mercoledì 11 ottobre 2023

Rosanna Cracco, Ritorno alle origini: tra mito e realtà, Genesi Editrice, Torino, 2023

 

 

L’originalità di questa silloge poetica sta nell’aver riportato alla luce quello che più intrinsecamente appartiene al cuore umano: la capacità del sogno per nulla estraniata dalla realtà. In tal modo la poesia assume un ruolo di sfida: innanzitutto col tempo, ricollocandosi al di là e al di sopra della pura materialità, e in secondo luogo con il sentimento, divenendo ipso facto non solo pensiero astratto bensì luogo di verità e realismo. Ecco allora che il lettore si sente rapire l'anima, si solleva, verso orizzonti di pura fantasia, vivendo e respirando, in una specie di evasione mistica. “Come un canto ai piedi del sogno / tra le inquiete ombre della sera / Nel catturare di fantasia la giovinezza / divoravo con le parole le vicende arcaiche dell’epos”. L’opera di Rosanna Cracco sembra quasi divisa in due parti: le liriche e le spiegazioni. Ma non dobbiamo farci ingannare. L’una e l’altra hanno un’intima correlazione e non si capirebbe la lirica senza le annotazioni così come le annotazioni non avrebbero senso in mancanza delle poesie. Il “ritorno alle origini” allora vuol essere un percorso tutto teso al recupero della universalità dell’esperienza umana, in un erlebnis poetico che compie il suo passaggio alla ricerca del sé e del hic et nunc. “Oggi, libera dalla paura, / sono donna che innova / il fuoco della vita / Pianto un seme e attendo / che germogli Demetra / nello strato primitivo / della Grande Madre Terra”. È così che la poesia dà vita al mito, risveglia l’immaginazione, ricrea eroi ed eroine, ci affascina con storie egregie e coinvolgenti. I dolori, le gioie, le speranze, le difficoltà di ogni giorno si trasformano nella parola poetica e parallelamente si ricollegano a leggende che ormai fanno parte della nostra cultura. “Come Thalassa la feconda / divinità primordiale del mare / incolpo i venti di tradimento / per lo sconforto del naufragio”. “Quel dolore taciuto / fisso sulla mia gioventù / implorava la vita”. Nelle liriche della Cracco, quindi, mito e realtà si abbracciano, creano un ponte tra ciò che è stato e ciò che è. E giustamente nella prefazione il critico Sandro Gros Pietro ci fa notare come il tema centrale della silloge sia la bellezza. Ma attenzione: “il marchio di fabbrica della bellezza è la donna.” “Un mirare congiunto di sensi e pensieri / come lo sguardo assorto di fronte / alla Primavera del Botticelli / Venere e Flora divino fiorire, / le Grazie in girotondo, / vesti fiorite di api e colori di seta / in cui versare il nettare dei pensieri” (…) “Beata la bellezza che attraversa i secoli: / un gesto sacro ricongiungerla / alla salvezza del mondo”. Non per nulla buona parte dei miti che la Poetessa suggerisce appartengono al mondo femminile: da Demetra a Venere a Leda a Penelope. Certo non mancano miti riferiti al maschile, tuttavia prevalgono le immagini di donne, protagoniste e non solo nelle leggende, bensì nella vita reale. Perché, comunque, è la vita che va analizzata e decostruita, attraverso l’esperienza del reale e la conoscenza del mito. Davanti al lettore, quindi, si svolge la realtà, e la poetessa si addentra nell’osservazione, la indaga in rapporto ai miti del passato ed in rapporto alla propria personale esperienza, in una specie di husserliana epochè, in una riflessione sospesa in attesa di qualcosa che verrà. Un miracolo, forse. O la conoscenza, visto che come Ulisse si è optato per il folle volo. “Stregata dalla follia del viaggio /fino alla fine del nutrimento / inseguo, creatura ibrida, /l’ombelico del mondo / prima dell’ultimo inganno / Prima di altra silenziosa / definitiva partenza”. Aristotile sosteneva che la poesia fosse il frutto dello stupore e della meraviglia. Per questo è importante non dimenticarne la magia. Sebbene al giorno d’oggi siamo distratti da altro e la meraviglia e lo stupore li abbandoniamo ai bambini, questo ritorno alle origini ci suggerisce di non dimenticare la vera realtà. Per riuscire in ciò un’importanza enorme assume l’amore. Un altro tema caro ai poeti. L’amore che trasforma, l’amore che si fa desiderio, l’amore che avvince e convince. “Come una Penelope capovolta / nella notte intreccio ciò / che al giorno sciolgo davanti al mare” e ancora “Solo ora, sacerdote del tempo, / contemplo l’amore / come perenne creazione / Solo ora comprendo / quello sfiorare d’assoluto / anche se biga alata l’amore / con l’auriga che non ne governa / sogni e desideri, / troppo si avvicina al sole”. Da ultimo, ma non ultimo, è interessante il dialogo che la poetessa incontra con il Tempo. Se oggi siamo immersi in una società che Zygmunt Bauman definisce liquida, non possiamo non soffermarci sulla natura immanente della temporalità del nostro esistere. Non possiamo sfuggire al tempo che ci lega e sovrasta, che ci seduce e ammalia, che ci stringe nella morsa della morte. “Solo ora mi par di toccare / lo spazio sacro del tempo / un presente interiore, reversibile / che al futuro si consegna / rivestito di umana comprensione”. “Ora che urla la sete del tempo / Thanatos ‘cuore di ghiaccio / e  budella di bronzo’, avanza arrogante / e contende ad Eros il suo arrivo.” Ecco il rinnovo della dualità Amore/Morte, un legame di angosce e disperazione appena sopito da un senso religioso non del tutto compreso razionalmente, ma solo attraverso l’accettazione della fede. “Dio, i preti, i padroni vivono / per fregare la povera gente” “Ma no, la fede non è un crampo / Dio è mio amico e mi spiega la vita: /Lui sa ascoltarmi / Padrona del tempo, / non ho bisogno d’altro”. In questo contesto la poesia sfida il tempo, oltrepassa i confini del pensiero, rapisce l'anima e la solleva verso orizzonti diversi, con parole che intrecciano storie antiche e vicende contemporanee di vita quotidiana, di amori persi, di persone care scomparse e speranze di nuove felicità. In tal modo, tra mito e realtà, la poesia vive e respira, concedendo forse un'evasione sospesa in un attimo di serenità.

