L’elemento
sicuramente interessante della poetica di Galante consiste innanzitutto nel suo
approccio stilistico. Quali sono quindi le caratteristiche del suo modus
operandi? Una prima risposta consiste nella volontà di recuperare un
linguaggio che per molti può apparire desueto ma che stimola la lettura e
induce alla riflessione. Tuttavia perché un poeta del terzo millennio dovrebbe
utilizzare termini e sintassi che ricordano l’ottocento? Che cosa sta dietro a
questa operazione non certo di facciata ma decisamente contenutistica? Analizzando
dapprima la forma troviamo allora vocaboli come “smusse basole”, “bruma
silente”, “come stelle furo”, “nocumento”, “vita vagisce”, “stilla”, “fibrillo”,
con accenni oltre che letterari anche tecnici, se si vuole. Accanto a questi termini
notiamo anche una costruzione sintattica che abolisce spesso l’uso dell’articolo
introducendo direttamente il nome: “Vento già scuote fronde ed assilli,/
mente confonde il cuore a fibrillo”. E se andiamo più a fondo verifichiamo anche
un genitivo sassone, “di figlio la figlia”, oppure una rielaborazione dell’usanza latina di posticipare
il verbo alla fine della frase, “e verbo alato,/ vinto, avvinca”. Si
assiste anche all’uso frequente del “cui” non in posizione di complemento
di termine ma di rimando concettuale, spesso figurativo, “nel cosmo infinito/
cui spazio è offerto al grande scrittor”. L’impiego stesso dei versi senari,
quinari, settenari in forme alternative, l’uso di rime e assonanze in grado di
richiamare concetti similari e/o antitetici, (“Adesso, giacché sveglio,/
averti addosso voglio,/ con la pelle tua adesa / che, su me me stesa, piano
poggia; / ‘sì come voglio pioggia”,) fanno della poesia di Galante un unicum
preciso e specifico. La parola può diventare gioco, come si è visto, attraverso
rimandi armonici e talvolta ironici. E la forma in questo caso serve a richiamare
la sostanza. Il tutto, poi, ci restituisce un ordine. Meglio ancora ci invita
ad un viaggio interiore durante il quale il poeta si concede una sosta affinché
la viandanza lo induca, insieme con il lettore, comunque coinvolto, ad una riflessione. Si guardi ad esempio al
titolo che dà il nome alla raccolta. “Cento volte ancora” (seduto al mio
ansare). È già tutto specificato lì: una sintesi della silloge in essere. Il
suo ansare non è che l’iter della sua vita, dove ansare implica non solo l’affanno,
ma pure il dolore, il desiderio di conquista, la felicità, pur rara, ottenuta;
mentre il rimanere seduto sta a significare la sosta tranquilla e riflessiva,
per nulla scontata; e il numero cento sottintende simbolicamente, in una specie
di cabala laica, l’iterazione della memoria. La visione che ne produce è uno
sforzo riflessivo che coincide con le immagini descritte e rappresentate
iconicamente. “Tornan da sepolti ricordi mai sbiaditi,/ pensieri sol sopiti;
dal presente tolti”. Il riemergere degli accadimenti nella loro inusuale
formula ritmica disegnano rimandi ed intrecci personali. C’è una specie di
effetto domino che si erge nel tempo e nello spazio, quasi enigma cui si voglia
sfuggire per non avere risposte dolorose. “Lasciami vita, sii pièta,/
giacché accanita al tuo voler mi piego; /e chiedo a fil di voce / sì ch’io pur
che preghi:/ ‘Basta, bieca vita!’”. Ma
gli interrogativi avanzano originando un intrecciarsi di azioni e reazioni,
organizzate in versi simmetrici che servono a congiungere ritmi e pause, gioie
e travagli, affetti e desideri. L’introspezione diventa la fase principale
dello scrivere coniugato nel verticalismo dei versi brevi, che, come detto sono
vincolati alla continua osservazione minuziosa, dove la rivisitazione delle
vicende legate alla propria vita evoca confessioni in prima persona che ci
offrono una prospettiva di intimo travaglio dell’anima, destinato comunque a riprendere
il viaggio, sempre accompagnato naturalmente a qualche buona e ineludibile sosta.
“Mesto abbasso pièto sguardo/ e prego il tempo che mi senta;/ scorra presto,
passi in fretta, la mia vita ormai dismetta. / Ponga fine a inutil viaggio
/tanto, è vero, s’è di passaggio”
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