Si tratta di un’opera omnia che riassume il percorso poetico di
Imperia Tognacci rivelando una capacità introspettiva prodiga di esempi, mai
stanca di indagini e di infiniti perché. Ma andiamo con ordine. Perché se è
vero che tra i dieci libri che qui rappresentano tutta la produzione della
poetessa esiste un filo conduttore, esplicitato nel titolo dell’opera e che
potremmo parafrasare “il viaggio attraverso un tempo materiale e uno
spirituale”, ogni silloge costituisce un nucleo a sé che va considerato e ponderato
singolarmente. La prima opera, edita da Cannarsa nel 2004, che qui viene
presentata si intitola “La notte del Getsemani” in cui la Poetessa
immette il suo senso religioso della vita molto affine all’eredità di
Francesco. La Natura che attornia il Cristo si fa consapevole del dramma che
viene rappresentato, mentre l’uomo ancora ignora la salvezza che il Signore
apporterà. “Sullo stupito salire della luna / pesava il cielo. Senza
vincoli / né censure, il vento discorreva / tra i campi invasi di gramigna” (…) “Negli
artigli del freddo / sempre il Signore sarà // con i poveri e scorrere sentirà
/ nella gola i loro gemiti, / Infonderà vigore ai fuochi / che alleggeriscono
la notte”. Con “Natale a Zollara”, edito da Bastogi nel 2005, invece,
Imperia Tognacci si immerge nel personale, ritorna ai luoghi e alle persone a
lei care. Qui la memoria si fa consapevolezza del grande mistero dell’essere
rimarcando, da una parte, la sua vicinanza non solo geografica a Giovanni
Pascoli e rivelando, dall’altra, la propria cultura poetica che spazia dai
classici ai contemporanei. La silloge è costituita da una serie di poemetti che
paiono costituire le pagine di un diario in versi. “Risalgo la corrente
per un rinnovato / battesimo in nicchia di sorgente. / Ritrovarmi, cadermi
dentro, / perlustrare colli, calanchi / e fondali, per rinnovare / la fedeltà a
questa terra feconda”. Ed a Pascoli ritorna esplicitamente con il suo
terzo libro dal titolo “Odissea pascoliana”, edito nel 2006 da
Bastogi. Si tratta di un excursus poetico che rievoca vita e opere
del poeta romagnolo in un’ottica del tutto originale, legata alla medesima
terra ed anche, per alcuni tratti, al medesimo sentire. Le affinità tra la
Tognacci e Pascoli sono ben sottolineate in una nota finale in cui viene affermata
l’attenzione che la Poetessa ha nei confronti del suo, sebbene lontano nel
tempo, conterraneo. “Al di là dei ritmi nuovi – dichiara l’autrice
– la poesia del Pascoli non è un monumento che rappresenta l’epoca storica
in cui il poeta visse. Essa continua a scorrere nel tempo, perché coglie le
radici ontologiche dell’uomo. Una poesia, infine, che non registra il silenzio
del nulla, bensì la voce dell’uomo in tutta la sua complessità.” Con
il quarto libro “La porta socchiusa”, edito da Bastogi nel 2007, la
Poetessa ritorna al tema religioso, ma in maniera più filosofica rispetto
alla “Notte del Getsemani”. In questo contesto si fanno più esplicite le
tematiche escatologiche con domande apparentemente destinate a non avere
risposte se non nella fede. E bene fa Mario Landolfi a sottolineare nella
prefazione al volume “una costante (…) un’istintiva volontà di rapportarsi
ai massimi sistemi di pensiero ricercando in essi risposte all’insensato
scorrere della nostra esistenza.” Interessanti, oltre ai capitoletti che
li accompagnano, sono pure gli esergo. “Infinita genesi” ha una
citazione tratta dai Pensieri di Pascal; “L’arco sulle nubi” è
preceduta da un motto di Camus; “Leggere la mappa” contiene dei versi di Mario
Luzi da Epifania; di Novalis leggiamo una citazione dai Frammenti per
il capitolo “Dall’archivio della memoria”; “Tra le sponde del tempo”
riferisce il pensiero di Miguel Unamuno; “Verso l’ora nona” si rifà ai versi di
Ungaretti in Cristo pensoso palpito; “Nel nulla del tutto” riprende
una citazione dei Pensieri di Pascal. Se guardiamo agli autori
contemplati e alle loro parole riprese dalla Poetessa notiamo la volontà di
