Enea Biumi è poeta civile. Lo dimostra nuovamente e in modo fermo esprimendo sulla pagina il titolo stesso della raccolta di poesie “Maris ast”, che in lingua pashtu significa “ci sono feriti”. I versi sono volutamente brevi, essenziali, perfino scarni. Eseguono una partitura minimale nella quale s’insediano tracce visibili di una umanità allo sbando. Moti violenti di scontro e di guerra, di diffuse ostilità, imprimono il passo di una marcia quotidiana e forzata, divelta dal fragore dei traumi e delle cadute. Dicono dei versi: “all’unisono la notte/ ha il sapore della cronaca”, quella che imprime l’insondabile profondità della prova. La durezza della domanda rivela nell’autore l’ansito di chi ha fame e sete di giustizia, attraverso una costruzione di versi accorpati come mattoni ritraibili da uno spazio circostante in cui i silenzi sono occasioni di pensiero. Sorge qualche spiraglio naturalistico, quasi a farsi tregua, incanto ancora possibile: “s’ammanta la luce presta del mattino/ e ferma le ore il destino”; ma l’attimo è comunque assediato dalle reiterate urgenze dei fatti e da una distruttiva retorica dell’ipocrisia imperante che caratterizza i messaggi del potere. “Informatica, impresa, inglese”, quasi mantra illusoriamente salvifico a rivelare una società caratterizzata da una persistente assenza di umanesimo integrale, quello cioè capace d’innestare l’elemento autenticamente spirituale nella dimensione ontologica dell’uomo. La ricerca è quindi constatazione amara veicolata dall’autore nei versi “parlati”, nudi, in alcune occasioni lievemente mossi da cenni di assonanze o rime. Intanto, le vie ancora “il poeta le percorre di notte/ a fari spenti/ per non disturbare/ il sonno degli innocenti”; quasi figura appartata ed esclusa, lemure trafitto da una sensibilità affranta. Enea Biumi osserva i tanti sofferenti di ieri e di oggi, gli ultimi, gli sconfitti, con una compassione che indica autentico partecipare emotivo, profondo, nel senso del “patire insieme”, adottando un versificare franto in accezione di percosso, colpito dalla durezza di un pungolo che si fa testo denuncia, testimonianza autoriale. Poi dal tutto sembra, a volte, emergere una sorta di visiva quiete ritrovata, quando s’intensificano segni “e le foto tra le onde e l’ombrellone/ una lettura/ vaga come quei pescatori sugli scogli”.
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
martedì 30 novembre 2021
lunedì 8 novembre 2021
Enea Biumi, Maris ast, Ilfilorosso editore, Cosenza, 2021
La consapevolezza dell’impotenza della parola e l’imperativo etico di
denunciare il negativo dell’oggi
Queste liriche
di cui Enea Biumi (alias Giuliano Mangano) ci
fa dono segnano un importante momento della sua inesausta ricerca esistenziale
e artistico-letteraria che lo ha visto cimentarsi in diversi ambiti: dalla
musica, al romanzo, al teatro. Il
denominatore che accomuna questa molteplicità di esperienze e percorre come una
filigrana in particolare i testi di questa raccolta, è costituito dall’intento
di disegnare un quadro a tinte
fosche dell’oggi tanto celebrata
mondializzazione, colta dalla prospettiva di chi ne coglie e soffre nella
propria carne i contraccolpi laceranti e distruttivi.
II titolo Maris Ast, “Ci sono
feriti”, trae spunto infatti da un’
espressione in lingua ‘pashtu’ presente in un episodio di Buskashì: viaggio dentro la guerra, il racconto-testimonianza di Gino Strada sulla guerra in Afghanistan,
pubblicato nel 2002. In effetti i
quarantaquattro testi della silloge rappresentano una mondo umano ‘ferito’, massacrato, condotto
verso l’annichilamento da guerre continue e atroci che, se sono state una costante del secolo scorso, hanno
anche sinistramente attraversato i primi vent’anni del nuovo millennio. L’intenzione
di gettare uno sguardo non sentimentale ma oggettivo sulla realtà si rivela
forse nell’assenza di titoli: le poesie sono solo numerate. Le conseguenze
tragiche dei conflitti, scatenati da una rinnovata aggressività economica e da
fanatismo ideologico-religioso, sono pertanto violentemente proiettate
dall’autore sotto i nostri occhi senza
compiaciuti sentimentalismi. Fin dalla prima lirica che non casualmente si apre
con il drammatico annuncio “Maris Ast”, urlato e ripetuto in più momenti della
composizione, dominano immagini di
disperazione e di morte: “E gli occhi rifuggono gli occhi / Le
mani a implorare / Sotto la tenda lo spazio / Della vita breve // Fuori il
vento spezza le ossa // Una bomba / Si avverte dopo / Polvere e schegge”. Alla
radice dell’ispirazione biumiana sta dunque l’esigenza etica di osservare con
sguardo fermo il negativo della realtà
storica, assumendo una netta posizione a fianco delle vittime, degli
emarginati, degli sconfitti sfuggendo a facili cedimenti populistici. Nella
seconda lirica assistiamo infatti all’emblematica contrapposizione tra
l’indifesa fragilità di un bambino e la durezza cieca, anonima dei soldati:
“Come la stampella di un bimbo / Che in viso porta l’affanno // Mentre
irrompono soldati / Con l’inganno”. In questi versi va colto l’efficace uso
della rima che associa e contrappone due parole dal significato antitetico: l’
‘affanno’ è infatti la manifestazione immediata e irriflessa dello stato d’animo di sgomento che assale la
vittima; l’ ‘inganno’, nasce dall’uso freddo e perverso della riflessione
attuato dal carnefice.
La guerra è d’altra parte una costante di quella angosciosa e
distruttiva accelerazione storica che l’umanità ha vissuto già nel XIX e XX secolo. Ecco infatti, nella lirica Sei, che l’autore rievoca la terribile
esperienza che il popolo italiano ha vissuto con la Prima Guerra Mondiale,
contrapponendo sarcasticamente al bollettino enfatico della vittoria emanato dagli
alti gradi militari un desolato e aspro commento morale: “Per rivolgersi ai
morti / Necessita il rispetto / E non le solite balle / Di terre promesse / Ma
mai mantenute”(Sei). Il destino di
sconfitta dei ‘ragazzi del ’99’ mandati al massacro della guerra, sembra
riproporsi, in una sinistra corrispondenza storica, in quello dei giovani del ’49, la generazione del Sessantotto,
condannata a vedere tragicamente bruciate in breve tempo le proprie speranze di
liberazione esistenziale e politica: “I ragazzi del 49 sono una nave incagliata
/ Che i turisti invadono per la foto ricordo / Sono un ponte crollato” (tredici).
Ma l’intento di affrontare e rappresentare i conflitti e i drammi del mondo attuale dal punto di vista di una
rarefatta universalità generalizzante può trasformare la doverosa denuncia del male in stucchevole retorica,
per quanto dignitosa e austera. Biumi sfugge a questo rischio filtrando i
grandi eventi dal punto di vista di una vicenda individuale. Ce ne offre un esempio la lirica Sette, dove l’evocazione poetica è
innescata probabilmente dalla visione della foto del nonno dell’autore, fante nella Prima Guerra Mondiale, qui
rappresentato sullo sfondo della desolazione della trincea e della miseria
domestica: “C’era un’umida stanza / La foto del nonno in trincea / O
prigioniero alle Tofane / Il cesso in comune / Fuori / Sul ballatoio ringhiera / La carne quando
c’era se c’era / Una briciola di pane / Che doveva durare”.
