domenica 6 luglio 2025

Enrico Trebbi “E così sia” (Book Editore, 2025)

 


C’è una storia che parte sempre da lontano. Assume i caratteri di quelli che sono stati i sogni, le speranze, le utopie del tempo giovane; così come la rivisitazione e l’innegabile aspetto di un sentire struggente verso il divenire inarrestabile o il suo apparire quando lo si ripensa in una età matura. Ancora di più ciò avviene nelle fasi in cui avanza la scrittura, la poesia in particolare. Allora il quotidiano evento deve farsi autentico nella sua forma più nitida, umile, saggia. “E così sia” è il titolo dell’esito poetico di Enrico Trebbi. Da subito la scrittura esprime un verso narrativo che identifica il “tu”, la relazione, l’identità di una compagna preziosa quale vocazione laica a discernere gli appunti che trasformano le discorsive tonalità di canzoniere. L’avvio è già rivelazione di un sentire personale: “Che cosa mi è mancato negli anni/ vissuti dopo averti incontrata?”. Trebbi riconosce, in un verso che tende ad allungarsi nel dicibile, la fortuna rara dell’incontro decisivo, dell’amore rivolto e ottenuto, della concretezza attualizzata dalla dimora che si fa ascolto, ricezione, atto accudiente, cura. C’è nei versi una vocazione che si esprime nell’attenzione agli elementi di natura, sospinta da un tono posato e calibrato su base regolare, quasi un effetto di respirazione che confida: “Vorrei mi si lasciasse qui, sprofondato/ in una delle giornate che amo,/ in questa quiete di preludio,/ in questa sonnolenza/ che destituisce di senso il mondo a me noto”. E’ un riconoscere nel procedere lento, dolori e riflessi, avversioni e aderenze, contrasti minimi, timori contingenti, sofferenze accumulate; il trattenersi emotivo nella prosodia dei versi esprime proprio l’opposto andare interiore verso una direzione che si fa contemporaneamente origine e meta, marcando con intenzione includente i luoghi di sosta. I temi della malattia, del recupero; l’individuare i pochi elementi certi, capaci di donare l’intensità del riscontro, assumono echi di parole donate che in scorci a volte emergono e sembrano indicare una traccia di altre voci autoriali, forse Leopardi, Sereni, Montale. C’è in Trebbi l’urgenza del dire ma in modo disteso, dialogante, sia che ciò riguardi un amore (“Amo la luce che ti segue come un’ombra,/ ti raggiunge e si posa per conforto/ sul dubbio che sta in me, severo, contorto”), sia che si tratti di rendere un diffuso tono lieve e dolente che richiama certe vibrazioni espresse in passato da Stefano Simoncelli (“Ripartiamo presto, per evitare il traffico/ che la domenica, si sa,/ sulla strada verso l’entroterra,/ di ritorno dal socievole mare/ delle coste romagnole o ferraresi,/ è quasi sempre una variabile ostile”), sia l’esperienza struggente di un affido (“E se ti guardo leggo nei tuoi occhi grandi/ il libro della tua ricerca dell’ombra”), sia il porsi di fronte alla complessità dei legami familiari, ad un riferirsi al paterno che ricorda un titolo di Geminello Alvi (“Per tutto questo e altro ancora/ il dio dei figli ti salva e assolve e perdona”). Una malinconia paziente sovrasta l’ordine delle cose che Trebbi impugna con energia residua, abituata a coniugare durezza e pietà, richiamo e comprensione, comunismo e cristianesimo. Poi, forse, la sera si fa tenue, concede l’attimo della sosta mite e acuta attraverso l’osservare, nella precarietà dei tempi, la perturbante fragilità di quei pochi ma significativi squarci nei quali il passo prolungato e costante delle sillabe diventa la prosecuzione di una sensibilità ostinata, come nel poemetto “Canti della terra”: “Tu accendi una luna di cristallo/ nel buio dei cieli che non abbiamo visto,/ mi metti una mano sugli occhi e sussurri/ che anche domani mi porterai a passeggio”, e poi la natura con i suoi elementi più nascosti,le spazialità dei luoghi che hanno animato l’esuberanza dei viaggi, le paure e ancora gli amori...”Ed erano vetri rigati di pioggia, i vetri/ fioriti di gelo, erano primavere gentili”; infine la nitida caduta inesorabile delle utopie, il non volere una verità che inesorabilmente lo diventa; come reperire i tratti oscurati della mappa quando il terreno è già mutato, rincorrere i fantasmi di una storia che ha imposto le sue leggi, eppure... è ancora l’autore stesso a rinnovare una combattuta intenzione che gli fa dire: “Non si è in pace con sé quando si tace”. Il libro si conclude con una “intervista immaginaria” del sé lettore al sé stesso poeta.

