mercoledì 26 febbraio 2020

Annitta Di Mineo, Il tempo non ha rughe, C.A.SA. edizioni, 2018




Il titolo di una silloge, solitamente, apre uno spiraglio sul contenuto. In questo caso la chiave che spalanca la comprensione dei versi è il termine tempo, da una parte, e rughe, dall’altra. Ed il tempo, in effetti, sta da trad union a tutta la raccolta, che ha, tra l’altro, come sottotitolo “poesie del divenire”. Si intuisce immediatamente, allora, come il cuore di quest’opera sia uno scandagliare in tutti i suoi aspetti la forma “tempo” e si capisce come mai l’assenza di rughe sia un elemento essenziale per poter analizzare e, in ultima analisi, tentare di comprendere l’andare delle cose. In tal modo, e solo in questa prospettiva sembra affermare Di Mineo, la poesia recupera il divenire e tutto ciò che si affaccia sulla soglia del tempo, sia esso insito nel microcosmo personale della propria ed intima esperienza, sia al di fuori di se stessi nel macrocosmo che ci sovrasta e col quale, volenti o nolenti, dobbiamo relazionarci. In una scrittura sostenuta dall’essenzialità linguistica e sintattica, opportunamente orchestrata in versi lapidari che danno la misura dello scorrere veloce della vita, la poetessa ci conduce entro linee ed orizzonti metafisici dove possiamo confrontarci con sensazioni che sicuramente vanno al di là del puro dato prammatico. Non si tratta solo dell’antico assioma ruit hora, (“Ore minuti secondi/ scivolano via/ irreali”) bensì di una ben più complessa introspezione, che segnala una dialettica tra l’autrice e il tempo. Non è un caso che i primi versi affermino apoditticamente “Creo il tempo/ per la mia crudele lucidità”. L’aggettivo crudele ci spiega che non è un compito facile. Anzi. Meditare fa male. Fino alla crudeltà. Ma nello stesso istante ci si mantiene lucidi, cioè consapevoli, perché portare alla luce l’iter della propria esistenza diventa operazione necessaria, momento non procrastinabile, cartina di tornasole. Ecco allora che quasi nervosamente, a scatti si potrebbe ipotizzare, avanzano nella prima parte della silloge, sottotitolata appunto tempo, lacerti di immagini che illuminano il passaggio per poi immediatamente spegnerlo: è un incessante accendersi e spegnersi come quei fari sui campi di prigionia che di notte ispezionano il confine. “Il tempo mia dimora / scippa ricordi desideri”. Ma è necessario proseguire. Non ci si può far sopraffare. Bisogna vincere il tempo. “All’uomo clessidra/ il granello/ che lo separa dal nulla/ non sembra più infinito”. Per questo il dolore va esorcizzato, in ogni sua forma, sia per la morte, sia per l’amore. E giungiamo alla seconda parte della raccolta (dolore) dove l’esame delle pagine ci induce a vagliare gli aspetti più personali della poetessa: l’amore e la morte, in primo piano. E bisogna subito constatare che non c’è disperazione, non ci sono ineluttabili drammi, ma realistica visione. Se c’è urlo, si tratta di un urlo soffocato che comunque non strazia “soffro senza menzogna”; “piango / per restituirmi al presente/ per conciliarmi col passato”. La condizione è sempre e comunque il dialogo, il desiderio di condivisione e mai di divisione. Microcosmo e macrocosmo si uniscono alimentandosi l’un l’altro: “Silenzi/ passaggi obbligati/ tra uomo e creato”.  Nel momento raziocinante della consapevolezza ci si immerge in una specie di vasca purificatrice, come per declinare colpevolezze che non sono nostre, ma del destino: “Il destino s’annuncia/ vacillo/ coi piedi d’argilla”. Superati gli scogli del hic et nunc ci si apre all’infinito. E’ la terza parte della silloge (infinità) che si dispiega nella realtà quotidiana solo apparentemente, perché non ci si può soffermare a lungo su di essa, la poesia deve andare a captare sensazioni extrasensoriali, cogliere nella finitezza delle cose l’infinito del tempo.  Incontriamo qui le liriche più personali e, per così dire, intime dell’autrice. Di Mineo si mette a nudo davanti al lettore. Gli comunica le proprie angosce, i propri dubbi, le proprie esperienze, ma senza esasperazione. Rischierebbe in altri termini di deviarne l’attenzione e delimitarne l’orizzonte di interpretazione. Attraverso un sapiente dosaggio, invece, la poetessa ci offre i suoi sentimenti con semplicità ed autorevolezza. Quell’autorevolezza che le viene dal saper limare i propri versi con maestria e lavoro consapevole di cesellatura, privo di retorica ampollosità, conscia di una responsabilità sintattica e formale. Non troveremmo altrimenti alcun interesse o alcun feeling in questo iter poetico, che intende superare i confini del finito per farsi oggetto e soggetto, personale e impersonale, materia e spiritualità, dove in un’estrema sintesi la poetessa confessa: “finzione e realtà coincidono”. Il tutto riassunto in quell’ossimoro finale – uno schizzo veloce e illuminante – che recita: “chiarore/ nel cielo del tramonto”.
Enea Biumi

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              

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