domenica 6 luglio 2025

Enrico Trebbi “E così sia” (Book Editore, 2025)

 


C’è una storia che parte sempre da lontano. Assume i caratteri di quelli che sono stati i sogni, le speranze, le utopie del tempo giovane; così come la rivisitazione e l’innegabile aspetto di un sentire struggente verso il divenire inarrestabile o il suo apparire quando lo si ripensa in una età matura. Ancora di più ciò avviene nelle fasi in cui avanza la scrittura, la poesia in particolare. Allora il quotidiano evento deve farsi autentico nella sua forma più nitida, umile, saggia. “E così sia” è il titolo dell’esito poetico di Enrico Trebbi. Da subito la scrittura esprime un verso narrativo che identifica il “tu”, la relazione, l’identità di una compagna preziosa quale vocazione laica a discernere gli appunti che trasformano le discorsive tonalità di canzoniere. L’avvio è già rivelazione di un sentire personale: “Che cosa mi è mancato negli anni/ vissuti dopo averti incontrata?”. Trebbi riconosce, in un verso che tende ad allungarsi nel dicibile, la fortuna rara dell’incontro decisivo, dell’amore rivolto e ottenuto, della concretezza attualizzata dalla dimora che si fa ascolto, ricezione, atto accudiente, cura. C’è nei versi una vocazione che si esprime nell’attenzione agli elementi di natura, sospinta da un tono posato e calibrato su base regolare, quasi un effetto di respirazione che confida: “Vorrei mi si lasciasse qui, sprofondato/ in una delle giornate che amo,/ in questa quiete di preludio,/ in questa sonnolenza/ che destituisce di senso il mondo a me noto”. E’ un riconoscere nel procedere lento, dolori e riflessi, avversioni e aderenze, contrasti minimi, timori contingenti, sofferenze accumulate; il trattenersi emotivo nella prosodia dei versi esprime proprio l’opposto andare interiore verso una direzione che si fa contemporaneamente origine e meta, marcando con intenzione includente i luoghi di sosta. I temi della malattia, del recupero; l’individuare i pochi elementi certi, capaci di donare l’intensità del riscontro, assumono echi di parole donate che in scorci a volte emergono e sembrano indicare una traccia di altre voci autoriali, forse Leopardi, Sereni, Montale. C’è in Trebbi l’urgenza del dire ma in modo disteso, dialogante, sia che ciò riguardi un amore (“Amo la luce che ti segue come un’ombra,/ ti raggiunge e si posa per conforto/ sul dubbio che sta in me, severo, contorto”), sia che si tratti di rendere un diffuso tono lieve e dolente che richiama certe vibrazioni espresse in passato da Stefano Simoncelli (“Ripartiamo presto, per evitare il traffico/ che la domenica, si sa,/ sulla strada verso l’entroterra,/ di ritorno dal socievole mare/ delle coste romagnole o ferraresi,/ è quasi sempre una variabile ostile”), sia l’esperienza struggente di un affido (“E se ti guardo leggo nei tuoi occhi grandi/ il libro della tua ricerca dell’ombra”), sia il porsi di fronte alla complessità dei legami familiari, ad un riferirsi al paterno che ricorda un titolo di Geminello Alvi (“Per tutto questo e altro ancora/ il dio dei figli ti salva e assolve e perdona”). Una malinconia paziente sovrasta l’ordine delle cose che Trebbi impugna con energia residua, abituata a coniugare durezza e pietà, richiamo e comprensione, comunismo e cristianesimo. Poi, forse, la sera si fa tenue, concede l’attimo della sosta mite e acuta attraverso l’osservare, nella precarietà dei tempi, la perturbante fragilità di quei pochi ma significativi squarci nei quali il passo prolungato e costante delle sillabe diventa la prosecuzione di una sensibilità ostinata, come nel poemetto “Canti della terra”: “Tu accendi una luna di cristallo/ nel buio dei cieli che non abbiamo visto,/ mi metti una mano sugli occhi e sussurri/ che anche domani mi porterai a passeggio”, e poi la natura con i suoi elementi più nascosti,le spazialità dei luoghi che hanno animato l’esuberanza dei viaggi, le paure e ancora gli amori...”Ed erano vetri rigati di pioggia, i vetri/ fioriti di gelo, erano primavere gentili”; infine la nitida caduta inesorabile delle utopie, il non volere una verità che inesorabilmente lo diventa; come reperire i tratti oscurati della mappa quando il terreno è già mutato, rincorrere i fantasmi di una storia che ha imposto le sue leggi, eppure... è ancora l’autore stesso a rinnovare una combattuta intenzione che gli fa dire: “Non si è in pace con sé quando si tace”. Il libro si conclude con una “intervista immaginaria” del sé lettore al sé stesso poeta.

 

                                                                     Andrea Rompianesi


mercoledì 2 luglio 2025

AI CUGINI CASCINI CONSEGNATO ATTESTATO DI PLAUSO “ARS POETICA” al XVII° CONCORSO LETTERARIO “COSENZA-CITTÀ FEDERICIANA”

 



L'attestato

A Cosenza si è svolta la cerimonia di premiazione del XVII° CONCORSO LETTERARIO INTERNAZIONALE “COSENZA CITTÀ  FEDERICIANA promosso dalla Associazione Culturale “CLUB DELLA POESIA”.

  

A Prospero Antonio Cascini e Prospero Valerio Cascini per la loro opera “L’UNICITÀ della Lucania : un approccio fotografico e poetico” edita da Monetti editore è stato consegnato l’attestato riferito alle sezione E del concorso PLAUSO ARS POETICA. L’opera è stata apprezzata perché  ha messo insieme le poesie in lingua di Prospero Antonio Cascini ed in dialetto castellano-lucano di Prospero Valerio Cascini e la bella e autentica fotografia della LUCANIA di Salvatore Monetti-editore e scrittore. È stata apprezzata il sapiente maturarsi della LUCANITÀ: si parte dalla Lucanità in formazione… si arriva ….alla Lucanità intima…. alla Lucanità levigata dalla universalità ed infine alla Lucanità che diventa radice (il patrocinio del consiglio regionale  Basilicata riconosce e testimonia questi valori).


Alcune foto della Lucania


Dipinto del pittore veneto Gianni Bergamin riferito alla poesia A sta terra…!
 

Dipinto del Pittore veneto Gianni Bergamin riferito alla poesia Le Orme!




