La memoria rievoca una essenziale definizione di esperienza
che ci veniva ripetutamente citata presso l’istituto di Estetica dell’ateneo
bolognese: “quella infinita serie di relazioni tra ciò che diciamo io e ciò che
diciamo mondo”; così nella partitura più vasta espressa dalla neofenomenologia
critica che aveva in Luciano Anceschi un maestro esemplare. Nello stesso ateneo
si è formato anche Paolo Ruffilli, nome tra i più noti della odierna poesia
italiana, autore di numerose opere poetiche, ma anche esiti in narrativa,
biografie, curatele. “Le cose del mondo” si propone come un sorprendente
risultato frutto di un vero e proprio “work in progress” durato dal 1978 al
2019, parallelamente agli altri lavori dell’autore. Sempre e comunque con la
preoccupazione di mantenere un preciso filo conduttore in tutta la sua stesura
quarantennale, quale opera poematica di certosina attenzione verso il concreto
mondo delle cose, nei continui rimandi e rispondenze attraverso il linguaggio
poetico. Sì, per Ruffilli, la parola viene da lontano, da un’origine che chiede
ricerca ed esige un vocabolo poetico che si sceglie perché in quel caso non
sostituibile con nessun altro; che si carica di valenze tali da rendere la
parola, nell’occasione, necessaria. La particolare limpidezza del verso breve
caratterizza una scrittura che ha trovato riferimenti nell’opera di poeti come
Gozzano, Montale, Caproni, ma che, innanzitutto, continua ad assimilare le
preziose suggestioni che giungono dal sublime magistero dantesco. L’avvio è
dato dal tema del viaggio, il senso del rapportarsi alle dinamiche del moto (e
del mutamento) attraverso il contatto con i luoghi, gli spazi. “E’ proprio
andando che si capisce/ qual è il rovesciamento di ogni prospettiva./ Perché,
restando fermi, sfuggiva in pieno/ che è una questione del tutto relativa”
scrive l’autore, confermando una sua nitida perizia compositiva, inoltrata in
un dicibile qui però reso capace di oltrepassare l’osservazione iniziale,
consueta, ed elevarsi ad un timbro che cerca l’immaginosa verità della parola,
in attuazione di sensibili rimandi fonetici e severa accortezza nell’uso
calibrato della rima. L’elemento visivo si fa evidente confermando il dato e
nello stesso tempo superandolo per tendere ad un intimo significato che non
sarebbe stato possibile cogliere in modo così nitido, senza quella particolare
sosta linguistica. Ruffilli riesce a creare nella specificità di ogni singolo
testo un raro effetto d’equilibrio compositivo che sembra rispondere ad una
esigenza di ordine interiore, quasi frutto di una pratica di meditazione. Il
poeta si caratterizza nella osservazione minuziosa dei particolari, degli
aspetti anche quotidiani che, evidenziati, diventano indicazioni preziose di
rimandi a contenuti che lo sguardo consueto abitualmente non coglie. Così come
affondare il bisturi negli aspetti più intimi dei rapporti e dei ruoli, delle
temibili assuefazioni da evitare attraverso le vitali reazioni di quegli
stimoli che concedono rivisitazione fertile dei sensi aperti alla vocazione
interrogativa. Tanto più necessaria e terapeutica ci giunge questa poesia, in
una stagione epocale che ha da tempo sacrificato tutto l’ambito
dell’espressione umanistica a vantaggio di un’arida esaltazione tecnologica
finalizzata esclusivamente ad obiettivi economici. La parola poetica può, oggi,
anche se da un territorio liminare, esprimere la valenza teoretica di una
capacità d’osservazione che si fa conoscenza non del dato in quanto tale, ma
del suo significato più svelante, imprevisto e, di conseguenza, del suo destino.
E’ una consapevolezza di mistero ulteriore che abita la coscienza, anima un
pensiero che “ resiste alimentandosi di niente/ da quel che nel profondo
oscuro/ emerge, e sente di essere straniero.../ l’altrove, il cielo...il
trascendente”. Così si avvia un confronto serrato e filtrato anche attraverso
le cose quotidiane e materiche; enti presenti nella loro natura ontologica e
allo stesso tempo resi protagonisti dell’innegabile divenire insito nell’unità
dell’esperienza. L’umile bicchiere, ad esempio, “sbrecciato, andato in pezzi
dopo essere caduto./ La forma, incontenibile, di un contenuto”; oppure la
finestra “filtro di scambio tra il fuori e il dentro,/ tappo dell’immenso
espanso a dismisura”, o il letto “porto sicuro e perno del giorno/ che svolta
rapace, rotte le sponde/ nel tuffo, nel pozzo, in mezzo alle onde”. Tutto
acquista, in questo procedere, un tono sapienziale che rimanda ad intimità
ulteriori, a connotati rintracciabili solo superando nettamente il livello
della prima ricezione; evidenziando il nostro percepire negli aspetti che sanno
riconoscere l’elemento stesso quando si fa strumento, come negli organi del
corpo analizzati in una sezione del libro impostata come vero e proprio atlante
anatomico, rendendo il dato fisico protagonista di una pagina che ridisegna i
ruoli delle sue singole parti. Il centro è determinato da propulsione esigibile
e percettibilmente offerto dal flusso del linguaggio nella sua più composita
capacità di ricerca, pur all’interno del limite a cui siamo inevitabilmente ancorati
dalla nostra natura: “Ecco che di colpo riesco a dare/ corpo all’ombra, si
stacca la parola/ dal groviglio e dà forma al fantasma/ figlio del sogno che si
sveglia/ e respira il respiro della vita/ con il suo peso e con la
meraviglia...”. Paolo Ruffilli ci confida, con questo suo articolato lavoro, la
vocazione insita nella profonda maieutica che cura, reinterpreta e interroga le
cose del mondo.
Andrea Rompianesi
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