La lucida e impietosa diagnosi dell’autore sul mondo contemporaneo evidenzia
in diversi testi la violenza indiretta che, su un’umanità oppressa e umiliata,
esercitano le tecnologie informatiche, i mass media, le ideologie ufficiali
religiose e politiche, la morale ipocrita e i falsi valori delle classi dominanti a volte purtroppo
introiettati dalle stesse vittime: i ceti subalterni. Nella lirica Nove l’interno domestico piccolo
borghese o proletario tradisce il fastidio, la ripugnanza spontanea dell’autore per una ritualità religiosa che
negli anni sessanta era perversamente intrecciata alla pubblicità televisiva: “Lo
dice anche carosello / Che divide il giorno dalla notte / L’adulto dal bambino
// E c’è più gusto per Natale / Il papa con le sue tante lingue / E la
benedizione / Che si vede tutta San Pietro in festa”. Ancora più risentita, in quanto mossa da una
religiosità autentica, è la condanna
polemica di una Chiesa fondata sul denaro e coinvolta in scandali, che traspare
nella lirica Quarantatré, dove gli
accenti polemici sono strappati a una stucchevole ovvietà grazie a eleganti e
ironici giochi sintattici: “Sebbene Pietro non avesse una banca / Oggi le
banche hanno Pietro / E uccide il denaro / Come la mitraglia / Orfani non solo
di guerra”. Il trionfo di una società che ferocemente e programmaticamente
sembra votata alla manipolazione delle coscienze in funzione del dominio è
angosciosamente condannato nella martellata
rassegna dei molteplici e sinistri ‘idola’ che oggi imperversano: “Il diosesso,
Il dioepulone, Il diomaschera, Il diotivù / Dell'audience, Il dioassassino, il
dioguerra” (Trentatré).
In questo quadro anche la funzione poetica sembra aver perduto il suo
senso ed essere ridotta al silenzio dal trionfo della risibile triade
‘educativa’ imposta alle nuove generazioni: informatica, impresa, inglese: “Attardati
tra le calli / I poeti / Silenzio immane / Oltre la siepe / Il nulla che
l’animo travolge / Produzione efficienza consumo / È il patto / Informatica impresa
inglese / E niente illusioni / Perché la poesia è morta”. (Trentaquattro) Contemporaneamente impazza la manipolazione di
presuntuosi e ignoranti ‘mezzibusti televisivi’: “Nell’affanno i mezzibusti tv
/ Annunciano guerre” (Trentaquattro) e “I reality condannano i giornali
/ A editare bugie” (Diciannove).
Emerge il quadro di un’umanità in rovina, ridotta in frammenti tra loro incomunicanti, costituita da
un’infinità di disperazioni individuali prive di speranza di riscatto: “Il
clochard / Sotto il ponte / Che riappare improvviso e reclama // Il suo ieri
negato / Il suo oggi sconsolato / Il suo domani ingarbugliato (Quattordici). L’esito allora non potrà
che essere la negazione dell’altro in una feroce, intolleranza omicida o la
negazione di sé nel suicidio cinicamente commentato dall’indifferenza altrui: “Di
questi tempi è facile impazzire / Darsi fuoco / Buttarsi da un balcone / Mentre
il deputato adempie ai suoi doveri / Tra banchetti e cene elettorali” (Quarantuno). Lo stesso ‘io’ individuale
appare irrimediabilmente compromesso se “Qualche luce: la natura aggredita/ Si
sottrae anche il sogno / Di chi / Un tempo urlava / “Io sono” / Ora / Ora”. (Trentotto). All’inferno dell’oggi non
esiste allora alcuna possibilità di opposizione, alcun punto di svolta, alcun
‘principio di resistenza’? Forse qualche spiraglio di luce, qualche lacerto di
speranza Biumi affida, per quanto
dubitosamente, alla natura che, se aggredita e violentata dall’uomo, pur ci schiude la possibilità di uno sguardo positivo
sul mondo. Dopo un violento temporale notturno, una ‘topos’ classico nella
nostra tradizione lirica da Leopardi a Pascoli,
il mondo gioiosamente rinasce: “L’indomani
all’alba / L’acqua redime / La sua furia sull’asfalto / Respirare al nuovo
cielo / Nel cuore lago ritrovato / Vanificando inganni // Anche il sole adesso
/ S’è levato”. (Ventitré)
Poeta
eminentemente visivo (non casualmente in epigrafe alla silloge sono citati i
versi dell’amico pittore Micharvegas), Biumi ricorre, nelle liriche più direttamente
politiche, a immagini potenti e cariche
di espressività che ricordano Goya (Los
fusiliamentos), Picasso (Massacro in
Corea), l’espressionismo pittorico tedesco del primo Novecento che
testimoniarono le stragi della Prima guerra mondiale (George Grosz, Otto Dix). Il
ricorso a una prospettiva di rappresentazione a più voci segnalato dall’alternarsi
della grafia corsiva con quella a tondo,
la mediazione frequente di un ’si’ impersonale che sostituisce la voce diretta dell’io poetante, indicano
l’impotenza della stessa volontà di testimoniare l’orrore. La disposizione
grafica verticale dei versi, l’assenza di titoli (le liriche sono nudamente
enumerate), conferiscono alla raccolta l’austerità dell’ epitaffio, dicono la
severa necessità della denuncia, abolendo a qualsiasi orpello retorico; infine la
sintassi nominale, il ricorso ad assonanze volutamente banali, ridotte spesso a
un acciottolio di rime baciate, manifestano lo scacco: l’impossibilità di dare
una qualsiasi coerenza all’irrazionalità presente nel mondo, la consapevole
rinuncia a un mistificante ‘sublime’, ma
al tempo stesso l’impulso istintivo a ‘dire’ il male. L’unica, precaria,
ipotesi di redenzione riposa allora
paradossalmente nella musica, nell’accordo di voci, nel canto poetico: “Ma il
canto d’un rabbino / S’accorda ad un muezzin / In questa notte invernale che il
gelo/ Ti offende / E un blues avanza nei corpi cadenzati / Di neri suonatori” (Trentaquattro).
Gianfranco Gavianu
mercoledì 8 settembre 2021
Alberto Mori “In Fra” (Fara Editore, 2021)
“In questa altezza”, “Fra questa altezza” esprimono l’input decifrabile del titolo “In Fra”, dove la poesia sperimenta il limite, superandolo nella istituzione dialogica che impone anche varietà di caratteri tipografici poiché si fa visiva oltre che fonetica. “Lo sgoccio rastrema ritmo/ con battito umido”; certo il noto è soltanto applicabile, quasi unguento medicamentoso affinabile e proiettato all’insaputa dei mirabili tratti. “Quando tutto manca/ nessun pensiero resta presente”. Distinguono gesti acrobatici e peculiarità anatomiche i versi di Alberto Mori, così come estensioni mentali. Ma se “In” affiora, “Fra” coordina la partecipazione liminare che contende al dato l’esecuzione delle lontananze. Accende in atto quando “Trasmette mittenza condivisa/ il gesto comunicato dal movimento”, ben sapendo di quanta attualità si carichi l’antico concetto di “moto” inteso anche come “mutamento”. L’intermittenza è nella veglia aurorale, nel dialogare perenne, nella opacità di tempi, nella temporalità dei segni. La contraddizione si fa evasiva, postula una modalità esperita, l’attribuibile icasticità dei frammenti. Sarebbe applicabile un diuturno passaggio ad accostamenti tracciati in linee; inoltre comprendere esordi imprevisti di acque marine. Intervengono squarci d’aperture capaci di ridefinire il quadro percepibile in estremi oppositivi: “La linea pluviale gronda addentro/ Il piccolo viaggio del rivolo discende/ Scolma fessurato nel tombino”. Le immagini pretendono comunque d’imporsi nella forza policroma delle effusioni, quando è lo sguardo che incontra “le scaglie rosso violette imbevute”. Al di là di una impressione primaria, qui la forma nettamente s’impone sulla materia, l’anima sul corpo, l’atto sulla potenza. Ci sono erranze, decisioni, distinzioni, ricezioni, pensieri, estensioni emergenti da correlativi traducibili in esperienze. L’iterazione del cielo è appunto “segno”, quindi simbolo d’altro, “aria senza luogo” perché oltre il luogo. Poi giunge il cammino al suo naturale esporsi, quando la luce testimonia l’evento, l’accadente. Alberto Mori sembra annotare la spazialità luminosa come occasione di percezione fertile, inesausta, riprodotta dalla tellurica effervescenza dei passaggi. Qualcosa è davvero accaduto e molto avviene poi di significativo e, allo stesso tempo, indecifrabile mentre, ci dice il poeta”, “Questa nota silenziosa interroga”.