 

                                                                     Andrea Rompianesi


mercoledì 2 luglio 2025

AI CUGINI CASCINI CONSEGNATO ATTESTATO DI PLAUSO “ARS POETICA” al XVII° CONCORSO LETTERARIO “COSENZA-CITTÀ FEDERICIANA”

 



L'attestato

A Cosenza si è svolta la cerimonia di premiazione del XVII° CONCORSO LETTERARIO INTERNAZIONALE “COSENZA CITTÀ  FEDERICIANA promosso dalla Associazione Culturale “CLUB DELLA POESIA”.

  

A Prospero Antonio Cascini e Prospero Valerio Cascini per la loro opera “L’UNICITÀ della Lucania : un approccio fotografico e poetico” edita da Monetti editore è stato consegnato l’attestato riferito alle sezione E del concorso PLAUSO ARS POETICA. L’opera è stata apprezzata perché  ha messo insieme le poesie in lingua di Prospero Antonio Cascini ed in dialetto castellano-lucano di Prospero Valerio Cascini e la bella e autentica fotografia della LUCANIA di Salvatore Monetti-editore e scrittore. È stata apprezzata il sapiente maturarsi della LUCANITÀ: si parte dalla Lucanità in formazione… si arriva ….alla Lucanità intima…. alla Lucanità levigata dalla universalità ed infine alla Lucanità che diventa radice (il patrocinio del consiglio regionale  Basilicata riconosce e testimonia questi valori).


Alcune foto della Lucania


Dipinto del pittore veneto Gianni Bergamin riferito alla poesia A sta terra…!
 

Dipinto del Pittore veneto Gianni Bergamin riferito alla poesia Le Orme!




Alberto Mori “Luce solida” (Fara Editore, 2025)

 



Un “solido morbido”, una sinestesia fluttuante già si realizza nella bella immagine di copertina, anch’essa opera dell’autore, del libro “Luce solida”. E il poeta performer ed artista è Alberto Mori che ci offre una prova ulteriore del suo percorso di attento osservatore dei particolari nella loro “oggettualità”. Qui si erge nella sua disciplina di dato il rimando a cui tendere da ciò che appare, dalle forme che abitano e scolpiscono i tratti della materia, attraverso un ricorso peculiare che incide nella trasformazione del segno o, meglio, alla sua rivisitazione: “La cesura finisce/ Energia come misura/ Flusso fra sponde accese”. Eco d’origine nella percezione di accorpamenti e velature significanti da filtrare attraverso una pratica che, nella prima parte del libro, adotta componimenti brevi di tre o quattro versi dove gli stessi si essenzializzano in una concentrazione estrema di sfumature solo accennate: “Nulla del giorno/ Vastità indetta/ Semi delle ore”. Cammini non necessariamente in sintonia con un contesto complesso e imprevedibile che caratterizza la nostra attualità e costringe ad una auspicabile presa d’atto che non sia solo cedimento a derive o approdi provvisori e afoni. Lo sguardo di Mori tende a percussioni riprodotte a ibridazioni tempistiche, così “Ombre defilate in fasce oscure/ Confini dissolti in limini chiari”. La seconda parte di “Luce solida” avvia un esito graficamente debitore all’architettura visuale di certo futurismo, non escludendo tensioni neodadaiste, così come contusioni nella tracciata interiezione possibile, colma di cenni alla tracciabilità di uno spartito fonetico. Difformità di caratteri e tratti d’interpunzione abitano la pagina nella dislocazione sillabica di fortissimo impatto visivo. Schema a supporto di tessuto sia vocalico che consonantico nelle modalità che intersecano mappature oltre accenni di schema direzionale irregolare, nei trattini e in direzioni verticali, orizzontali, diagonali. Poi Alberto Mori ritorna all’essenzialità del vocabolo e della interiezione reiterata e riprodotta in tonalità linguistica simbolicamente acuita dalla “lettera segnale”: “E Tempo/ Poco A Poco Tenta/ Trasale/ Risveglia”. Ma ancora non tutto è detto quando l’autore prosegue il percorso in modo inaspettato e sorprendente ponendo a chiusura una sezione in cui le poesie sviluppano una lunghezza in versificazione verticale, focalizzata su esito descrittivo intonato ai cromatismi urbani e temporalmente distribuiti nel susseguirsi delle fasi diurne e notturne; “Nessuna ombra rimane/ Dilegua apparenza degli oggetti/ Sogni della polvere assente/ Rumori vuoti d’attesa”. In questa sezione conclusiva ogni testo inizia con lo stesso verso, esprimendo un intento anaforico e confermando poi una nota sinestetica portata a caratterizzare l’opera: “La notte buia vede”.

                                                                                      Andrea Rompianesi