Quando
una vera e propria prosa creativa, libera comunque dai lacci di qualsivoglia
canone, riesce a convincere e coinvolgere, sorge una sensazione di apertura,
anche in questi nostri tempi incerti. Poiché allora davvero, come dice Laura
Caccia nella sua nota, i nomi riescono a fondare l’esistere, bastano a fare la
vita. L’esito è “La vita impressa”, appunto, di Ranieri Teti, per lunghi anni
tra i redattori della rivista “Anterem” diretta da Flavio Ermini, e ora
curatore delle edizioni omonime. Il testo, sviluppato nell’arco di quindici
anni, è strutturato in brani ontologicamente costituiti da una frammentazione
ricomposta dall’’ondeggiare ritmico, pacato, riflessivo, che determina nella
concentrazione dei passaggi il riproporsi sempre più incalzante e assiduo del
passato, degli episodi reinterpretati nella continuità inesausta e filtrata. La
bellezza linguistica qui diviene nitore morale, “si vive, progressivamente
entrando nell’ordito di un ritorno, con il rumore degli aghi nelle impunture...
raccogliendo quello che la vita depone e lascia all’incanto, nel diario degli
anni”. C’è un risuono in accenno di sinestesie cadute all’ombra delle polarità
scoperte, quali fonti di energia semantica approntata alla condivisione dei
segni in natura posti al deflagrare dei rimandi o percezioni instabili,
coniugando il destino di percorsi negati, moti relazionabili a luoghi
reinterpretati. Il tono letterario di Ranieri Teti trova nitidissima traccia di
equilibrio denso e sapiente, enunciato nell’asperità della frammentazione dalla
quale si origina il sussulto anelante e proficuo che abita lo spazio della
pagina, dichiarando la peculiarità dell’evento. I segni riflessi decifrano
costanti l’apparato udibile percepito e inalato nei successivi idonei
espedienti, emissari di una tenuta compositiva capace d’invenire gli spunti
tracciabili che dissolvono ogni rischio di deriva propria del paurare. Così
l’esodo non è fuga, non impone scarto o scoglio ma imprime composizione di
tracce a decretare esegesi ostinata. La solidità del vocabolo interviene a
disgiogare come a promettere sviluppo di tempi nella costitutiva valenza delle
parole. E’ una danza ospitata oltre le trafitture che si fa passo esplorativo,
composto fonetico escludente l’indugio, in una nominazione comparativa e reiterante,
pur nella volontà di mantenere il netto rigore di un equilibrio espressivo. E’
come accorgersi delle consistenze nei presidi, delle similari attenuazioni che
collegano eventi lontani, riemerse opzioni di moto, come successioni di
frequenze interpretabili “in un continuo esilio, con quello che resta del grido
quando precipita il vento”; Ranieri Teti esplicita il contenuto dedicarsi alla
possibilità di rallentare il processo analitico, concedendo una rigorosa
meditazione coinvolgente le sfumature rivelate dagli elementi. La domanda circa
il troppo o il troppo poco incessante nella composizione delle percezioni
denota il carattere aurorale delle scelte lessicali, attraverso fascinazioni
migranti oltre il solco della verifica dove può non mancare “il fango sulla
portiera in questa fermata”. Indubbiamente emergono anche tracce di abbandoni,
solitudini, divisioni, transizioni, ma il restante si fa corpo e intelaiatura
di progressive visibilità completanti lo spazio abitato dalla potenzialità
della parola pensata e pensante. A volte una vocazione all’anafora sottopone
l’esprimibile al riscontro articolato nei rimandi di confine ed esilio verso
l’epicentro del sentire e il veicolarsi delle trasparenze. L’elencazione
conferma dimore pausate, versanti possibili, figure a scomparsa, profili a
frotte nonché un diradarsi aperto a imminenze sospese. Ranieri Teti incide
operazioni votate alla misura di una osservazione inerente ai tracciati
rivedibili oltre gli orizzonti periferici, muovendo sempre il segno “all’improvviso
quando il perduto si chiama ricordo”. Il linguistico reficiare nutre espedienti
accorpati in attesa di sviluppi in accenni, comportando un idoneo rigore che
essenzializza suggestioni a passaggio “tra i passi sul selciato come solo nel
sonoro di un film, la portiera rimasta aperta e più in là il mare”.
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