Alberto Mori “Luce solida” (Fara Editore, 2025)

 



Un “solido morbido”, una sinestesia fluttuante già si realizza nella bella immagine di copertina, anch’essa opera dell’autore, del libro “Luce solida”. E il poeta performer ed artista è Alberto Mori che ci offre una prova ulteriore del suo percorso di attento osservatore dei particolari nella loro “oggettualità”. Qui si erge nella sua disciplina di dato il rimando a cui tendere da ciò che appare, dalle forme che abitano e scolpiscono i tratti della materia, attraverso un ricorso peculiare che incide nella trasformazione del segno o, meglio, alla sua rivisitazione: “La cesura finisce/ Energia come misura/ Flusso fra sponde accese”. Eco d’origine nella percezione di accorpamenti e velature significanti da filtrare attraverso una pratica che, nella prima parte del libro, adotta componimenti brevi di tre o quattro versi dove gli stessi si essenzializzano in una concentrazione estrema di sfumature solo accennate: “Nulla del giorno/ Vastità indetta/ Semi delle ore”. Cammini non necessariamente in sintonia con un contesto complesso e imprevedibile che caratterizza la nostra attualità e costringe ad una auspicabile presa d’atto che non sia solo cedimento a derive o approdi provvisori e afoni. Lo sguardo di Mori tende a percussioni riprodotte a ibridazioni tempistiche, così “Ombre defilate in fasce oscure/ Confini dissolti in limini chiari”. La seconda parte di “Luce solida” avvia un esito graficamente debitore all’architettura visuale di certo futurismo, non escludendo tensioni neodadaiste, così come contusioni nella tracciata interiezione possibile, colma di cenni alla tracciabilità di uno spartito fonetico. Difformità di caratteri e tratti d’interpunzione abitano la pagina nella dislocazione sillabica di fortissimo impatto visivo. Schema a supporto di tessuto sia vocalico che consonantico nelle modalità che intersecano mappature oltre accenni di schema direzionale irregolare, nei trattini e in direzioni verticali, orizzontali, diagonali. Poi Alberto Mori ritorna all’essenzialità del vocabolo e della interiezione reiterata e riprodotta in tonalità linguistica simbolicamente acuita dalla “lettera segnale”: “E Tempo/ Poco A Poco Tenta/ Trasale/ Risveglia”. Ma ancora non tutto è detto quando l’autore prosegue il percorso in modo inaspettato e sorprendente ponendo a chiusura una sezione in cui le poesie sviluppano una lunghezza in versificazione verticale, focalizzata su esito descrittivo intonato ai cromatismi urbani e temporalmente distribuiti nel susseguirsi delle fasi diurne e notturne; “Nessuna ombra rimane/ Dilegua apparenza degli oggetti/ Sogni della polvere assente/ Rumori vuoti d’attesa”. In questa sezione conclusiva ogni testo inizia con lo stesso verso, esprimendo un intento anaforico e confermando poi una nota sinestetica portata a caratterizzare l’opera: “La notte buia vede”.

                                                                                      Andrea Rompianesi




mercoledì 25 giugno 2025

Andrea Rompianesi, Letteralmente, Amos Edizioni, 2025

 



(estratto dalla prefazione di Enea Biumi)


La passione e lo studio della letteratura contemporanea (quella per intenderci che va dal se­condo novecento fino ad oggi) hanno indotto Andrea Rompianesi ad un costante rapporto/confronto con quanto veniva pubblicato dal 2010 in poi, in un’ottica di critica d’autore, molto vicina a quella militante. Ciò che lo ha mosso è stato il desiderio di un assoluto approfondimento secondo una sua idea di poetica, di certo non solo soggettiva, ma ponderata in contesti più ampi, e generata da anni di perdurato interesse nonché predilezione di quello che per lui era – ed è – sostanziale al fenomeno “scrittura”.

Riuniti in quel “peculiare genere metaletterario che è un’Antologia” (l’osservazione appar­tiene a Pier Vincenzo Mengaldo) questi percorsi di scrittura sono un esempio del lavoro sul campo portato avanti da Rompianesi nella certezza di contribuire a far udire la voce degli scrittori esaminati e registrati, anche perché validamente inseriti in un contesto culturale ampio seppure a ridosso del grande pubblico, e quasi underground o borderline, vista l’oggettiva presenza di testi che coinvolgono sia sigle di nicchia che commerciali.

Sono centodue i percorsi che qui vengono presi in esame con quella visione, come esponevo, sempre attenta alla congiunzione tra significato e significante. Ogni opera ed ogni autore, infatti, vengono colti e guardati attraverso la lente di un’attenta valutazione alla ricerca di un quid capace di generare ed evidenziare individualità precise emergenti. Il suo esame, inoltre, non vuole e non deve essere solo di superficie, e quindi benevolo, bensì severo indagatore. La disanima di cui si avvale comprende le regole della retorica che offre al lettore l’intelligenza di ciò che sta scritto in un contesto di vera e propria critica letteraria, lontana però dal vuoto di una generica apologia del testo. 

I percorsi di scrittura di Rompianesi sono per evidenziare e non per elogiare, alieni da quella specie di captatio benevolentiae che spesso conduce un critico obnubilando la verità del contenuto e della forma. Ne scaturisce quindi una professionalità plasmata da un continuo studio e da una appartenenza seria e coerente al mondo della scrittura. Non per nulla la casa editrice da lui fondata ha la dicitura di “Scrittura creativa” e la promessa di pubblicare solo opere di qualità: massimo tre in un anno. 

Per rimanere nel simbolo del percorso è evidente che ogni cammino o sentiero contiene di per sé diversi indirizzi e fermate: ecco allora che l’itinerario, che viene proposto, allarga i suoi orizzonti, si distende ed estende ad altre rielaborazioni. Non esiste, ci fa sapere Rompianesi, solo la letteratura in lingua. Da Pasolini ad altri autorevoli critici, come il già citato Pier Vincenzo Mengaldo, abbiamo ormai imparato che la letteratura italiana è costituita anche da autori dialettali. Perciò il suo interesse, autorevolmente supportato, si posa anche su poeti come Nina Nasilli, Ferruccio Giuliani, Emilio Rentocchini.