Imperia Tognacci di accompagnare il lettore in una ben precisa direzione: che è
quella di una ricerca profonda della verità. Con “Il lago e il tempo”,
edito nel 2010 da Genesi editrice, l’autrice prosegue quella investigazione
continua e pervicace dell’esistenza attraverso parallelismi tra la propria
esperienza e quella collettiva. Come se la poetessa declinasse la sua vita con
quella dell’umanità. “Nel mio essere, l’eredità / dell’umano sangue
racchiude / nomi inabissati nel silenzio, / cancellati da pietre e marmi /
scolpiti su lapidi d’ombra”. Il poemetto viaggia nel tempo e ha
l’andamento delle onde, come quelle che adornano il lago essendo parte
essenziale del suo grembo, e si infrangono erranti, e si agitano
mentre il vento le spezza per poi ritornare al loro ritmo consueto. Il
lago e il tempo fanno da padroni ai versi della silloge tanto che non si può
non ricordare quel “lago del cuore” di montaliana memoria, e i versi del primo
Canto della Commedia dantesca dove per “lago del cor” si intendeva la “secretissima
camera” o, come rifletteva Boccaccio, “la parte interna del cuore” dove
abitano gli spiriti vitali. Tra l’altro per questa quinta pubblicazione c’è da
notare ciò che Gros Pietro già sottolineava nella prefazione: “La
concezione poematica sta divenendo sempre più la poetica predominante di
Imperia Tognacci”. Vale a dire l’uso preferenziale più simile all’epica
(anche se di epica vera e propria non si può parlare) e cioè più espositivo ed
analitico che non sintetico. Veniamo così a “Il richiamo di Orfeo”, edito
da Laterza l’anno successivo. Dedicato alla memoria di suo marito, il libro
richiama la funzione del poeta e del poetare. Certo non è facile né semplice
essere o dichiararsi poeta. La società è altro dalla poesia. Spesso il poeta è
deriso, vilipeso, incompreso. Ciò non toglie che è necessario esserci,
presenziare, richiamare. “Nelle nuove, avariate corti, / polverosi di
inutilità, noi corriamo / nel caso degli eventi mondani, / mentre, padrone
delle strade / e dei vicoli, ulula il vento / della solitudine”. La silloge
diventa quindi un inno alla poesia e al poeta, che nonostante le innumerevoli
difficoltà non deve perdere la capacità di affrontare il mondo. I poeti devono
continuare a cantare, sembra suggerire l’autrice, e non appendere le proprie
cetre ai salici, devono combattere soprattutto in questo tempo in cui trionfa
la tecnica ed assistiamo alla hegeliana morte dell’arte. “Tendi l’arco, /
poeta, per scoccare la freccia / del tuo amore verso l’altra (….)” perché in
fondo la poesia è una “finestra aperta sull’assoluto”. Nel 2012 ecco
un nuovo libro di poesie “Nel bosco, sulle orme del pastore” per le
edizioni Laterza di Bari. L’opera rievoca atmosfere virgiliane e lucreziane ed
ha un incipit che raccoglie la memoria proustiana del tempo “Risalgo
a ritroso il sentiero / del tempo e mi smarrisco / nelle ombre senza confine /
degli anni”. Originale è il dialogo che nel poemetto avviene tra Aristeo,
il pastore per antonomasia, e la poetessa. Imperia Tognacci sembra voglia
riportarci al clima primevo in cui l’uomo era parte integrante della natura. Ma
quel tempo si è ridotto ad uno scontro. Non esiste più l’armonia. C’è solo
desolazione e distanza abissale tra l’uomo e la natura. “Tramature
caliginose nell’affanno / d’aria soffocano trasparenze / e voli. Nuvola gravida
di polveri / e maree nere in agguato chiudono / varchi e spazi all’uomo
tecnosapiens”. “Ma io, indifeso come il bosco: / non trovo barriera agli
artigli / dell’ingordigia umana, mentre polveri / di veleni porta, sibilando,
il vento / tra le turbate penombre / e su di noi ricade la cenere / di boschi
incendiati”. Sempre edito da Laterza e sempre in forma poematica
esce nel 2015 “Là dove pioveva la manna”, con una interessante
prefazione di Andrea Battistini e altrettanto istruttiva postfazione di Angelo
Manitta. Si tratta di una silloge nata da un viaggio in Giordania.