Andrea Rompianesi
lunedì 21 giugno 2021
Michele Toniolo “Passaggio sul Rodano” (Galaad Edizioni, 2021)
Un lessico familiare unico in otto racconti, che nasce anche
in un unico luogo: il Rodano quando giunge a perdersi nell’umidore della
Camargue. Da un traghetto che lo attraversa, con l’acqua a bagnare le scarpe e
il vento a trascurare il bucato steso tra i pini di mare, il libro ha inizio.
Si tratta di “Passaggio sul Rodano”, opera in prosa di Michele Toniolo,
particolarissimo autore nonché fondatore di Amos Edizioni. Nello sviluppo di
narrazione si evidenziano elementi nitidi che confermano una sequenza o successione
di oggetti e movimenti che sembrano evocare un passato testimone di fatti
intrisi di silenzio. Il ritmo è quello della successione scandita da frasi
brevi, frutto di paziente cesellatura. Aleggia, già dalle prime pagine, il
senso di una inquietudine; la consapevolezza che qualcosa di drammatico è
avvenuto, inesorabilmente, incidendo nell’animo degli interpreti. Si accalcano i
particolari che determinano la scena e acquisiscono la simbolica appartenenza
all’evento mentre “corde di nuvole tirano il cielo verso la notte”. Sembra di
percepire i tratti di un quadro da cui emergono figure con la consistenza dei
lemuri, case abbandonate, un traghetto affondato. Nel testo che sviluppa una
danza, essa si fa memoria della caduta di una madre che sa esattamente dove il
segno e la linea dello sguardo devono indicare l’unica opzione di ripresa che
non può essere altro se non la presenza del figlio. Un filo conduttore si
sviluppa partecipe nella prosa di Toniolo, tale da riemergere nelle conduzioni
che echeggiano in non detto, tutto ciò che viene fatto soltanto intuire come
nelle alcune parole dedicate ad Alice. Anche qui, predominante, s’innalza il
rapporto tra madre e figlio, ma in una esperienza di dolore nella quale la
domanda di senso interroga le modalità della morte. Una memoria ferita che
titola le profonde vicende e più drammatiche con segnali esposti dalle stagioni
e dagli eventi di natura. Ci sono parole importanti che fluttuano al passaggio
delle frasi: delitto, debolezza, respiro; e poi grazia, croce, amore. Un
principio svelante emerge nitido: non c’è azione più grande di chi sa restare.
Se un figlio accoglie la morte, scrive Michele Toniolo, nella morte vi entra
lasciandosi stringere dalla madre. Questo è amare; questa è la croce. E la
madre, tenendo stretto suo figlio, ha stretto anche Dio. Un processo di
scrittura conduce a levigare le sfumature materiche suscitate dalla tessitura
rivelando nervature più profonde, che chiamano alla veglia, all’esegesi
filtrata attraverso un’ ermeneutica contemplativa. Un incedere che rivela anche
un ulteriore rapporto: quello del figlio e del padre; di quando ciò ammette il
riconoscere una ennesima apertura all’amore. Il testo si sofferma poi sulle
radici di una narrazione originaria. E qui Toniolo opportunamente evoca, nel
senso espresso da Kafka, l’evidenza della parola giusta che conduce, e di
quella non giusta, forse piuttosto esatta, che seduce. I legami sono
costitutivi di relazioni attinenti alla vita e alla morte, nella consistenza di
un durevole approccio che evidenzia nella scrittura letteraria l’ostinazione di
senso, la ricerca di senso, in un’accezione sostanzialmente teologica, intesa
non specificamente come anagogica. Allora le parole possono stare nella soglia
tra la vita e la morte, tra la verità di una cosa e la cosa stessa, forse tra
l’essere di un ente e l’ente stesso: la soglia che costituisce la rivelazione
creativa. Esondano agnizioni che portano a riferimenti di abissi in cui il
totale accedere convoca partecipazioni ancestrali, determinazioni maieutiche,
figure come quella di Abramo, il cavaliere della fede che annulla il timore
della disperazione, della malattia mortale, nell’espressione voluta da
Kierkegaard. Qui, però, il segno è affidato all’accenno della singola
individualità che si ritrova a contenere il confronto con il mistero e il suo
richiamo; il suo inesorabile porsi, la traccia gravosa della solitudine che ci
fa ostinati ma che, nello stesso tempo, ci coinvolge nella seduzione della
presenza. E a questo punto non si può evitare di sentire un riferimento
costruttivo che ci riporta alla mente proprio quella dottrina heideggeriana
dell’arte come messa in opera della verità, nella valutazione di un approccio
che coinvolge un “accadere” di aperture storiche e linguistiche in cui, come in
anni ormai lontani aveva sottolineato Vattimo, ogni conformità e verifica
diventano possibili. Ma oltre la fondazione, l’opera è sfondamento. Anche se,
per chi scrive questa nota, il senso di questo sfondamento si allontana dalla
interpretazione citata, e acquisisce una valenza più propriamente e
necessariamente metafisica; così come anche la poesia può determinarsi come
poesia dell’essere. Scriveva Goethe, pur ammettendo tutte le sfumature anche
contraddittorie che hanno caratterizzato le sue espressioni: “l’uomo quando è
commosso sente profondamente ciò che è infinito”. Appare forte il senso della
perdita dei ruoli più intimi e l’accostarsi alla testimonianza di chi rimane a
raccontare un dolore che è separazione e ricongiunzione nello stesso tempo ma
sotto un diverso aspetto; ben al di là di un teatro dolente, come viene
tratteggiato in un andare “tra ciottoli d’ombra tra i cipressi”. Così
s’intrecciano stimoli che esorcizzano una storia con un’altra, come da titolo
di una prosa che evoca la torre di Holderlin o la prigione di Bonhoeffer. Notti
e fughe negli spazi tra fiume e vento, nei tanti modi che accompagnano al
congedo. Conclude il libro una postfazione o, meglio, un vero e proprio breve
saggio di Arnaldo Colasanti che evidenzia la natura di una prosa esprimente
l’iterazione, una sorta di soluzione che affronta e supera il tonalismo
paratattico, sfumature capaci di ricordarci le suggestioni di un autore come
Peter Handke. Notando però, da parte di chi scrive queste osservazioni, che, in
realtà, non sussiste contraddizione tra metafisica e concretezza. Proprio
perché la metafisica stessa, essendo discorso sull’essere, affronta tutto ciò
che essendo, proprio perché è, non può non essere anche concreto, in una
peculiarità che comunque certo non esclude le distinzioni ontologiche, ma le
amplia. Così come concreti e tangibili sono il dolore e il farsi prossimo, temi
sostanziali dell’opera di Michele Toniolo, esito di grande maturità letteraria.