Chiaramente mi è impossibile citare tutte le opere da lui analizzate. La buona volontà e soprattutto la curiosità condurranno il singolo lettore nella giusta comprensione, sebbene gli esempi che potrei fare siano molteplici e tutti indicativi del buon lavoro svolto.

Nel cammino intrapreso, dunque, si evidenziano alla fine mete e risultati. La meta è stata raggiunta con quell’accostarsi quasi in punta di piedi ai lettori, suggerendo loro, nello spirito della maieutica socratica, alcuni accostamenti, alcuni passaggi, alcuni indirizzi. I risultati sono quelli espressi in forma più o meno esplicita in un florilegio indicativo e appagante del suo lavoro.

Il compito adesso sta al lettore. Gli spunti ci sono. Basta riconoscerli e farne buon uso per una comprensione migliore di quegli autori antologizzati e per una consapevolezza maggiore di quello che la letteratura sa donarci.

 

 




mercoledì 28 maggio 2025

SEI AUTORI RACCONTANO IN TV LA LUCANIA ATTRAVERSO I PROPRI LIBRI

                                                                Giovedi 29 Maggio

ore 17:30

  I MAGNIFICI 100

MEDinLUCANIA TV

Social Media MED

  MEDinLUCANIA FOCUS ritorna con altri 6 importanti autori  per raccontare la Lucania attraverso i libri 

 Gianfranco Blasi (Potenza)

Nunzio Festa (Pomarico)

Bruno Di Pietro (Montemurro)

Vincenzo Corraro (Viggianello)

Filippo Gazzaneo (Senise)

Prospero Cascini (Castelsaraceno)

 

Conduce Leo Pisani

 Introduce Dino Nicolia

 Regia Michelangelo Tarasco


Il 29 Maggio alle ore 17,30 in TV (medinlucana tv) 6 autori lucani parleranno della LUCANIA attraverso le proprie pubblicazioni in un incontro condotto dal giornalista Leo Pisani. Ne parleranno G.Blasi, già parlamentare della Repubblica, appassionato di Poesia: si ispira ad un filone letterario  nato negli Stati Uniti nei primi del 900 “IMAGISMO”. E’ il piu’ intraprendente divulgatore culturale della nostra Regione.  

N. Festa : è nato a Matera, ha vissuto a Pomarico, in Lunigiana e ora vive in Romagna. Giornalista, poeta e scrittore collabora  con Liguriaday, Corriere Romagna  ed altri spazi  cartacei e telematici .

B. Di PIETRO( vive e lavora a Napoli esercitando la professione forense ) ha pubblicato alcune  raccolte poetiche, suoi interventi di critica  sono apparsi su Nazione Indiana. E’ presente in numerose antologie. Fondatore con Gabriele Frasca e Mariano Baino della casa editrice ”d’IF”. Vincenzo Curraro vive sui monti del Pollino, docente di lettere, ha esordito nella narrativa nel 2005 con il romanzo “Sahara Consilina”, poi la raccolta di racconti ”dimmi che centra la felicità”, poi la raccolta di poesia ”l’età del bosco”: Scrive testi per spettacoli per bambini per il Millenium Enseble, gruppo di fiati  romani.

Filippo Gazzaneo , vive a Senise e insegna storia e filosofia , narratore e poeta: traspare nella sua attività artistica il suo antico AMORE per l’ideazione, la scrittura e regia di spettacoli teatrali, scrittura di testi di analisi ,critica letteraria, filosofica e storica. 

P. Cascini, già dirigente scolastico, già consulente psicologo presso le case circondariali di Potenza e Lagonegro, nel 2016 ,dopo sessant’anni dalla sua primina (1956),si è pensionato e si è dedicato alla Poesia come amore per la sua terra e la sua Regione e i suoi affetti. Nel 2024    la sua silloge” IL GIROTONDO.. tra primina e buona scuola nella  Lucania” ha vinto il primo premio al concorso nazionale di Poesia  “ versi nel borgo”. E nel 2025 L’opera “L’unicita’ della Lucania: un approccio fotografico e poetico” è stata premiata nel concorso letterario internazionale COSENZA.. CITTA’ FEDERICIANA. 

L’incontro sarà introdotto da Dino Nicolia, Funzionario della commissione Europea  dal1988,dove si è occupato  di Politica Industriale, Politica Ambientale e ora di PAC (Politica Agricola Comune)e segue i programmi di sviluppo rurale delle piu’ importanti Regioni Meridionali . Ha pubblicato un importante testo sulla strategia euro mediterranea e le politiche di sviluppo per il mezzogiorno con prefazione dell’ex presidente ONU l’egiziano Boutros Ghali E’ Presidente dell’associazione MEDinLUCANIA una associazione che riabilita  l’impegno civile al servizio del bene COMUNE.

La Regia sarà curata da Michelangelo Tarasco! 

 


 

venerdì 16 maggio 2025

Antonio Rossi “Quandoltre” (Book Editore, 2025)

 

                               


