Il titolo di una silloge,
solitamente, apre uno spiraglio sul contenuto. In questo caso la chiave che
spalanca la comprensione dei versi è il termine tempo, da una parte, e rughe,
dall’altra. Ed il tempo, in effetti, sta da trad
union a tutta la raccolta, che ha, tra l’altro, come sottotitolo “poesie del divenire”. Si intuisce
immediatamente, allora, come il cuore di quest’opera sia uno scandagliare in
tutti i suoi aspetti la forma “tempo”
e si capisce come mai l’assenza di rughe sia un elemento essenziale per poter
analizzare e, in ultima analisi, tentare di comprendere l’andare delle cose. In
tal modo, e solo in questa prospettiva sembra affermare Di Mineo, la poesia
recupera il divenire e tutto ciò che si affaccia sulla soglia del tempo, sia
esso insito nel microcosmo personale della propria ed intima esperienza, sia al
di fuori di se stessi nel macrocosmo che ci sovrasta e col quale, volenti o
nolenti, dobbiamo relazionarci. In una scrittura sostenuta dall’essenzialità
linguistica e sintattica, opportunamente orchestrata in versi lapidari che
danno la misura dello scorrere veloce della vita, la poetessa ci conduce entro
linee ed orizzonti metafisici dove possiamo confrontarci con sensazioni che
sicuramente vanno al di là del puro dato prammatico. Non si tratta solo dell’antico
assioma ruit hora, (“Ore minuti secondi/ scivolano via/ irreali”)
bensì di una ben più complessa introspezione, che segnala una dialettica tra l’autrice
e il tempo. Non è un caso che i primi versi affermino apoditticamente “Creo il tempo/ per la mia crudele lucidità”.
L’aggettivo crudele ci spiega che non è un compito facile. Anzi. Meditare fa
male. Fino alla crudeltà. Ma nello stesso istante ci si mantiene lucidi, cioè
consapevoli, perché portare alla luce l’iter della propria esistenza diventa
operazione necessaria, momento non procrastinabile, cartina di tornasole. Ecco
allora che quasi nervosamente, a scatti si potrebbe ipotizzare, avanzano nella
prima parte della silloge, sottotitolata appunto tempo, lacerti di immagini che illuminano il passaggio per poi
immediatamente spegnerlo: è un incessante accendersi e spegnersi come quei fari
sui campi di prigionia che di notte ispezionano il confine. “Il tempo mia dimora / scippa ricordi
desideri”. Ma è necessario proseguire. Non ci si può far sopraffare. Bisogna
vincere il tempo. “All’uomo clessidra/ il
granello/ che lo separa dal nulla/ non sembra più infinito”. Per questo il
dolore va esorcizzato, in ogni sua forma, sia per la morte, sia per l’amore. E
giungiamo alla seconda parte della raccolta (dolore) dove l’esame delle pagine ci induce a vagliare gli aspetti
più personali della poetessa: l’amore e la morte, in primo piano. E bisogna
subito constatare che non c’è disperazione, non ci sono ineluttabili drammi, ma
realistica visione. Se c’è urlo, si tratta di un urlo soffocato che comunque
non strazia “soffro senza menzogna”; “piango / per restituirmi al presente/ per
conciliarmi col passato”. La condizione è sempre e comunque il dialogo, il
desiderio di condivisione e mai di divisione. Microcosmo e macrocosmo si
uniscono alimentandosi l’un l’altro: “Silenzi/
passaggi obbligati/ tra uomo e creato”. Nel momento raziocinante della consapevolezza
ci si immerge in una specie di vasca purificatrice, come per declinare
colpevolezze che non sono nostre, ma del destino: “Il destino s’annuncia/ vacillo/ coi piedi d’argilla”. Superati gli
scogli del hic et nunc ci si apre all’infinito.
E’ la terza parte della silloge (infinità)
che si dispiega nella realtà quotidiana solo apparentemente, perché non ci si
può soffermare a lungo su di essa, la poesia deve andare a captare sensazioni
extrasensoriali, cogliere nella finitezza delle cose l’infinito del tempo. Incontriamo qui le liriche più personali e,
per così dire, intime dell’autrice. Di Mineo si mette a nudo davanti al
lettore. Gli comunica le proprie angosce, i propri dubbi, le proprie
esperienze, ma senza esasperazione. Rischierebbe in altri termini di deviarne l’attenzione
e delimitarne l’orizzonte di interpretazione. Attraverso un sapiente dosaggio, invece,
la poetessa ci offre i suoi sentimenti con semplicità ed autorevolezza. Quell’autorevolezza
che le viene dal saper limare i propri versi con maestria e lavoro consapevole
di cesellatura, privo di retorica ampollosità, conscia di una responsabilità sintattica
e formale. Non troveremmo altrimenti alcun interesse o alcun feeling in questo iter poetico, che
intende superare i confini del finito per farsi oggetto e soggetto, personale e
impersonale, materia e spiritualità, dove in un’estrema sintesi la poetessa
confessa: “finzione e realtà coincidono”.
Il tutto riassunto in quell’ossimoro finale – uno schizzo veloce e illuminante –
che recita: “chiarore/ nel cielo del tramonto”.
Enea Biumi
Nessun commento:
Posta un commento