Andrea
Rompianesi
giovedì 17 giugno 2021
Enea Biumi, La maestrina del Copacabana e altri racconti, Genesi Editrice, Torino, 2021
Enea
Biumi è in fase di seconda giovinezza. Da sempre attivo nel mondo delle
lettere, anche quando era docente di italiano negli istituti superiori, era
però restio a dedicare troppo tempo alla scrittura, sia perché il lavoro era
costante, sia per un riguardo diciamo di tipo morale: in fondo la scrittura non
è un po’ una perdita di tempo? Per fare del bene all’umanità, può bastare
mettersi a tavolino ed inventare storie? La pensione ha liberato Enea da questi
riguardi e oggi la penna scivola veloce, sia in poesia che in prosa. Ora è il
tempo della prosa, ma già una raccolta di poesie ha un contratto firmato e fra
poco sarà in stampa. Stiamo all’oggi e alla raccolta di racconti ‘La maestrina
del Copacabana’ (Genesi editrice). Si tratta di cinque racconti, meritevoli del
premio ‘I Murazzi per l’inedito 2020’, premio già vinto nel 2018 con il romanzo
‘Rosa fresca aulentissima’. Cinque racconti, che richiamano alla mente pagine
di Piero Chiara, ma anche di Giovannino Guareschi ma soprattutto ci riportano
l’Enea Biumi che avevamo incontrato con il romanzo sopracitato. Lo ritroviamo
come suonatore di pianobar nel primo racconto, quello che dà il titolo alla
raccolta; lo rivediamo come professore nella seconda storia (Bocciofila
Cartabbia); ecco il suo amore per la poesia, soprattutto per Giuseppe
Ungaretti, nel terzo racconto (Una corolla di tenebre). E chi è ‘Aristide
Giovanni Principe Turibbio’ se non l’autore, quindi ogni uomo, posto di fronte
all’epilogo, al soffrire nel disfacimento e nella perdita, che si affida ai
ricordi delle bravate giovanili per sopravvivere? Infine l’ultimo racconto, ‘Il
Windsurf’, un fitto dialogo, uno sparlare e parlare dei fatti altrui. Biumi non
si affida all’originalità stilistica, che nella ricerca del nuovo dimentica la
leggibilità: punta ad essere facilmente inteso soprattutto con dialoghi
invitanti, frasi brevi, periodi mai complicati, dove non manca il dialetto
bosino ma anche il latino, parole ricercate (e qui il professore ogni tanto
prende la mano) ma nel complesso la lettura scivola veloce nella discesa del
piacere, che ogni lettore ricerca. Una scrittura popolare e insieme raffinata,
una trama mai banale ma nemmeno indecifrabile. E sotto sotto c’è l’autore, con
il suo antimoralismo, la sua capacità di accontentarsi godendo del quotidiano,
il suo sguardo distaccato e insieme accogliente verso i peccati degli uomini,
più disposto ad accettare cadute incespicando nei sassi della passione,
piuttosto che il peccato di eccesso di giudizio e pregiudizio. Valga a
completamento di questa mia sintetica analisi la motivazione della giuria del
premio ‘I Murazzi’: “…I cinque racconti risultano ambientati nell’arco di anni
che vanno dagli albori del fascismo fino all’affermazione in Italia della
civiltà dei consumi e del welfare, ma mantenendo uno sguardo di particolare
attenzione alle tradizioni del ceto contadino e per lo più piccolo borghese…Lo
stile narrativo è allo stesso tempo facondo e schietto, con un timbro di
astuzia popolare che mette a fuoco la gioia di vivere, ma anche gli inciampi
della malasorte e la tentazione ai sotterfugi o agli inganni…”
Un
assaggio? Eccolo, preso dal primo racconto:
“Sì,
ma anche quel seno…” balbettò la preside.
“E’
una donna, del resto…figlia di sua madre” e nell’affermarlo, ella cercò di
mettere in risalto quello che ormai non c’era più: i suoi anni infatti stavano
mostrando tutta la loro esecranda malignità per aver fatto decadere la
prosperosità di un tempo…
Come
già scritto, Enea Biumi (pseudonimo di Giuliano Mangano), docente in pensione,
ama la narrativa, la poesia, la musica, il teatro. Da nomade interiore, ama
spaziare nei campi dell’arte e lungo le strade del mondo. Ha al suo attivo
svariate pubblicazioni in prosa e poesia, collaborazioni a riviste. Consiglio
di prendere visione del suo blog (il blog di Enea Biumi).
Il
libro è presente in alcune librerie varesine, lo si può ordinare online anche
alla casa editrice (genesi@genesi.org)
o direttamente all’autore, che ha una pagina facebook.
Carlo Zanzi
giovedì 10 giugno 2021
Enea Biumi “La maestrina del Copacabana e altri racconti” (Genesi Editrice,2021)
“Chi fosse transitato alle quattro del mattino al Copacabana avrebbe notato un’ombra sgattaiolare dalla porticina sul retro del night per infilarsi in un’auto bianca: una Panda un po’ vecchiotta”. Con questo fotogramma visivo inizia il primo dei testi che costituiscono la raccolta “La maestrina del Copacabana e altri racconti” di Enea Biumi. L’autore, poeta e narratore, è sempre stato un finissimo ritrattista di personaggi caratterizzanti un certo mondo di provincia, in particolare quello del Varesotto, ma con una tonalità estendibile a spazi più ampi; quella provincia protagonista di ambientazioni incisive in percorsi che vanno da Piero Chiara ad Andrea Vitali. La scrittura di Biumi è ricca di diffusa ironia con miscelature dialettali. Nel caso specifico, cinque sono i brevi testi di narrativa che compongono l’esito editoriale. Il primo, che fornisce il titolo al libro stesso, tratteggia cromature di stagioni e di ambienti in cui l’ipocrisia e il desiderio di ferire con la maldicenza incombono sulle vicende umane, come quella della giovane e avvenente maestra di scuola che si trasforma in seducente intrattenitrice di night club. Nel secondo, l’intreccio dei tradimenti tra coppie che si incrociano determina un tragico esito. Biumi si concentra sulla scrittura di un impianto specificamente dialogico, con una riduzione della tonalità linguistica alla formula dell’immediato dicibile espresso attraverso una incisione dei tratti quali tipologie di una società minimale identificata da mentalità arcaiche ed espressività popolari; non escludendo poi l’intervento autoriale in prima persona, nella sostanziale vocazione del cantastorie. Il terzo racconto è forse quello con maggiore capacità di seduzione testuale anche perché caratterizzato da una forte connotazione letteraria, portando l’io narrante alla ricerca dei passi compiuti da Giuseppe Ungaretti, particolarmente amato da Biumi. Sembrano riaffacciarsi le variegate emozioni condotte dallo scorrere dei suoi fiumi, determinanti nella riflessione del grande poeta che ha saputo così bene filtrare il sentimento del tempo, e del suo tempo. Il quarto racconto si concentra sulla nitidezza dei ricordi che riaffiorano in chi si ritrova nella fase conclusiva della vita. Le amicizie, gli amori, la guerra; la successione degli stati d’animo e il fuggire dei momenti. L’ultimo testo, che descrive un innamoramento contrastato sulla base dell’appartenenza a diversi e distanti ambienti sociali, esprime uno stile particolarmente fluido e scorrevole. Enea Biumi, in questo esito narrativo, riafferma la sua specifica predisposizione al tratteggio dei caratteri, dei vizi e delle personalità che contraddistinguono il più diffuso male di vivere, sempre però con l’accompagnamento gentile di una garbata e divertita tolleranza.
Andrea
Rompianesi
lunedì 7 giugno 2021
Carlo Zanzi, Sassolungo, Robin Edizioni, Torino, 2020
Come una doppia cartina di tornasole potrebbe essere letto
questo nuovo romanzo di Carlo Zanzi. Da una parte emerge la storia di Varese, che
scorre nel cosiddetto secolo breve, attraverso l’evolversi dell’aspetto
architettonico, urbanistico, perfino toponomastico; dall’altro si assiste al
rapporto nonni nipoti alla cui ombra affiorano amori, dissapori, difficoltà del
vivere quotidiano, soddisfazioni e risultati ottenuti. Al di sopra di ciò, come
fosse un inedito falso scopo, la passione per la montagna, non solo quella dolomitica,
ma anche quella prealpina. Sebbene morfologicamente differenti i due gruppi
alpini possono considerarsi simili per come si impongono all’animo umano, per
come ne forgiano lo spirito e ne equilibrino la mente. Non a caso l’opera si
apre con il protagonista intento a scalare la vetta del Sassolungo e termina
con lo stesso protagonista al Campo dei fiori. Almeno, questo è ciò che appare
leggendo il romanzo. Non due realtà di montagna, bensì una. Ma andiamo con
ordine.