 Davvero possiamo cogliere l’identità di una partitura specificamente vitale e accuratamente fonosimbolica, attrezzata ad uso sintattico svelante oltre l’approssimarsi reiterato del quotidiano, verso ulteriori esegesi del reale. “Quandoltre”, titolo poetico di Antonio Rossi, assume la valenza di una interpretazione compatibile con l’imprevisto del dato, accostandosi alle cose attraverso una variegata composizione ontologica. ”Una fune affilata/ nottetempo il prato/ delimita; nessuna/ lesione o suppletivo/ assillo da essa procede”; così comporta lo stratificato geologico che si riflette nell’atto del definire, nella poiesi articolata, il lessico materico concretizzante gli spazi, i luoghi, le configurazioni periferiche attinenti alla pratica elaborativa posata sulla capacità dell’autore di essenzializzare nel nitore semantico, la pluralità dei suggerimenti; umori di anastrofe o iperbato determinano schemi linguistici di una sapiente formazione strutturale. La scrittura poetica di Antonio Rossi è pregiata, raffinata, accurata; imposta calibrature ad evento nello stimolo, poi fissate appena da successione dei termini e concede esemplare fusione di nitore e ritmo, nel delineare le cognizioni che l’ambiente suscita nell’osservatore quando la molteplicità dei dati richiede la forza delegata al processo di sintesi. “Soppalchi a sfalsata geometria/ e multiple capriate nonché tramezzi/ unitamente a studiati avancorpi”; quasi intelaiature foniche decrittate e riprodotte in assunzioni di termini strutturalmente composti in una espressività solida, come innestate nel corpo degli ambienti quasi fossero cantieri che rendono la loro configurazione oggettuale in versi includenti fonetici supporti, destinazioni e fogge, ponteggi e arredi, travetti e andatoie. “Colorate lanterne trattengono”...come possibili interni d’inespresse vicende fermate in un tempo sospeso; atmosfere e giacimenti, utensili e abissi contendono alla spazialità della pagina l’incessante metamorfosi appagata nella sedimentazione di un linguaggio che ferma l’inquadratura in una davvero sorvegliata regia densa e protratta nella non esclusa visibilità diuturna pure tra i vapori sprigionati, “sotto un cielo che solo detriti/ e schegge porta”. Sfoghi e parole, sospiri e pertugi, disamine e istanze conducono ad adagi costituenti la precisione espressiva della sintesi poetica in un comporre fonetico attento alla sosta, alla calibratura prosodica, nella trasposizione di segni che dalla natura circostante esplicitano traiettorie e mutamenti non solo consueti. “La lungamente disattesa/ stazione di ristoro i vaganti/ fra i piani larghi accoglie”; c’è un sentire di afflati notturni scolpiti in una visibilità musicale che denota frequenze sillabiche, ritmi posanti la fruizione accentuata attraverso vegetali rimandi e meccaniche deviazioni. Antonio Rossi si pone in questo suo lavoro testuale “ad una certa distanza” per osservare con cognizione e senso maieutico della scrittura poetica dove è segno cogliere l’accento accorto della definizione rigorosa. “Ma pur se’n vanno/ flussi e folate contro la più alta/ scogliera e le onde che dal deserto/ cortile s’intravedono a sé ogni cosa/ chiamando”.

 

                                                              Andrea Rompianesi

 


Tre lucani tra i premiati al Diciassettesimo concorso letterario “Cosenza città federiciana”

 


L’associazione socio-culturale “club della Poesia”di Cosenza che, da sempre, organizza il Concorso ha diffuso una nota stampa nella quale comunica i premiati del concorso Letterario internazionale.

Nella sezione poesia libri editi, sottosezione “plausi ars poetica” è inserita la silloge “L’unicità Della Lucania: un approccio fotografico e poetico” di Prospero e Valerio Cascini, Monetti editore, presentata l’anno scorso al salone del libro di Torino e che sara   presentata nel comune di Grugliasco (To) sabato prossimo 17 maggio, unitamente all’inaugurazione della mostra “Terre lucane” del pittore Gianni Bergamini che ha già  tradotto in dipinti tante poesie della silloge. Lo stesso comunicato informa che nella sezione narrativa edita, sottosezione menzioni d’onore è inserito il testo “Altomonte e dintorni” di Nuccio Provenzano, Pellegrini Editore.

Le commissioni giudicatrici sono state così composte: sez. poesia, presidente prof.ssa Concetta Natoli (poetessa, scrittrice) presidente onorario dott. Vincenzo  Galluzzi (dirigente medico e Poeta) e i membri giurati Elvira Dodaro, Valentina Iusi, Gioconda Oliano, Teresa Esposito, Antonio Marullo, Giuseppe Piluso e Pierpaolo Rodighiero. Tutti poeti o esperti della materia.

La commissione Sezione narrativa è stata presieduta dal prof. Rolando Perri (dirigente scolastico, saggista, recensore etterario). Gli altri giurati sono stati Tommaso Orsimarsi, Antonella Daffinoti, Erminia Madeo e Maria de Fazio. Tutti esperti della materia. I tre premiati sono originari della zona sud della Basilicata (i cugini Cascini di Castelsaraceno) e Nuccio Provenzano di (San Severino Lucano).

Valerio Cascini vive dal 1963 a Torino, ma frequenta Castelsaraceno da sempre e scrive le sue poesie in vernacolo castellano-lucano. Nuccio e Prospero sono stati tanti anni insieme a Lagonegro: loro città studi. Nuccio, da tempo ormai, vive ad Altomonte e come un buon lucano ama il paese in cui vive.

Le premiazioni ci saranno il 14 e 15 giugno presso l’hotel san Francesco Rende (Cs).


 


lunedì 5 maggio 2025

Carlo Ricci Bertarelli, Trasformazioni, Il Convivio Editore, 2023, € 8,00








Gli “appunti di passaggio”, come li definisce l’autore nel sottotitolo alla raccolta, si riferiscono alla città di Milano. Una città spesso in contraddizione con se stessa, una città che mette alla prova chi la incontra, una città che affascina e che spaventa, ma che alla fine ci coinvolge e ci avvolge. A ben vedere il poeta Carlo Ricci Bertarelli si inoltra fra le mura e le vie della città cercando di scoprirne i segreti, di carpire il suo evolversi, di capirne gli umori e le frequentazioni. “Trasformazioni” è una silloge di profondo desiderio e d’amore per Milano, vista e visitata con consapevolezza e ottiche sempre diverse, come disparate sono le occasioni di incontro. L’autore, esplicitamente, non sostiene d’amare la città. Ma i suoi percorsi, i suoi “fotogrammi” non sono altro che la traduzione della magia e del fascino che Milano offre. Carlo Ricci Bertarelli è uno dei tanti non milanesi d’origine che diventano nel tempo milanesi de facto. Lo testimoniano queste liriche che sono il prodotto di un vissuto interiore in intimo contatto con la città. “Sono solo / appunti di passaggio” afferma nella prima poesia che introduce la silloge. Tuttavia, mano a mano che il lettore prosegue, si rende conto che gli appunti diventano momenti essenziali per una comunione d’affetti che anelano all’essenza stessa della città. “Mi passa accanto la città / traccia confini d’inverno e cemento / nei profili scossi dei mattoni / terre di fraintendimenti // di crepe marmoree // ma i confini sono traiettorie distratte / di grafici / estratte dal sedimento”. Ecco che Milano si insinua nei pensieri del poeta attraverso le sue case, le sue vie, i suoi inganni prospettici e quasi surreali, che diventano interlocutori, comunque, di un tragitto, di uno scorrere, di un 
πάντα ῥεῖ esistenziale. E allora il suo viaggio si fa più reale e dichiarato: “L’ululato del treno / scuote i sotterranei”, “Dal tunnel della metropolitana / le scale eruttano passi”. Così la mimesi diventa un contributo alla comprensione, coniugando aspetti occasionali, come un incidente d’auto, a visioni dal sapore strettamente realistici come: “Nell’attesa / il sole ormai è sorto/ la città è già in fiamme”, “È mattino presto / l’asfalto d’agosto già ribolle.”, “Nel giorno che s’attarda a fioca luce”, “Mi sorprende la sera / in uno slargo tra le case nell’ora / che ti ho rivisto camminare tra le aiuole”. La visione esterna, reale, della città viene introiettata nella coscienza dell’autore tanto che non vi è più differenza tra una fotografia e una riflessione, tra quello che appare e quello che invece è il sentimento del poeta. “Così mentre cammini alzi il naso, comunque / rimani risucchiato da quelle altezze / e stai lì stupito a guardare la trasformazione / ognuna come un’ombra che sorge o un racconto / e subito rientri, invischiato / senza parlare. – Guardali: sono gli Dei – Pensi.”. Nasce così quasi un prodigio: Milano che affascina e strega il poeta, che non gli permette di distaccarsene, che lo trattiene e lo culla. “A Milano, a passeggiare in centro / è come passeggiare in salotto: / un salotto ben arredato, curato. / Nelle vie eleganti del centro / sembra di non uscire di casa / passi di strada in strada / come di stanza in stanza;”. Nonostante ciò, l’autore è costretto a staccarsene. Forse per questo è indotto a sottolineare, attraverso una rievocazione in versi, il suo rapporto con la città, a cantarne elogi e difetti, ad offrire al lettore un diario particolarmente emotivo. Alla fine, una confessione traduce in sintesi il suo stato d’animo: “Se non fossi / dei miei boschi / delle nebbie novembrine // di questo cielo incastonato / tra grovigli di colline // d’etrusche radure / di terre brune // abiterei te / sarei delle tue brine :/ sinceramente // mia cara Milano”.