 Enea Biumi

 

Imperia Tognacci, Nel passo del tempo (poesie 2001-2022), Genesi editrice, Torino, 2023

 



Si tratta di un’opera omnia che riassume il percorso poetico di Imperia Tognacci rivelando una capacità introspettiva prodiga di esempi, mai stanca di indagini e di infiniti perché. Ma andiamo con ordine. Perché se è vero che tra i dieci libri che qui rappresentano tutta la produzione della poetessa esiste un filo conduttore, esplicitato nel titolo dell’opera e che potremmo parafrasare “il viaggio attraverso un tempo materiale e uno spirituale”, ogni silloge costituisce un nucleo a sé che va considerato e ponderato singolarmente. La prima opera, edita da Cannarsa nel 2004, che qui viene presentata si intitola “La notte del Getsemani” in cui la Poetessa immette il suo senso religioso della vita molto affine all’eredità di Francesco. La Natura che attornia il Cristo si fa consapevole del dramma che viene rappresentato, mentre l’uomo ancora ignora la salvezza che il Signore apporterà. “Sullo stupito salire della luna / pesava il cielo. Senza vincoli / né censure, il vento discorreva / tra i campi invasi di gramigna” (…) “Negli artigli del freddo / sempre il Signore sarà // con i poveri e scorrere sentirà / nella gola i loro gemiti, / Infonderà vigore ai fuochi / che alleggeriscono la notte”. Con “Natale a Zollara”, edito da Bastogi nel 2005, invece, Imperia Tognacci si immerge nel personale, ritorna ai luoghi e alle persone a lei care. Qui la memoria si fa consapevolezza del grande mistero dell’essere rimarcando, da una parte, la sua vicinanza non solo geografica a Giovanni Pascoli e rivelando, dall’altra, la propria cultura poetica che spazia dai classici ai contemporanei. La silloge è costituita da una serie di poemetti che paiono costituire le pagine di un diario in versi. “Risalgo la corrente per un rinnovato / battesimo in nicchia di sorgente. / Ritrovarmi, cadermi dentro, / perlustrare colli, calanchi / e fondali, per rinnovare / la fedeltà a questa terra feconda”. Ed a Pascoli ritorna esplicitamente con il suo terzo libro dal titolo “Odissea pascoliana”, edito nel 2006 da Bastogi. Si tratta di un excursus poetico che rievoca vita e opere del poeta romagnolo in un’ottica del tutto originale, legata alla medesima terra ed anche, per alcuni tratti, al medesimo sentire. Le affinità tra la Tognacci e Pascoli sono ben sottolineate in una nota finale in cui viene affermata l’attenzione che la Poetessa ha nei confronti del suo, sebbene lontano nel tempo, conterraneo. “Al di là dei ritmi nuovi – dichiara l’autrice – la poesia del Pascoli non è un monumento che rappresenta l’epoca storica in cui il poeta visse. Essa continua a scorrere nel tempo, perché coglie le radici ontologiche dell’uomo. Una poesia, infine, che non registra il silenzio del nulla, bensì la voce dell’uomo in tutta la sua complessità.”  Con il quarto libro “La porta socchiusa”, edito da Bastogi nel 2007, la Poetessa ritorna al tema religioso, ma in maniera più filosofica rispetto alla “Notte del Getsemani”. In questo contesto si fanno più esplicite le tematiche escatologiche con domande apparentemente destinate a non avere risposte se non nella fede. E bene fa Mario Landolfi a sottolineare nella prefazione al volume “una costante (…) un’istintiva volontà di rapportarsi ai massimi sistemi di pensiero ricercando in essi risposte all’insensato scorrere della nostra esistenza.” Interessanti, oltre ai capitoletti che li accompagnano, sono pure gli esergo. “Infinita genesi” ha una citazione tratta dai Pensieri di Pascal; “L’arco sulle nubi” è preceduta da un motto di Camus; “Leggere la mappa” contiene dei versi di Mario Luzi da Epifania; di Novalis leggiamo una citazione dai Frammenti per il capitolo “Dall’archivio della memoria”; “Tra le sponde del tempo” riferisce il pensiero di Miguel Unamuno; “Verso l’ora nona” si rifà ai versi di Ungaretti in Cristo pensoso palpito; “Nel nulla del tutto” riprende una citazione dei Pensieri di Pascal. Se guardiamo agli