Un topos, quindi, della e nella letteratura. Ad iniziare da Ulisse
per arrivare al virgiliano Enea, dal boccaccesco Andreuccio da Perugia fino al
manzoniano Renzo, e giungere nel secolo scorso a On the road dello
statunitense Kerouac. Il viaggio diviene una ricerca interiore per conoscere se
stessi attraverso un’esperienza odeporica attiva che farà crescere e maturare
il protagonista. “(…) dalla profondità / del nostro essere riaffiori / il
Verbo che ci indica la strada”. Il viaggio è la coscienza del proprio
essere, è la ricerca di una spiegazione valida all’esistenza. “Dei saggi
voglio ascoltare le voci, / annusare spezie e profumi / orientali, su venature
di rocce / leggere lo scorrere dei millenni. (…) Batte alla porta del cielo una
nuova / alba, mentre, vestite di sole, / si dileguano le coste di Aqaba.” La
teatralizzazione dell’opera, già iniziata con “Nel bosco, sulle orme del
pastore” prosegue negli ultimi due poemetti che costituiscono un’ulteriore
riflessione sul mondo, sull’esistenza, sul valore e sul perché della vita. Ne “Il
prigioniero di Ushuaia” che ha visto la luce nel 2021 presso la Genesi
editrice di Torino, la poetessa riproduce la propria esperienza di un viaggio
presso la colonia penale della città di Ushuaia nel sud dell’Argentina, Terra
del Fuoco. “Lungo i fiordi della fine del mondo / sono giunta, lungo lo
snodarsi / dei torrenti, l’ingolfarsi dei fiumi, / gli occhi torbidi di nuvole,
/ tra fulmini che fendono / il cielo della pace”. Il libro, come dichiara
la stessa poetessa, è ispirato da un’anonima poesia di un anonimo prigioniero e
ha l’aspetto di una metafora della vita. Anche noi siamo prigionieri su questa
terra in attesa di giudizio e di morte. Ne “La meta è partire”, edito da Genesi
editrice nel 2022, un titolo tratto da un verso di Ungaretti, la scrittrice
vuole innalzare un monumento alla Poesia, unica vera fonte di ispirazione per
la vita, unica possibilità di sopravvivenza, unica prospettiva d’amore. La
silloge appare accorpata in capitoli, come fosse un breve romanzo, e non in
canti come ci si aspetterebbe in una versione poetica. In effetti, a ben
leggere, c’è uno scambio abbastanza evidente tra prosa e poesia. Si potrebbe
parlare di prosa in versi o, viceversa, di poesia in prosa. Al di là della
connotazione chiaramente poetica poiché la scrittura ha un ritmo musicale
evidente, si percepisce una trama, un discorso che si struttura in un andamento
logico per sovrapposizioni e avvenimenti. Qui l’aspetto teatralizzante si fa
più netto e complice dei dialoghi diventa la stessa autrice che rivendica il
proprio ruolo di poeta. Anche se “Non so, Musa, se io sono poeta. / Sto
nell’angolo, dietro la lavagna. / Uso l’uncinetto del cuore e della mente / per
continuare la trama / iniziata nel buio dei millenni”. Ed ecco riapparire
l’oggetto per cui vale la pena lottare, vivere, partire: l’amore. Sono varie le
figure che riaffiorano alla mente della poetessa e che di conseguenza
interloquiscono con lei conducendo il lettore in atmosfere al di fuori del
tempo, sebbene il tempo, come tale, sia ben presente e accentuato. Allora il
colloquio con la Musa, con Psiche, con Eva e altri, procede in un crescendo
mozartiano tra interrogativi, dubbi, incertezze. Ma soprattutto precede il
finale, quando il poeta ha davanti a sé Caronte che “in una mano stringe
un remo, / con l’altra ti fa segno di salire. / Tu esiti, tremante
gli domandi: / «Andata e ritorno?» / «No, andata per poi ripartire.»” Questa
opera omnia è un’analisi perfetta del pensiero poetico di Imperia Tognacci,
della sua filosofia, della sua idea di letteratura, della sua passione per la
cultura occidentale dei classici latini e greci, della sua sincera
spiritualità, della sua attenzione alla Natura e all’uomo, della sua
sensibilità culturale. La poesia diventa allora il momento più alto e sublime
per trasmettere e tramandare ciò che l’uomo ha conseguito ed è in grado di
raggiungere. Ben inteso: nel passo del tempo.