Enea Biumi

 


giovedì 17 aprile 2025

Carlo Zanzi, Corpi imperfetti, Macchione Varese, 2025, € 15,00

 



Il romanzo di Carlo Zanzi “Corpi imperfetti” si dipana in una doppia scrittura: una in cui il protagonista si narra in prima persona, l’altra in cui le vicende vengono rappresentate in terza persona. Ciò che lega i due momenti narrativi, apparentemente così diversi tra loro, almeno nella forma, è la ricerca di un perché sulla fragilità umana. Mauro si interroga sulla propria decadenza, si arrovella per trovare una spiegazione al suo malessere fisico che diventa immediatamente anche malessere morale, mentre l’autore, scegliendo una narrazione in terza persona, mette in luce una serie di gesti, situazioni, linguaggio, che portano il lettore a riflettere sulle astenie, sulle incertezze, sulle frustrazioni che offre la vita. Non è nuovo, Zanzi, ad una narrazione costruita sulla debolezza umana. Ma in questo nuovo romanzo le domande rimbalzano più prepotenti e trovano un’esplicita risposta nel dialogo con Dio. Non è facile raggiungere un equilibrio sentimentale qui in terra. Non è facile non soggiacere al dolore per la perdita di un figlio. Ma la speranza di un ritrovarsi in un possibile aldilà dà forza e continuità ad un’esistenza che sente la propria fine imminente.

Chiaramente non si tratta di un romanzo a tesi. La vita è vista e descritta in maniera realistica. Zanzi non pretende alcun insegnamento, né ci obbliga a determinate condivisioni. La constatazione dell’imperfezione umana rende il racconto più vicino al lettore e lo invoglia a riflessioni che forse in periodi recenti non si è più usi ponderare. Tra l’altro, la presenza del covid, pur non essendone la conduzione principale, rende più concreta e attuale la considerazione sull’inconsistenza e la fragilità dell’uomo. Anche l’amore che i due giovani protagonisti perseguono ha un andamento oscillante e a volte decisamente incerto. Oltre alla presenza della pandemia, l’autore fa un quadro della “sua” città, Varese, che risulta perfettamente parallelo e intrinseco alla vita dei suoi personaggi. Varese è presente nei pensieri, nei gesti, nelle abitudini dei protagonisti, viene descritta, non dico nei minimi particolari, ma nella verità di una realtà urbana vista a tutto tondo: con le sue vie, le sue chiese, le sue piazze, i suoi pregi e i suoi difetti. Non è un caso se in uno degli ultimi capitoli Zanzi parli del funerale di Maroni. In tale contesto non possiamo omettere che lo scrittore è anche autore di un Valzer par Varés (parole e musica) che lo ha reso celebre in città.

Nel capitolo finale, come fosse un postscriptum, troviamo un’annotazione personale. L’autore abbandona le vesti dello scrittore per indossare i panni del figlio. Ritroviamo così un omaggio a sua madre Ines, redatto a pochi mesi di distanza dalla sua morte. Omaggio che comunque rimane nel contesto del romanzo: una meditazione sulla fragilità umana nel commovente ricordo della scomparsa di una persona cara. È il desiderio di un figlio che non vuole dimenticare il valore e l’importanza della propria madre, come “un bisogno di annotare i ricordi di lei, un tentativo estremo e ‘inutile’ (eppure potente) per sentirla vicina.”  E anche in quest’ultima riflessione ci si sente la labilità di ciò che l’uomo vorrebbe e la sua inutile, seppur immensa e vigorosa, inanità.

Enea Biumi


martedì 15 aprile 2025

Carlo Banfi, Lo svizzero del Canton TI, Giuliano Ladolfi Editore, 2025




Con questo romanzo Banfi ritorna alla descrizione del suo mondo rurale per farne un elogio spassionato, sincero, certo, ma non nostalgico, bensì realistico e attuale. L’incipit stesso ci immette immediatamente in un’atmosfera contadina che si materializza attraverso un colloquio ideale con una donna di nome Oniria.

“Oniria, tu vuoi che io ti racconti come sono questi miei giorni infiniti di sole, con la terra riarsa e la tenue ombra che ti dà sollievo nel pomeriggio infuocato. Cammino coi piedi scalzi nell’erba da poco rasata e senti la frescura che ti tonifica, ma manca l’ardire di affrontare il campo aperto, regno di luce.” (…) “Oniria tu vuoi che io ti racconti di questa continua attesa e intanto il sole arde e divora le cime anzi che precipitino nel freddo squallore dopo il crepuscolo.” “Ed è già sera, la mia sera.”