autori contemplati e alle loro parole riprese dalla Poetessa notiamo la volontà di Imperia Tognacci di accompagnare il lettore in una ben precisa direzione: che è quella di una ricerca profonda della verità. Con “Il lago e il tempo”, edito nel 2010 da Genesi editrice, l’autrice prosegue quella investigazione continua e pervicace dell’esistenza attraverso parallelismi tra la propria esperienza e quella collettiva. Come se la poetessa declinasse la sua vita con quella dell’umanità. “Nel mio essere, l’eredità / dell’umano sangue racchiude / nomi inabissati nel silenzio, / cancellati da pietre e marmi / scolpiti su lapidi d’ombra”.  Il poemetto viaggia nel tempo e ha l’andamento delle onde, come quelle che adornano il lago essendo parte essenziale del suo grembo, e si infrangono erranti, e si agitano mentre il vento le spezza per poi ritornare al loro ritmo consueto. Il lago e il tempo fanno da padroni ai versi della silloge tanto che non si può non ricordare quel “lago del cuore” di montaliana memoria, e i versi del primo Canto della Commedia dantesca dove per “lago del cor” si intendeva la “secretissima camera” o, come rifletteva Boccaccio, “la parte interna del cuore” dove abitano gli spiriti vitali. Tra l’altro per questa quinta pubblicazione c’è da notare ciò che Gros Pietro già sottolineava nella prefazione: “La concezione poematica sta divenendo sempre più la poetica predominante di Imperia Tognacci”. Vale a dire l’uso preferenziale più simile all’epica (anche se di epica vera e propria non si può parlare) e cioè più espositivo ed analitico che non sintetico. Veniamo così a “Il richiamo di Orfeo”, edito da Laterza l’anno successivo. Dedicato alla memoria di suo marito, il libro richiama la funzione del poeta e del poetare. Certo non è facile né semplice essere o dichiararsi poeta. La società è altro dalla poesia. Spesso il poeta è deriso, vilipeso, incompreso. Ciò non toglie che è necessario esserci, presenziare, richiamare. “Nelle nuove, avariate corti, / polverosi di inutilità, noi corriamo / nel caso degli eventi mondani, / mentre, padrone delle strade / e dei vicoli, ulula il vento / della solitudine”. La silloge diventa quindi un inno alla poesia e al poeta, che nonostante le innumerevoli difficoltà non deve perdere la capacità di affrontare il mondo. I poeti devono continuare a cantare, sembra suggerire l’autrice, e non appendere le proprie cetre ai salici, devono combattere soprattutto in questo tempo in cui trionfa la tecnica ed assistiamo alla hegeliana morte dell’arte. “Tendi l’arco, / poeta, per scoccare la freccia / del tuo amore verso l’altra (….)” perché in fondo la poesia è una “finestra aperta sull’assoluto”. Nel 2012 ecco un nuovo libro di poesie “Nel bosco, sulle orme del pastore” per le edizioni Laterza di Bari. L’opera rievoca atmosfere virgiliane e lucreziane ed ha un incipit che raccoglie la memoria proustiana del tempo “Risalgo a ritroso il sentiero / del tempo e mi smarrisco / nelle ombre senza confine / degli anni”. Originale è il dialogo che nel poemetto avviene tra Aristeo, il pastore per antonomasia, e la poetessa. Imperia Tognacci sembra voglia riportarci al clima primevo in cui l’uomo era parte integrante della natura. Ma quel tempo si è ridotto ad uno scontro. Non esiste più l’armonia. C’è solo desolazione e distanza abissale tra l’uomo e la natura. “Tramature caliginose nell’affanno / d’aria soffocano trasparenze / e voli. Nuvola gravida di polveri / e maree nere in agguato chiudono / varchi e spazi all’uomo tecnosapiens”. “Ma io, indifeso come il bosco: / non trovo barriera agli artigli / dell’ingordigia umana, mentre polveri / di veleni porta, sibilando, il vento / tra le turbate penombre / e su di noi ricade la cenere / di boschi incendiati”.  