Parlavo di secolo breve. In effetti il racconto si snoda dal
1910 al 1987 e ci indica il percorso di una famiglia varesina, ben radicata
nella propria terra e soprattutto ben addentro nella storia generale
dell’Italia e del mondo. Non c’è pagina, o quasi, infatti, che non faccia
riferimento esplicito o implicito a Varese. Si può affermare senza ombra di
dubbio che sia proprio la città la coprotagonista del romanzo. Una città che si
muove nel tempo e nello spazio e che l’autore accompagna, passo passo,
prendendole la mano come fosse una persona, accarezzandola, dipingendola,
vestendola e svestendola, orgogliosamente con amore. La storia e le
vicissitudini della famiglia Frigerio si intrecciano con Varese e ne fanno un
tutt’uno indivisibile, anche quando il racconto parla della guerra, delle
Dolomiti, dell’Albania, o altro. Il lettore che non conoscesse la città la può
rivivere attraverso minuziose e realistiche descrizioni, oppure tramite il nome
di vie – che cambiano nel tempo – piazze, Chiese, opifici – il Calzaturificio,
in primis – o bar e pasticcerie.
Il paesaggio quindi non è solo motivo di cornice, sfondo di
abbellimento, bensì parte essenziale del romanzo. Ma non solo.
A un certo punto del racconto c’è una frase illuminante: “Scrivere
è una liberazione e un conforto. Non ha mai provato la paura di essere
dimenticata?” A pronunciare queste parole è Gabriele, che si rivelerà
essere nel prosieguo dell’opera Guido Morselli. Lo scrittore varesino che si
ritroverà vittima della sua scrittura proprio perché inascoltato e
continuamente rifiutato dalle varie Case Editrici. Ma quella domanda è un po’
anche il centro del romanzo, ne costituisce una motivazione. Non voglio scomodare
i classici della letteratura, italiana e non, è pur tuttavia chiaro che i
maggiori autori, chi più chi meno, avevano preso in mano la penna oltre che per
trasmettere un proprio messaggio anche per prolungare la propria esistenza al di
là della morte. Ecco allora rivelarsi fondamentale e importante il rapporto
genitori figli, e soprattutto nonni nipoti, dove si infrange o si tenta di
infrangere la barriera del tempo.
Ogni capitolo del romanzo riassume grosso modo le vicende di
un anno – alcuni anni si dilatano in più capitoli, altri anni non vengono
menzionati. E sotto i nostri occhi trascorrono i cambiamenti di una città e
quelli di una famiglia. Così le vie o le piazze possono cambiare nome e
divenire più spaziose e più comode, e i personaggi cambiare lo status in bene o
in male, essere fedeli al proprio partner oppure cercare altre avventure,
magari anche omosessuali, diventare famosi architetti o fallire nel cercare
consenso alla propria scrittura. Quello che rimane è comunque lo spirito
varesino: la bottega, il lavoro, l’arte (dalla musica, alla pittura, alla
scrittura). Non per nulla nel romanzo vengono rappresentate figure tipiche
della cultura varesina: da Guido Bertini a Piero Chiara, a Morselli, tanto per
citare i più famosi. In modo particolare rimane la vita, in ogni suo aspetto,
con la sua sofferenza, con la sua instabilità, con le sue pur misurate gioie.
Una vita che si dipana nel corso di tre generazioni, fermandosi alla soglia
della quarta, come un’improvvisa frenata di bicicletta.
Può anche trattarsi di un bildungsroman come si
afferma nella quarta di copertina, sebbene le tappe di formazione riguardino
più personaggi e più vicende tra loro intrecciantesi. Ciò che prevale però sul
romanzo di formazione è il desiderio di dar corpo rappresentativo al sentimento
dell’amore: amore per i luoghi nativi, amore per i padri e le madri, amore per
le generazioni future. È probabilmente a quest’ultime che il romanzo si rivolge
in maniera molto più forte e dirompente, offrendo loro un messaggio di verità. Non
contano gli errori, i tradimenti, i cambiamenti voluti o non voluti. Ciò che
non va dimenticata è la radice a cui tutti siamo aggrappati: figli, padri,
nipoti, luoghi che ci hanno visto crescere e vivere, a volte nell’inconsapevolezza
delle verità più ovvie che hanno riempito la nostra esistenza. Lo stesso uso,
frequente soprattutto nella pima parte del romanzo, del dialetto dà l’impronta di
un innato desiderio di continuità col passato, che la morte non può sopprimere.
Anzi. Ne esalta e riproduce l’aspirazione. Come quell’anelito che conduce nonno
e nipote a percorrere chilometri su chilometri in bicicletta in un sogno di
eterna giovinezza.
Enea Biumi
mercoledì 26 maggio 2021
Andrea Rompianesi, La donna grassa, transeuropa, Massa, 2021
L’esergo introduttivo, (“La
mujer gorda venia delante / arrancando las raices y mojando el pergamino de los
tambores” “La donna grassa andava avanti a tutti / strappando le radici e bagnando
la pergamena dei tamburi”) insieme con la breve ma didascalica nota
inziale, traccia un percorso esegetico lungo il quale il lettore è portato a
soffermarsi e a riflettere. Due sono gli elementi essenziali che preannunciano
l’argomentazione testuale: da una parte il poeta Garcia Lorca, dall’altra il
pittore Botero: l’uno e l’altro vincolati da una entelechia imprescindibile –
che oltretutto dà il titolo alla silloge – : la donna grassa. Il
contenuto transita quindi in un apparente realismo offerto per altro da segni
di evidente oggettività (“le tracce scandite / incise su pietre selciato a
terra ancorate”, “rilievi di / luce ancorate alla notte”; “vetture ai lati
della strada”; “le belle luci a goccia / nitide / dei lampadari”). Ma il
significato in poesia, e soprattutto nei versi di Rompianesi, non può
prescindere dal significante, essendo strettamente complementare nel formare
quell’unicum che dà senso alla scrittura. La verifica di ciò è data dalla
musicalità che traccia la destrutturazione dei versi tra poesia e non-poesia,
là dove, come giustamente afferma Massimo Scrignòli, esiste “la necessità di
un dire che fortunatamente esula dalla piattezza”. Ed è necessario
affermare che il significante si colloca in due piani diversi, sia ben
paralleli. Questa silloge poetica di Rompianesi, infatti, come un’opera
teatrale, ha due tempi: nel primo si esplica il dramma, in una anamnesi
meticolosa e passionale, nel secondo si risolve il conflitto. Allo stesso modo
c’è un prima del tutto nominale, costruito per lo più in novenari-endecasillabi
con le più svariate assonanze, ed un dopo in cui la scrittura simula la prosa
in spazi scenici ben coordinati e precisi, come se la poesia appartenesse ad
altro, come se il poeta volesse trasportarci in atmosfere da cinematografo o
d’arti visive. Ecco allora che quella citazione iniziale ripresa da Garcia
Lorca prende corpo e visibilità nelle forme delle donne di Botero. E bene ha
colto nel segno Paolo Ruffilli quando sottolinea “Titolo felice, per di più all'insegna degli straordinari poteri della
poesia di Garcìa Lorca (a me particolarmente caro) e nel riflesso a specchio
delle donne di Botero.” La tela che di solito
separa l’attore dallo spettatore si squarcia, la quarta parete si dissolve e il
lettore-spettatore si immerge in un “cadenzato passo di ballo” o in una “tenue
serale orazione”, seduto o sdraiato su “un divanetto bianco moderno /
del locale notturno”, dove “la donna grassa coltivava ricordi allegri
(…) a contendere assorta viavai di passanti”. L’incanto di questa donna
grassa ci coinvolge, conducendoci oltre la realtà, in luoghi senza tempo né
orologi, in passioni immaginate e mai terminate, là dove “il volo tra i fantasmi del gioco trascina me lettore – afferma Ruffilli – in
mezzo ai lampi di luce e sciabordio di flutti dietro al ritmo dei versi". Ricordava Ungaretti in una nota alle sue poesie che la parola (cito a
memoria) ha valore come suono. Questa raccolta di Rompianesi conferma ancora
una volta la validità di quell’affermazione: la musicalità ottenuta attraverso
i suoi versi avvalora la realtà e la percezione che di essa abbiamo.