In questo approccio, che possiede un sapore e una forza poetica montaliana, possiamo scorgere una specie di correlativo oggettivo che ci indica il percorso. I giorni di sole sono senz’altro momenti di vita, mentre la terra riarsa fa pensare alle difficoltà che si incontrano giorno dopo giorno, in cui solo una tenue ombra dà sollievo al pomeriggio infuocato. Allo stesso modo l’incedere a piedi scalzi non fa altro che sottolineare una contrapposizione esistenziale: da una parte l’ardire e l’ardore nell’affrontare il quotidiano, dall’altra la fatica di fronte a problemi spesso irrisolvibili, che creano disagio e paura di fronte alla realtà. La continua attesa, invece, mi fa pensare ad una aspettativa di un futuro migliore prima che il male o il dolore ci assalgano (anzi che le cime precipitino nel freddo squallore). Mentre la sera, non è necessario sottolinearlo, riprende la metafora foscoliana della morte.

Non vorrei però forzare la mano ad una interpretazione allegorica di un romanzo che è espressione di realismo e di attualità, per quanto sentimentalmente affine ad un inno amorevole e poetico nei confronti della natura. Oltretutto il nome scelto per l’interlocutrice ci fa intravedere come il racconto sia a mezzo tra desiderio e sogno. E ci indica un auspicio: che il desiderio si avveri ed il sogno ci permetta il ritrovo in un locus amoenus, ricreato attraverso la scrittura in un’ideale di vita in sintonia con la natura stessa, scandita dalle stagioni e dalla storia.

Un primo elemento, quindi, che emerge immediatamente, al di là dell’approccio lirico riscontrato, è l’incontro con la “Grande Madre”, la Terra. Un incontro sostenuto da sincero affetto, come atto dovuto di riconoscenza. Un incontro di devozione e ammirazione per i doni che Cibele ci offre, per il prodigio dei frutti che ne sortono, per la necessità di un sostentamento vitale, per la visione pacifica, ancorché difficoltosa, di animali che interagiscono con gli uomini.

Spesso Banfi, nei suoi colloqui, mi parla del suo “eremo”, una specie di personale e solitario rifugio. Che non è soltanto una costruzione materiale, vale a dire casa fatta di sassi e mattoni con allegato terreno agricolo e boschivo, bensì edificio (e artificio) letterario, innalzato in un mondo protetto, in cui si fondono l’Arcadia teocritea, le Bucoliche virgiliane, e le Mirici pascoliane, il tutto riportato alla contemporaneità in cui i ricordi d’infanzia della campagna del basso varesotto (Caronno Pertusella), il lavoro quotidiano (insegnante a Luino), la storia (la liberazione del ’45 attraverso le lotte partigiane) e l’attualità (la recente pandemia) si fondono in un unicum corpus. Si tratta, per intendersi, come una indispensabile voglia di equilibrio - forse impossibile - tra la ricerca della serenità personale e le tragedie della Storia, analizzate in forma profonda e adeguata.

D’altra parte l’autore non è nuovo a questo procedere. Si possono ricordare a tal proposito i suoi precedenti romanzi. Infatti, “Il capanno”, “La via Palestrina”, “Linea Cadorna”, offrono contenuti che si avvicinano prevalentemente ai due filoni individuati in “Lo svizzero del Canton Ti”: la Natura e la Storia. In tale contesto il suo sguardo si inoltra nei dettagli, si fa investigatore e accanto ad una panoramica oggettiva della campagna costruisce soggettivamente sentimenti, proiezioni, inibizioni, storie vere o veritiere di una umanità spesso sconvolta ed oltraggiata, quasi sempre succube di un destino contrastato e crudele. Così l’incontro con la storia antica (quella del ‘500), con la tragedia della seconda guerra mondiale, con l’idillio campagnolo, diventano occasione per uno sguardo ai comportamenti d’oggigiorno. Oggi, ci suggerisce Banfi, gli istinti dei giovani e la loro educazione vengono deviati sull’effimero e su un inconsistente edonismo, che non portano a nulla, non lasciano impronte e spesso sono delinquenziali e ammorbanti l’esistenza comunitaria.

L’autore è consapevole di non avere a disposizione la bacchetta magica, ma nel contempo non vuole rinunciare alla denuncia. Di fronte alla crisi economica che ci attanaglia non pone soluzioni, ma verifiche. Esistono problemi di immigrazione ed emigrazione che non vanno affrontati con vuoti slogan che non concludono nulla. Anche perché, molto probabilmente, l’uomo in sé non è capace di appianare le cose. È necessario, dopo aver fatto i conti con il dolore fisico e con l’angoscia morale, che l’uomo da solo non potrà risolvere, andare oltre. Per questo Banfi introduce l’argomento religioso attraverso l’incontro, ad esempio, con le Romite del Sacro Monte. O l’accenno a papa Francesco che indica la corsa al denaro come uno dei peggiori mali dell’umanità.

Ecco allora che davanti a tutta una serie di problematiche odierne, la vita rurale si trasforma idealmente in un luogo di serenità e pacifica convivenza, un ultimo angolo di mitica “età dell’oro”, momento di sopravvivenza idilliaca, tipica delle utopie letterarie. Tuttavia non possiamo estraniarci o rinchiuderci in torri d’avorio. Per l’intellettuale la ricerca della verità è un fatto incontrovertibile. Irrinunciabile. È per questo che in “Lo svizzero del Canton Ti” le descrizioni sono realistiche, vivaci e sempre dosate e raffinate. Banfi, in ultima analisi, non rinuncia al concetto di αλήθεια (verità) che unito a quello di ασυχια (tranquillità) mi fa comprendere anche la sua poetica. Questi due parametri possono avere una funzione catartica nel suo romanzo. Sicuramente lo sono nella vita.

“Eri tu, Oniria, volto di sogno, augurio di ogni bene e felicità.”