Sempre edito da Laterza e sempre in forma poematica esce nel 2015 “Là dove pioveva la manna”, con una interessante prefazione di Andrea Battistini e altrettanto istruttiva postfazione di Angelo Manitta. Si tratta di una silloge nata da un viaggio in Giordania. Un topos, quindi, della e nella letteratura. Ad iniziare da Ulisse per arrivare al virgiliano Enea, dal boccaccesco Andreuccio da Perugia fino al manzoniano Renzo, e giungere nel secolo scorso a On the road dello statunitense Kerouac. Il viaggio diviene una ricerca interiore per conoscere se stessi attraverso un’esperienza odeporica attiva che farà crescere e maturare il protagonista. “(…) dalla profondità / del nostro essere riaffiori / il Verbo che ci indica la strada”. Il viaggio è la coscienza del proprio essere, è la ricerca di una spiegazione valida all’esistenza. “Dei saggi voglio ascoltare le voci, / annusare spezie e profumi / orientali, su venature di rocce / leggere lo scorrere dei millenni. (…) Batte alla porta del cielo una nuova / alba, mentre, vestite di sole, / si dileguano le coste di Aqaba.” La teatralizzazione dell’opera, già iniziata con “Nel bosco, sulle orme del pastore” prosegue negli ultimi due poemetti che costituiscono un’ulteriore riflessione sul mondo, sull’esistenza, sul valore e sul perché della vita. Ne “Il prigioniero di Ushuaia” che ha visto la luce nel 2021 presso la Genesi editrice di Torino, la poetessa riproduce la propria esperienza di un viaggio presso la colonia penale della città di Ushuaia nel sud dell’Argentina, Terra del Fuoco. “Lungo i fiordi della fine del mondo / sono giunta, lungo lo snodarsi / dei torrenti, l’ingolfarsi dei fiumi, / gli occhi torbidi di nuvole, / tra fulmini che fendono / il cielo della pace”. Il libro, come dichiara la stessa poetessa, è ispirato da un’anonima poesia di un anonimo prigioniero e ha l’aspetto di una metafora della vita. Anche noi siamo prigionieri su questa terra in attesa di giudizio e di morte. Ne “La meta è partire”, edito da Genesi editrice nel 2022, un titolo tratto da un verso di Ungaretti, la scrittrice vuole innalzare un monumento alla Poesia, unica vera fonte di ispirazione per la vita, unica possibilità di sopravvivenza, unica prospettiva d’amore. La silloge appare accorpata in capitoli, come fosse un breve romanzo, e non in canti come ci si aspetterebbe in una versione poetica. In effetti, a ben leggere, c’è uno scambio abbastanza evidente tra prosa e poesia. Si potrebbe parlare di prosa in versi o, viceversa, di poesia in prosa. Al di là della connotazione chiaramente poetica poiché la scrittura ha un ritmo musicale evidente, si percepisce una trama, un discorso che si struttura in un andamento logico per sovrapposizioni e avvenimenti. Qui l’aspetto teatralizzante si fa più netto e complice dei dialoghi diventa la stessa autrice che rivendica il proprio ruolo di poeta. Anche se “Non so, Musa, se io sono poeta. / Sto nell’angolo, dietro la lavagna. / Uso l’uncinetto del cuore e della mente / per continuare la trama / iniziata nel buio dei millenni”. Ed ecco riapparire l’oggetto per cui vale la pena lottare, vivere, partire: l’amore. Sono varie le figure che riaffiorano alla mente della poetessa e che di conseguenza interloquiscono con lei conducendo il lettore in atmosfere al di fuori del tempo, sebbene il tempo, come tale, sia ben presente e accentuato. Allora il colloquio con la Musa, con Psiche, con Eva e altri, procede in un crescendo mozartiano tra interrogativi, dubbi, incertezze. Ma soprattutto precede il finale, quando il poeta ha davanti a sé Caronte che “in una mano stringe un remo, / con l’altra ti fa segno di salire.  / Tu esiti, tremante gli domandi: / «Andata e ritorno?» / «No, andata per poi ripartire.»”  Questa opera omnia è un’analisi perfetta del pensiero poetico di Imperia Tognacci, della sua filosofia, della sua idea di letteratura, della sua passione per la cultura occidentale dei classici latini e greci, della sua sincera spiritualità, della sua attenzione alla Natura e all’uomo, della sua sensibilità culturale. La poesia diventa allora il momento più alto e sublime per trasmettere e tramandare ciò che l’uomo ha conseguito ed è in grado di raggiungere. Ben inteso: nel passo del tempo.