Enea Biumi
martedì 25 maggio 2021
“LA MAESTRINA DEL COPACABANA” di Enea Biumi a cura di Vincenzo Capodiferro
Mi permetto di pubblicare il commento di Vincenzo Capodiferro al libro di racconti "La maestrina del Copacabana" tratto dal sito http://insubriacritica.blogspot.com/2021/05/la-maestrina-del-copacabana-di-enea.html.
Raccolta di racconti, misticamente realistici, di Enea Biumi
“La maestrina del Copacabana” è una raccolta di racconti di Enea Biumi, edita da Genesi, Torino 2021: risultata vincitrice a “I Murazzi per l’inedito 2020” (Dignità di stampa Narrativa). Riportiamo uno stralcio della motivazione della giuria: «I cinque racconti del noto scrittore varesotto Enea Biumi, riuniti nel libro… risultano ambientati nell’arco di anni che va dal fascismo fino all’affermazione in Italia della civiltà dei consumi e del welfare, ma mantenendo uno sguardo di particolare attenzione al ceto contadino e per lo più piccolo-borghese, con qualche eccezione riservata ai ceti più agiati e ristretti della società…». Ah ceto contadino! Nostalgia degli intellettuali di tutti i tempi! Chissà perché? Mi fa ricordare con affetto quella civiltà contadina che anche io ho vissuto nella mia fanciullezza, quella civiltà tanto celebrata da Carlo Levi nel suo “Cristo” e perché no? Da Pier Paolo Pasolini nel suo “Vangelo”, girato a Matera. Quel bucolico Tityre tu patulae…! Sandro Gros-Pietro ci dà una sintesi dell’opera di Biumi: «Il racconto iniziale fornisce il titolo all’intero libro e mette a fuoco … la bigotteria bacchettona… della vita provinciale»: la protagonista è una “maestrina” di scuola elementare, Nuccia, che si fa chiamare Schilly, quando fa l’«intrattenitrice di locali notturni». «Nel secondo racconto si assiste ai divertenti e tortuosi percorsi di avanzamento sociale dell’intraprendente e galante Serafino che da trovatello riesce ad emergere…». «Il terzo racconto si dipana intorno al fil rouge dei luoghi sacri al poeta Ungaretti…». Il quarto racconto si presenta come romanzo breve, come sottolinea il Gros-Pietro, ed ha come protagonista «(…) un vecchio che rivede la sua esistenza, fino all’ultimo respiro». L’ultimo racconto è l’unico ad essere ambientato in un contesto di personaggi decisamente agiati, nel quale il maestro di windsurf compie la sua scalata fra piaggerie, incantamenti e meschinerie». A dire il vero anche la borghesia è scomparsa come ceto, non c’è più, c’è solo la sua ombra che viene inseguita come un mito. Ed anche gli operai, dove sono? Oggi abbiamo una massa amorfa e “baumaniamente” liquida, sulla quale galleggiano solo i super-capitalisti, nascosta nei loro club fantasmagorici. Biumi ci sorprende sempre, tanto che non ci peritiamo se lo sentiamo definire il novello Chiara. Ci offre in questa raccolta la sintesi di modelli ideal-tipici - nel senso weberiano - sociali: la maestrina, il povero risalito, il vecchio, il nobile caduto. Il proverbio antico diceva: Dio ci liberi dal povero arricchito e dal ricco caduto in povertà. Questo forte disagio sociale lo ritroviamo riportato in questi personaggi senza tempo, i quali come maschere pirandelliane (e ben conosciamo la passione teatrale del Nostro) sono sempre attuali. Noi lasciamo al lettore di gustare questi fantastici cinque piatti letterari, ci vogliamo soffermare solo su alcune riflessioni. La prima è la figura della maestrina, egregiamente tratteggiata dal Nostro: «Schilly… era insegnante al Pio Istituto del Sacro Cuore di Gesù. Aveva scelto quel lavoro non per vocazione ma per imposizione. Non che le piacessero i bambini. Tutt’altro. Ma avrebbe preferito un altro impiego. Magari segretaria. O consulente. O hostess. O animatrice dei villaggi vacanze. E invece… fu subito assunta… Sua madre, un tempo maestra… le fece da garante. Nonostante ciò il suo comportamento era irreprensibile. Nessuno avrebbe mai potuto avere alcunché da ridire. Mai la si era vista civettare con uomini, mai un alterco con chicchessia, mai un atteggiamento ambiguo… Anche il suo abbigliamento …». Che dire? Magistrale introspezione psicologia di una figura cardine che ha deformato intere generazioni. Inutile ribadire che maestrina era la madre di Benito Mussolini, Rosa Maltoni, e che lo stesso Benito era un maestro di scuola. Il fascismo deriva da questa malattia. L’altra riflessione che volevamo fare su quest’opera di Biumi concerne naturalmente il grande Ungaretti: è il terzo racconto, “Una corolla di tenebre”. È un omaggio al grande, vero, autentico maestro, che si contrappone alla figura della maestrina. Tra l’altro in una nota sottolinea: «Queste pagine, a firma di Giuliano Mangano, si salvarono dalle rovine della Casa editrice milanese «La Mentira», una volta domato l’incendio che nell’ottobre del 2017 la devastò quasi totalmente». È una parafrasi narrativo-esistenziale de “I Fiumi”: «Se Ungaretti nel torbido della Senna si è rimescolato e conosciuto, anch’io con il mio itinerario, dal Nilo alla Senna, come il Poeta, ho compreso chi fossi, in quei fiumi ho ritrovato me stesso». Un commento che Faceva Francesco Puccio a “I Fiumi” di Ungaretti: «L’immersione nelle acque, secondo il simbolismo che è ad esse proprio, comporta una morte iniziatica, cui segue una rinascita, una riconquista dell’identità perduta ed un’espansione dell’Io a tutte le modalità dell’esistenza» (Testi e intertesti del Novecento, Lecce 2000, p. 441). Così per il nostro Enea questa immersione nel fiume eracliteo (Panta Rei) dove l’acqua non è mai più la stessa, è un battesimo vero e proprio, una purificazione, una catarsi, che si sviluppa – aristotelicamente – attraverso l’arte, soprattutto l’arte tragica. Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, è nato a Varese nel 1949, si è laureato in Lettere all’Università Statale di Milano. Ha insegnato per tanti anni nelle scuole superiori, dove ha diretto anche un laboratorio teatrale. Ha pubblicato diverse opere: le raccolte di poesie “Viva e abbasso” (1985); “Le rovine del Seprio” (2010); “Il seme della notte” (2014); il romanzo “Bosinata” (2014). È presente nell’antologia degli scrittori varesini “I stràa d’ra Puesìa” con la raccolta “Quàtar vèers tiràa de sbièss” (2012). Ha collaborato a diversi volumi, come: “Consorzio Casa di Milano: 1962-1972” (1973); “Il movimento cooperativo italiano”, Baldini e Castoldi 1975. Ha scritto opere teatrali. Ha tradotto poeti in lingua castigliana di area sudamericana in collaborazione con Maria Luz Loloy Marquina. È stato direttore con Martin Poni Micharvegas della rivista “I poeti nomadi”. Fa parte del “Cenacolo dei poeti e prosatori varesini e varesotti”.