Enea Biumi


domenica 13 aprile 2025

Marilyn Bobes, Cancellare il tutto, Genesi Editrice, Torino

 



Lo scrittore e poeta uruguaiano Mario Benedetti, discettando in un breve saggio sulla poesia cubana del secolo XX,(1) annotava – cito parafrasando – come la maledizione consumistica avesse relegato la poesia ad un articolo che non si vende. Di conseguenza gli editori si rivolgono soprattutto al mercato del romanzo, indirizzandogli, e spesso imponendogli, contenuti e forme che non lascino dubbi sul guadagno economico. Di fatto però il povero poeta viene liberato da qualsiasi imposizione, sia ideologica che stilistica, per cui, a questo punto, può riversare la propria sensibilità su ciò che più gli aggrada e gli detta il cuore. Per quanto riguarda la poesia si tratta evidentemente di un fattore positivo. La marginalità, infatti, in cui essa viene rinchiusa le permette una libertà incancellabile e insopprimibile. In questo clima di apparente emarginazione, una specie di borderline letteraria, si situa la silloge poetica “Cancellare il tutto” di Marilyn Bobes, poetessa contemporanea di origine cubana. Sottolineo l’aggettivo apparente e il termine emarginazione, perché ad una disamina più approfondita i suoi versi appaiono come tante frecce destinate a imporsi in un panorama culturale più esteso e ricco. Versi “pesanti” i suoi: e “pensanti”. Pesanti perché affondano nelle radici più profonde del nostro essere uomini. Pensanti perché creano un circuito di situazioni, domande e riflessioni che non lasciano spazio al pressapochismo o all’adiaforia. “Né tu né io sappiamo / cosa c’è / dietro i suoni imprevedibili del crepuscolo. / Noia? / Sterilità?” “Perché salire di quota / in un verso strisciante / come la spiritualità / dei tuoi contemporanei?” “Da tutte le parti echi / nei vicoli in rovina / di questa piazza assediata”. Mi sembra quasi di assistere a quelle partiture musicali di Edgar Varèse o Luigi Nono che nel disordine delle note richiamano l’ordine delle cose. La comunicazione pertanto diviene più intensa ed emotivamente certa, confluendo e affluendo nel vasto e misterioso mondo della poesia. Non è difficile notare come in ogni verso si respiri un senso di libertà, un desiderio di emancipazione da ogni struttura soffocante la propria personalità, una voglia di resilienza ad ogni tipo di costrizione e sottomissione. “Non li convincerai / con pochi / sintagmi / vinti / dall’abuso”. Non si tratta, attenzione, di mera protesta. La scrittura della poetessa cubana converge in una direzione in cui è necessario apprendere per riconoscere se stessi, per trovare la propria dimensione e identità, per sapere se esista o meno una vocazione cui appellarsi. “Arrenditi ora / all’ipotetica disgrazia / di avermi preso in considerazione”. Insomma, ella chiede e si domanda, anche se nessuno risponde, e risponde e si risponde, sebbene nessuno domandi. “E tu non sei tu / e io non sono io. / Nemmeno / caricature / delle nostre passate / identità”.

“Cancellare il tutto” mi riporta alla mente il finale apocalittico della Coscienza di Zeno, la constatazione che “la vita attuale è inquinata alle radici”, la riflessione sull’uomo occhialuto che costruisce ordigni tali da distruggere ogni cosa perché si possa finalmente ritornare alla salute-salvezza tanto auspicata.(2) La silloge della poetessa cubana suggerirebbe quindi, in un primo momento, di cancellare tutto ciò che è stato, cancellare il male ed il bene, cancellare l’immagine del passato e del futuro, cancellare la storia personale e collettiva, affinché si giunga ad una laica epifania attraverso una rigenerante purificazione totale. “Abbiamo dimenticato / che il mondo è un inferno / ma desideravamo / la possibilità del paradiso / dopo il purgatorio.” Tuttavia, al contrario di quanto farebbe supporre il titolo ad una prima e superficiale lettura, i suoi versi diventano una ricerca della verità, un discrimine tra illusione e realtà, tra fantasia e concretezza, ribadendo in maniera icastica che la salvezza – di se stessi e del mondo – è una incessabile ricerca, un controllo meticoloso del possibile e dell’impossibile. “Né la bellezza era verità / né la verità nasconde / quel pezzo di cielo / che ci avrebbero promesso”. Ed ecco, allora che in questo contesto la parola assume un’importanza suprema per la sua autenticità e inalienabilità. Marilyn Bobes stessa lo sottolinea più volte. La parola, spesso evocata e idolatrata, diventa non solo parte della vita della poetessa, ma pure della nostra. Ci accompagna. Ci imprigiona. Ci distrae. Ci umilia. Ci ridicolizza. Ci aiuta. Ci salva. “Contaminati / da quei versi mortuari / che ci conducono alla morte, / i versi volano / come frecce / e si conficcano con certezza / nel corpo / di San Sebastiano. / Cosa farai dopo il Greco, / Van Dyck / e Botticelli?” Nel coacervo di segni, apparentemente indecifrabili, la poesia svela il suo significato. L’incontro-scontro con la parola accompagna dunque l’esistenza della poetessa. Direi che in fondo la sublima in un confronto sempre rigoroso, accorto, mai debordante, ma nello stesso tempo ironico e sagace. Cancellare il tutto, quindi, assume anche il significato di un allarme. Intenso. Vicino. Umanamente incalzante. Quell’allarme è come un grido che si dilata, prolungandosi nel tempo. Si ammanta di disperazione. E non cessa di farsi sentire.