 

Enea Biumi

 


lunedì 9 ottobre 2023

Paesaggi d'estate di Gianfranco Galante

 





Questo poemetto di Gianfranco Galante ha il sapore dei ricordi dell’infanzia. Tutte le estati l’autore ritornava ai luoghi natii, attraversando da nord a sud l’Italia, in un  viaggio complicato ma allo stesso tempo leggero. Complicato perché i treni in quei tempi non procedevano a 300 all’ora come avviene oggi, e leggero perché c’era la speranza di un incontro con gli amati nonni. 

E in quel tragitto ne avvenivano di cose! Si presentavano, infatti, mano a mano sul treno tanti e tali personaggi di varia natura che, a ben osservarli, partorivano graziosi e simpatici aneddoti.

Il libro è scorrevole come il viaggio che viene raccontato  e descritto, colmo di emozioni ed episodi unici nel loro genere. Si tratta in fondo di una specie di reisebilder che narra l’ansia dell’arrivo e l’appagamento di un ritorno felice. Naturalmente il percorso non è totalmente privo di piccole traversie che rivelano l’amore per la terra che lo ha visto nascere e crescere in quel turbinio di esistenza fanciullesca ed adolescenziale.

Si rimembrano luoghi, profumi, rumori, umori, sentimenti, sguardi e aspettative raccolti in versi teneri e gioiosi nell’attesa di incontri con vecchi amici e nella speranza di nuove e intense emozioni.

A volte il linguaggio è forse un po’ troppo aulico, o per meglio dire poco attuale e meno vicino alla parlata comune, ma si tratta comunque di una peculiarità di Galante, già nota in altre poesie, e che non stona affatto nel complesso dell’opera, anzi la vivacizza, così come è vivace il ritmo impresso, pagina dopo pagina. 

I versi, in tal modo arieggiati, appaiono, alla fine, la metafora del viaggio, nonché di un ritorno all’infanzia spensierata e felice di un tempo ormai passato e che si vorrebbe recuperare, per lo meno nella memoria.

 

Enea Biumi