amore erotico che il verbo poetico sublima ed isola in istanti di fermo immagine, dove però non viene meno la consapevolezza che qualcosa forse domani potrà mancare: il tempo, l’anima, il corpo? “Prendimi il sangue delle labbra/ la febbre feroce che mi salva/ Domani poi saremo nulla/ Ora cullami nel volo/ lubrica tua fanciulla.”

Nella sezione successiva Flamenco l’amore s’intreccia alla danza, s’incontra nel canto, si abbandona al ritmo sensuale delle chitarre. È un turbinio d’immagini sempre in movimento, un accumulo di sensazioni uditive e visive che trascinano il lettore entro le tipiche taverne spagnole dove il flamenco è il re della serata. Rivivono suoni e movenze: afrodisiaci momenti. “Non tori, né banderillas/ solo lei che fugge/ o lui che non la piglia/ il cerchio si stringe/ tintinnano caviglie/ e palme sulle cosce/ tonfi di pece sul costato.” La bravura poetica di Scotto in questo caso, ma non solo, si rivela in tutta la sua dimensione. L’andamento della lirica segue l’andamento del flamenco, il trasporto è immediato, non c’è tempo per respirare o per pensare: esiste solo quel momento, immerso nel ritmo incessante dei suoni e della danza. “Ma tu danza/ sul mio cuore ferito/ danza, danza, danza,/ sul mio cuore rinato/ danza, danza, danza/ contro il freddo che sento/ nel silenzio del mondo/ con la voce del vento/ tu sia amato tormento/ Flamenco.”

L’ultimo segmento della raccolta, Nostos, rievoca i luoghi in cui l’autore è stato, le sensazioni avute, il rapporto con gli altri e in particolare con l’altra. Le città visitate diventano àncora di salvezza, forza per proseguire, invitano alla coscienza di un sé intelligente nella conoscenza del mondo. “Sapermi solo/ Ma è solo un’ombra/ nel blu del tuo bel riso/ Wisla, viso, vivo, scrivo”. Questa, dunque, la consapevolezza del poeta che, immerso nelle contraddizioni inquietanti della vita, riporta alla luce ciò che spesso non vediamo e non udiamo perché le parole che quotidianamente sentiamo sono distanti dalla verità e non ci permettono di percepire la realtà. Per questo il ritorno, non solo fisico bensì spirituale, non è mai inutile o scontato: è la percezione che qualcosa di umano ancora rimane: è la forza della poesia. “Nostos l’amore/ Nostos ogni primo fiato/ l’esilio espiato/ tra orde di aguzzini in foia/ e gente che muore in strada/ d’inedia e di freddo/ frollata dal vento della storia”.

Enea Biumi

 


 

1)      Giovanni Raboni, Quare tristis, Mondadori, Milano, 1998

2)      Storia di Emma C. è stato rappresentato dall’attrice Eugenia Marcolli, con adattamento e riduzione, al Teatro Santuccio di Varese, il 24 novembre 2019, per la regia di Nicola Tosi.

3)      “Il progetto di raccontare il desiderio umano diviene un ricettacolo del torbido che spalanca una rivelazione inedita delle nostre esperienze interiori, il loro dialogo con la violenza, il gioco, il teologico e l’ateologico”. (….) “….la speculazione di Bataille si dispone intorno alle privilegiate esperienze di naufragio dentro cui l’uomo può sperimentare una differente versione di sé, aliena ai codici razionali dentro cui la storia lo ha adeguato. L’indocilità della nostra parte sacra e maledetta coinvolge Bataille in un inseguimento dell’impossibile fatto di silenzi, ingorghi concettuali e poetiche esplosioni di riso che erodono le norme discorsive e l’autenticità stessa delle strategie con cui invano tentiamo di disciplinare definitivamente la nostra inquietudine erotica.”  Tratto da: Georges Bataille: la mistica dell’osceno, tesi di Laurea di Diletta Caimmi, anno accademico 2016-2017, Università di Bologna, relatore prof. Vittorio D’Anna.

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