Vincenzo Capodiferro
giovedì 29 aprile 2021
Gianfranco Galante, La vita pretende dignità, Pietro Macchione Editore, Varese
Il leitmotiv che fa da trait d’union ai tre racconti (“Salto di gioia (lettera breve)”, “La vita non dimentica”, “Sopravvivere e rivivere”), rendendone un unicum come fossero un romanzo, è la vita che assurge a protagonista e, filosoficamente, si pone come specimen di questo nuovo e interessante scritto di Galante. Didascalicamente si potrebbe parlare di un saggio accompagnato dagli esempi, là dove l‘exemplum si traduce nella verità e veridicità della narrazione incanalata nell’ottica dell’etica e dello spirito sociale che guarda alla coscienza senza sconti per nessuno. Si avverte una frattura, netta e oserei dire incolmabile, tra la persona che ben agisce e quella invece che male si comporta, adagiandosi nell’alveo egoistico e spesso violento (per non dire omicida) di chi vuole tutto per sé e non concede nulla, ma proprio nulla all’altro, diverso da sé.
Lo si percepisce immediatamente dal primo racconto (“Salto di gioia (lettera breve”) in cui il suicidio finale non è altro che la conseguenza di piccoli e continui soprusi e incomprensioni, vale a dire una morte annunciata. Perché “la vita pretende dignità e quando questa ti venga sottratta, calpestata, umiliata e mai restituita, significa che ti è stato negato il “rispetto e la dignità che la vita merita”. Questo, la vita racconta!”. Allo stesso modo, il secondo episodio (“La vita non dimentica”) riporta il caso di un’esistenza vissuta nello squallore più totale, in cui ogni possibilità di redenzione viene sempre meno per ignoranza, mancanza di educazione, bullismo. Il male che Sasà riceve fin da piccolo viene riversato da lui, ormai adulto, su due donne che subiscono violenze d’ogni genere. A sua volta però il male gli si ritorce contro. In fondo “la vita non si dimentica di te e, quando ne abusi, la vita se la riprende.” In “Sopravvivere e rivivere”, infine, sono narrate le tribolazioni di chi desidera dare una svolta alla propria esistenza cercando altrove il bene per sé e per la famiglia. Il dramma è specifico del nostro tempo che vede migliaia e migliaia di uomini e donne abbandonare il proprio paese per un destino meno avverso. Le vicissitudini che Laka, insieme con il neonato Gabriel, deve sopportare sono al di là di ogni possibile immaginazione. Eppure non le viene mai meno la speranza, piuttosto che il desiderio o l’aspirazione di raggiungere lo scopo prefissato, anche perché sul suo cammino (dal Perù all’Italia) la protagonista incontrerà, oltre ai soliti malvagi approfittatori, persone di buon cuore, non ultimo l’industriale che l’aiuterà a ricongiungersi col marito, rimasto lontano da lei per ben sette anni, così che alla fine potrà formare, o meglio riformare, la sua famiglia.
Un inno alla vita, dunque, che non prescinde dalle persone. Anzi. Le mette in primo piano come protagonisti di un mondo e di un modo di essere imprescindibilmente rispettosi: di se stessi e degli altri.
lunedì 26 aprile 2021
Enea Biumi, La maestrina del Copacabana e altri racconti, Genesi editrice, Torino
Il racconto iniziale fornisce il titolo all'intero libro e
mette a fuoco sia la bigotteria bacchettona sia la sensualità animosa
caratteristiche della vita provinciale nelle quali viene coinvolta Nuccia
maestra di scuola elementare, che ha una seconda vita col nome di Schilly,
intrattenitrice di locali notturni. Nel secondo racconto si assiste ai
divertenti e tortuosi percorsi di avanzamento sociale dell'intraprendente e
galante Serafino che da trovatello riesce a emergere, conquistare l'amore della
bella moglie e di un amante, ma a sua volta verrà tradito e tutto si concluderà
nella più classica delle tragedie. Il terzo racconto si dipana intorno al fil
rouge dei luoghi sacri al poeta Ungaretti, rievocati attraverso il percorso di
iniziazione alla vita civile di un adolescente. Il quarto racconto possiede già
lo spessore del romanzo breve, con intreccio prolungato nel tempo e con una
trama di eventi raccontati tra analessi e prolessi da un vecchio che rivede
l'intera sua esistenza, fino all'ultimo respiro. L'ultimo racconto è l'unico ad
essere ambientato in un contesto di personaggi decisamente agiati, nel quale il
maestro di windsurf compie la sua scalata fra piaggerie, incantamenti e
meschinerie.
Enea Biumi è uno scrittore votato alla rappresentazione scenica
dei suoi romanzi, nei quali il dialogo rappresenta sempre il nerbo narrativo
più forte, capace di sviluppare una solida valenza di teatralità e marchiare le
caratteristiche dei suoi personaggi, sempre tutti creati dalla fantasia dello
scrittore, ma anche validissimi simboli dei caratteri umani più differenziati:
sono sempre un poco segnati dalla disperazione che produce il male di vivere e
allo stesso tempo sono sempre ineludibilmente combattivi e pertinaci nel
correre con arresa voracità fino in fondo il loro destino. Abilissimo
indagatore della psiche umana, Enea Biumi è certamente tra gli scrittori
italiani oggi più validi a caratterizzare con efficacia la zona tipica del
Varesotto, fino a farne un modello conoscitivo valido per l'intera collettività.
Sandro
Gros-Pietro
giovedì 1 aprile 2021
"Vernice" anno XXVII N° 59, Genesi Editrice, Torino, 2021, € 20,00
E' uscito il numero 59 della rivista di letteratura "Vernice". La copertina è dedicata ad Aldo Sisto, che intervistato da Sandro Gros-Pietro racconta di alcuni episodi della sua infanzia, della sua passione teatrale, nonché della sua visione poetica. L'intervista è poi accompagnata da alcuni testi poetici di Sisto. A proseguire un omaggio a Lucia Macro e un'intervista a Eros Pessina, seguita da un omaggio a ad Antonio Vitolo. Interessante è anche l'articolo riguardante il poeta, .da poco scomparso, Franco Loi. Si tratta di un colloquio già pubblicato sulla stessa rivista anni fa, ma riproposto come sintesi della poetica di Loi che dà un'ampia panoramica della produzione dialettale, non solo propria., a cui si aggiungono delle liriche dello stesso. Seguono successivamente pagine dedicate ad Antonia Pozzi, allo statunitense Ferlinghetti, a Carlo Di Lieto, a Sergio Zavoli ed altri.
mercoledì 31 marzo 2021
Luciano Nota “Destinatario di assenze” (Arcipelago itaca Edizioni, 2020)
L’assenza scava, esprime un’arte del levare, una
essenzialità espressiva che determina l’accensione della necessità. Si fa
altra; compie l’ineludibile proposito di solidificare lo spazio della pagina da
abitare e cogliere visivamente nella tracciabilità versificata, nelle sue
assonanze. Il verso breve connota la peculiarità della poesia di Luciano
Nota,in questo suo “Destinatario di assenze”. Il bianco da cui emerge il tratto
concede l’attenta partecipazione all’esito d’equilibrio e sostanza. Gli
elementi naturali si fanno tessere eroganti l’accenno nominale, come destino
che protegge il succedersi emblematico delle giornate: “Il tramonto che ti cade
dalla bocca/ porta con sé una promessa d’aria”. I corsi d’acqua sono luogo
d’incontro, episodi epifanici di una danza silenziosa, riflessi di bellezza nei
dettagli. “L’acqua smuove il corpo./ Sale l’alba/ e il delta del tronco freme”
scrive Luciano Nota, incidendo puliture e tessiture alla luce dei rimandi
effusi poi sciolti in una partecipazione tersa che accoglie la liceità delle
domande che non sfuggono; la musica delle cose che riabilita il percorso, lo
libera dalle contaminazioni dei grovigli costretti. L’autore non insiste sulla
volontà di una determinazione impositiva ma domanda lieve l’accostamento, il possibile
avvicinarsi dei dati nelle densità del richiamo, di un suono articolato negli
squarci rinsaldati. Oltre i tremori fallaci, le pensose rivisitazioni, le
conduzioni sensitive; al di là di un corpo reinterpretabile da chi custodisce
il nucleo dell’intesa. Ed è moto di acque appunto, sangue e terre; elementi
dicibili nella limpida determinazione del verso a condursi quasi distillati
entro i rivoli di un’attenzione calibrata e rigorosa, di un sentire che denota
tratti di svelamento in tenore materno o nell’accenno alla terra lucana
d’origine. Accostamenti imprevisti rilasciano accessi a volubili passaggi che
ammettono svolte replicanti umori e accezioni direttamente assimilabili. C’è,
in alcuni testi, un senso di domanda che appare tra le righe di una volontà
atta quasi a provocare la fissità delle cose, a reclamare l’ipotesi del bivio.
