martedì 25 febbraio 2020

Paolo Ruffilli, “Le cose del mondo”, (Mondadori Libri, 2020)


La memoria rievoca una essenziale definizione di esperienza che ci veniva ripetutamente citata presso l’istituto di Estetica dell’ateneo bolognese: “quella infinita serie di relazioni tra ciò che diciamo io e ciò che diciamo mondo”; così nella partitura più vasta espressa dalla neofenomenologia critica che aveva in Luciano Anceschi un maestro esemplare. Nello stesso ateneo si è formato anche Paolo Ruffilli, nome tra i più noti della odierna poesia italiana, autore di numerose opere poetiche, ma anche esiti in narrativa, biografie, curatele. “Le cose del mondo” si propone come un sorprendente risultato frutto di un vero e proprio “work in progress” durato dal 1978 al 2019, parallelamente agli altri lavori dell’autore. Sempre e comunque con la preoccupazione di mantenere un preciso filo conduttore in tutta la sua stesura quarantennale, quale opera poematica di certosina attenzione verso il concreto mondo delle cose, nei continui rimandi e rispondenze attraverso il linguaggio poetico. Sì, per Ruffilli, la parola viene da lontano, da un’origine che chiede ricerca ed esige un vocabolo poetico che si sceglie perché in quel caso non sostituibile con nessun altro; che si carica di valenze tali da rendere la parola, nell’occasione, necessaria. La particolare limpidezza del verso breve caratterizza una scrittura che ha trovato riferimenti nell’opera di poeti come Gozzano, Montale, Caproni, ma che, innanzitutto, continua ad assimilare le preziose suggestioni che giungono dal sublime magistero dantesco. L’avvio è dato dal tema del viaggio, il senso del rapportarsi alle dinamiche del moto (e del mutamento) attraverso il contatto con i luoghi, gli spazi. “E’ proprio andando che si capisce/ qual è il rovesciamento di ogni prospettiva./ Perché, restando fermi, sfuggiva in pieno/ che è una questione del tutto relativa” scrive l’autore, confermando una sua nitida perizia compositiva, inoltrata in un dicibile qui però reso capace di oltrepassare l’osservazione iniziale, consueta, ed elevarsi ad un timbro che cerca l’immaginosa verità della parola, in attuazione di sensibili rimandi fonetici e severa accortezza nell’uso calibrato della rima. L’elemento visivo si fa evidente confermando il dato e nello stesso tempo superandolo per tendere ad un intimo significato che non sarebbe stato possibile cogliere in modo così nitido, senza quella particolare sosta linguistica. Ruffilli riesce a creare nella specificità di ogni singolo testo un raro effetto d’equilibrio compositivo che sembra rispondere ad una esigenza di ordine interiore, quasi frutto di una pratica di meditazione. Il poeta si caratterizza nella osservazione minuziosa dei particolari, degli aspetti anche quotidiani che, evidenziati, diventano indicazioni preziose di rimandi a contenuti che lo sguardo consueto abitualmente non coglie. Così come affondare il bisturi negli aspetti più intimi dei rapporti e dei ruoli, delle temibili assuefazioni da evitare attraverso le vitali reazioni di quegli stimoli che concedono rivisitazione fertile dei sensi aperti alla vocazione interrogativa. Tanto più necessaria e terapeutica ci giunge questa poesia, in una stagione epocale che ha da tempo sacrificato tutto l’ambito dell’espressione umanistica a vantaggio di un’arida esaltazione tecnologica finalizzata esclusivamente ad obiettivi economici. La parola poetica può, oggi, anche se da un territorio liminare, esprimere la valenza teoretica di una capacità d’osservazione che si fa conoscenza non del dato in quanto tale, ma del suo significato più svelante, imprevisto e, di conseguenza, del suo destino. E’ una consapevolezza di mistero ulteriore che abita la coscienza, anima un pensiero che “ resiste alimentandosi di niente/ da quel che nel profondo oscuro/ emerge, e sente di essere straniero.../ l’altrove, il cielo...il trascendente”. Così si avvia un confronto serrato e filtrato anche attraverso le cose quotidiane e materiche; enti presenti nella loro natura ontologica e allo stesso tempo resi protagonisti dell’innegabile divenire insito nell’unità dell’esperienza. L’umile bicchiere, ad esempio, “sbrecciato, andato in pezzi dopo essere caduto./ La forma, incontenibile, di un contenuto”; oppure la finestra “filtro di scambio tra il fuori e il dentro,/ tappo dell’immenso espanso a dismisura”, o il letto “porto sicuro e perno del giorno/ che svolta rapace, rotte le sponde/ nel tuffo, nel pozzo, in mezzo alle onde”. Tutto acquista, in questo procedere, un tono sapienziale che rimanda ad intimità ulteriori, a connotati rintracciabili solo superando nettamente il livello della prima ricezione; evidenziando il nostro percepire negli aspetti che sanno riconoscere l’elemento stesso quando si fa strumento, come negli organi del corpo analizzati in una sezione del libro impostata come vero e proprio atlante anatomico, rendendo il dato fisico protagonista di una pagina che ridisegna i ruoli delle sue singole parti. Il centro è determinato da propulsione esigibile e percettibilmente offerto dal flusso del linguaggio nella sua più composita capacità di ricerca, pur all’interno del limite a cui siamo inevitabilmente ancorati dalla nostra natura: “Ecco che di colpo riesco a dare/ corpo all’ombra, si stacca la parola/ dal groviglio e dà forma al fantasma/ figlio del sogno che si sveglia/ e respira il respiro della vita/ con il suo peso e con la meraviglia...”. Paolo Ruffilli ci confida, con questo suo articolato lavoro, la vocazione insita nella profonda maieutica che cura, reinterpreta e interroga le cose del mondo.
        Andrea Rompianesi
 

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