D’altra parte molto concede la ricezione perché anche la strada si fa straccio
“ed è su quello straccio/ al dileguarsi dei lampioni/ che cavalco l’ombra”
scrive l’autore, componendo così un ascolto interrogante l’ignoto cosparso di
quei segni capaci di materiche rivelazioni quando “in ogni punto o nuvola/ il
sangue è grano”.
Andrea Rompianesi
sabato 20 febbraio 2021
Nicola Romano "Tra un niente e una menzogna" (Passigli editore, 2020)
C'è una consistenza nitida nelle parole esatte; quelle
che comportano l'esegesi di una traccia ma anche l'elemento caratteristico del
procedere poetico. La ricerca di quella parola che non può essere altra, poiché
l'equilibrio unico significante/significato si determina nel suo essere, nel
suo sapersi e dirsi. Al contrario di ciò che viene espresso da molto parlare
generico e da qualche critico gravato da carichi ideologici, sussiste un abisso
di distanza tra canzone e poesia. Due forme espressive totalmente diverse,
almeno nell'ottica di definizione tangibile, e in senso moderno, della
letteratura italiana. La canzone trova una modulazione affidata principalmente
all'effetto musicale proprio di un ascolto che si fa intrattenimento magari
piacevole ma spesso banale. La poesia è ricerca nel linguaggio di una scrittura
che abita lo spazio della pagina ed è unico contenitore di significato. Il
coinvolgimento quindi diviene propriamente concettuale ed esprime una vera e
propria esegesi che per sua stessa natura si fa ermeneutica. Tali
considerazioni appaiono evidenti ogni volta che ci si confronti con un
autentico e riuscito esito poetico. Come bene emerge dai versi dell'opera di
Nicola Romano "Tra un niente e una menzogna", dove l'attesa porta al
confronto con l'esattezza di quelle parole che sanno porsi nella grazia della
epifania linguistica. Accorre una semantica sostanziale nella quale l'evento
versificato è traccia sistematica di una reiterata attenzione alle
determinazioni quotidiane: "Con un sentore d'assurdo/ risalgono canali a
quel principio/ che fa nascere il corso d'ogni storia". Romano trafigge
quel niente che se veramente fosse, sarebbe quindi qualcosa e quella menzogna
che, come dice Calvino nella citazione, 'i non è nei discorsi, è
nelle cose". La poesia mette a nudo il dato e naviga verso l'acquisizione
di verità; si fa dunque filosofica, non sempre nella sua esecuzione formale ma
nella intenzione ulteriore. E' un riverbero dibattuto di sensi e di ciglia, di
risacche e ricordi, di profili smarriti e immagini che catturano ciò che fa
diga a protezione del nostro resistere. Il senso della perdita è
particolarmente accentuato nelle sonorità dei versi del poeta siciliano come
interpretazione filtrata dai rapporti con le manifestazioni di natura. Si respira,
per dirla con Pareyson, una "ontologia della libertà" che distanzia
l'esistenzialismo personalistico e dove tutto muove verso un acquisito senso
della determinazione. "Ristagna/ ai confini dell'ora/ un dubbio d'eclissi
perduta/ La sera ne sfoglia il disguido/ e indaga occasioni di cielo"; la
tenuta ritmica accompagna l'evidente concentrazione sillabica incalzata dallo
iato esplicito che pone la pausa meditativa e la proietta verso la ricezione
dei sensi. Certo il sottofondo concede molto spazio ad un tono dolente che
considera l'allontanarsi delle cose nel procedere del tempo, in un
irrimediabile avvenuto: "ma eravamo quel che siamo stati",
consapevoli di ciò che abbiamo mancato o perduto. "Mi tiene vivo/ la
magnificenza unica del mare" ...sembra riecheggiare l'atavico rapporto con
l'elemento che tanto ha animato la poesia di un autore come Giuseppe Conte, ma
qui non in una formula legata al mito bensì all'approccio più umile dei
"residui di comune penitenza". Nicola Romano accompagna il lettore
con passo ponderato, lento, coinvolto in un sussurro lieve e antico, "con
quella flemma/ propria dei tramonti"
Andrea Rompianesi
martedì 19 gennaio 2021
Carlo Marcello Conti “Attraversato da” (Campanotto Editore, 2019)
E’ invaso dal bianco che circonda ed esalta i versi, i
sintagmi, le singole parole; è un accenno al sentire più puro e immediato dei
poeti; è l’evidente emergere delle cose intime e autentiche nella materia
dell’anima; tutto questo è “Attraversato da”, esito poetico di Carlo Marcello
Conti, autore, artista multimediale, editore. L’intelaiatura dei versi brevi,
essenziali, tratteggia i moti impercettibili di una nuvola, di un torrente, di
sensazioni che ci attraversano nei modi più diretti o imprevisti. C’è un’attesa
subitanea oltre l’esperito che Conti accoglie nella pacata sensibilità
ricettiva: “Non lasciarmi/ in una giornata/ con un cielo qualunque”. Si
percepisce il senso della perdita, della mancanza; l’esegesi di una condizione
esistenziale capace di filtrare le possibili annessioni e le diramate attese
quando gli spazi accolgono dalle parole l’invito a farsi dimora, concentrazione
di appunti espressivi. Tutto l’evidente assorbire la rifrazione panica che
comporta la lettura di moti aurorali, delle naturali emissioni lente e
ataviche, testimoni delle solitudini. Quasi un paesaggio innevato dove
ritrovare l’angolo caldo di un interno che riabilita la personalità degli enti
quotidiani riproposti nelle corporeità delle pagine innestate nella natura
delle radici che costituiscono l’essenza di moti e passaggi. “Non aspetterò la
notte/ ma un momento che/ aspetta una cosa” scrive Conti, immerso in una
iterazione di esperienze che lo attraversano. E il tocco lieve annuncia la
tersa accortezza delle vibrazioni, i chiarori setacciati nella conoscenza che
trasforma “in/ un sinestetico senso dei sensi”. Le composizioni brevi abitano
lo spazio bianco della pagina in una riflessione che emerge dai particolari,
dai sentiti episodi delle ambientazioni che affiorano dalla pratica delle
coincidenze in viaggio. Il senso del dolore è assorbito dalla cura dei vocaboli
ed in particolare della parola poesia che “è rimasta qui/ da tempo/ Tantissimo
tempo e/ il poeta la trova/ attraversato da voci/ al di là della poesia”. In
questa sua opera Carlo Marcello Conti realizza un risultato letterario di
particolare finezza e nitore, dove l’evento si concretizza in parole luminose e
ponderate, lungo la capacità di filtrare ciò che accade a partire da
quell’inizio “molto presto di mattina”.
Andrea Rompianesi