Con questa raccolta Marilyn Bobes palesa apertamente un modo di percepire la vita e la letteratura sicuramente autentico, nonché pressante, invitandoci a riflettere sulla effettiva entità dell’essere e della scrittura. L’autrice tende a scoprire una realtà mutevole nel tempo, osservata dai suoi differenti punti di vista, mai univoca né statica. La silloge infatti contiene, sia pur in sottofondo, una fiducia nella forza delle idee che in modo arduo possono penetrare a fondo la realtà per renderla il più possibile comprensibile. “Tre volte moriamo. / La prima, / quando ce ne andiamo. / La seconda, / quando restiamo, / e la terza, / quando ritorniamo”. La poetessa constata che il mondo è costituito da “vittime di differenti crepuscoli”, mentre le parole risultano “prigioniere”, “definitivamente spezzate”, “surreali”. La poesia smaschera dunque le falsità. O per lo meno, ci prova. Anche perché non sta nelle mani del poeta la chiave del tutto. Anzi. Il poeta vive appartato in luoghi in cui le “parole non possono decifrarci”. Sembra a volte una situazione schizofrenica, questa, ribadita dalla poetessa nei versi: “È utile / perdere la lotta / alcune volte. / Per comprendere meglio / quegli esseri geniali / che di solito chiamano / schizofrenici”. Il richiamo alla schizofrenia mi rimanda implicitamente a quei poeti ed artisti che si sono visti depauperati della loro personalità e della loro stessa esistenza. Penso ad Alda Merini, Dino Campana, al cubano José Jacinto Milanés. E l’elenco potrebbe proseguire. Tuttavia credo che per essere artisti un po’ di follia non dovrebbe mancare.(3) Perché comunque è necessario il distacco, l’alienazione sia pur controllata, la spregiudicatezza e l’incoscienza dell’esplorazione. Sulla stessa linea si pone la poetessa cubana, là dove insinua “Le dissociazioni / che vanno e vengono / sono te e le altre: / tutte convivono con te / nella molteplicità del tuo inconscio”. Risulta evidente che, alla fine, il significato sigilla il significante, la materialità si fa rada, quasi surreale, diventa suono e la fonicità così ottenuta (anche nella traduzione) offre spunti di immaginazione ed intuizione che collimano alternandosi in momenti di tangibilità da una parte e di astrazione dall’altra. Il verso sembra raccogliersi attorno alla possibilità di riflettersi nel tempo, di imporsi nell’oggi e nel domani. Infatti, “Noi, quelli di una volta / abbiamo ceduto al tempo / e restiamo bloccati nella storia”, “La Storia non è finita / ma la morte dilaga / senza che venga un profeta / a smantellare le utopie”. Certo, non è detto che la storia sia ancora Magistra vitae. La storia forse non insegna più. O non ha mai insegnato. “Il futuro non è stato / quella sfera magica / che usavamo un tempo per predire / le nascite”. I paragoni diventano però impossibili perché “raccontare racconti / renderebbe interminabile / questa dubbiosa favola”. Nonostante ciò, al di là della “paura del fallimento”, al di là “dell’ignoranza”, perché “solo / i droni del subconscio” possono “ignorare la tua dimenticanza”, “continueremo a leggere Borges / morendo a Parigi / sotto il diluvio tecnologico”. Tutto questo ontologicamente si traduce nell’esistenza quotidiana e insopprimibile della poesia, sebbene ci sia sempre chi si ostina a perseguitarla, a chiuderle la bocca, perché “la poesia / è un esercizio inutile”. “Quando si racconta ciò che accade / proclami la tua assoluta sfiducia / negli effetti della poesia”.

Quella Parigi tecnologica evocata e velatamente invocata ci conduce ad una serie di domande. È forse più utile la modernità? Più desiderabile la tecnologia? Più indispensabile Facebook, tweet, un account? Meglio la “borsa di Louis Bouton”, “i vestiti di Mango”, “le febbrili passerelle di Chanel”? Non c’è risposta. Solo il silenzio. Un silenzio che cade sulle cose, sulle persone, sugli avvenimenti. Il silenzio cui l’anima della poetessa aspira, pretende, incalza. È nel silenzio che si ricrea l’umanità. Questa umanità distrutta dalle guerre, dall’egoismo, dall’arrivismo. “Niente può essere più necessario / di questo silenzio / per recuperare l’antica chiarezza / di quel volto enigmatico”. “Hai scelto il silenzio / meglio per te / non dire / quello che sai”. Si tratta di una introspezione duplice e importante. In questo rientrare in se stessa la poetessa ci rivela innanzitutto i suoi dubbi e le sue incertezze, in secondo luogo ci stimola a riflettere sulla sua fatica e fede poetica: un lavorio intellettuale che vuole riportare al centro dell’attenzione e del dibattito la condizione dell’uomo moderno. Una condizione comunque di per sé difficoltosa e contradditoria: tra la grandezza del passato, l’indeterminatezza del futuro e la supponenza del presente. “Tutti sono tornati alla fine, / ginocchia a terra / permanenti / o eterni /o virtualmente feriti / e come se il ritorno / fosse un patto d’amore / con il passato”. Che scopo avrebbe allora parlare di poesia al giorno d’oggi? La poesia è comunicazione. E oggi, come mai prima d’ora, comunicare non è mai stato così facile, semplice e naturale. Il paradosso però è proprio questo: che nell’epoca della massima comunicazione (in un secondo mi collego con l’amico di New York o di Singapore, posso vedere in diretta quello che accade dall’altra parte del mondo) si innalza all’infinito il muro dell’incomunicabilità. Spesso il dialogo è tra sordi. Ecco la denuncia, la segnalazione di una incapacità esistenziale di rapportarsi agli altri. “I sentieri tortuosi / di tanti personaggi / ti impediscono il contatto”, “Abbandonare la poesia. / Da ciò dipende / la realtà / o quello che sembra già troppo”. Se ne deduce quindi che ognuno opera nella propria torre d’avorio e ascolta solo se stesso. Sento in ciò come una eco di quei versi di Quasimodo in cui il poeta siciliano ribadiva la solitudine e la morte.(4) In conclusione, riusciamo o possiamo comunicare nell’ansia del domani, nel nulla del futuro, nel rifiuto del passato? Ne abbiamo la forza, il coraggio? Si tratta di una serie di domande cui Marilyn Bobes non risponde. Lascia a noi la soluzione, se soluzione esiste. “Noi, / gli analogici / (conversatori e sentimentali) / testimoniamo le decapitazioni”, “Lo schermo diventa una chimera. / E non abbiamo nemmeno / un account su Facebook / che ci trasformi / in quei semplici agnelli digitali”.

Attraverso un uso intelligente e accattivante di porsi davanti ai propri versi, la poetessa cubana ci trasporta in un viaggio che ci conduce ad una interpretazione critica e a volte intuitiva della realtà circostante, costituita da personaggi, avvenimenti e criticità irrisolvibili all’apparenza. E non si tratta di un discorso solo personale, ma universale: coinvolge tutti noi, come del resto nell’universalità si risolve spesso la vera poesia. Il suo linguaggio, infatti, è capace di suscitare emozioni, arrivando al cuore del lettore, e riuscendo ad instaurare con lui un dialogo, o per lo meno ad aprire una breccia importante. Determinanti a questo punto diventano gli accenni biografici che trapelano ora in un verso ora in un altro, come fossero led accesi per la nostra comprensione e complicità. “Scrivi solo / brandelli della tua pelle / strappata / nel corso della vita”. Non disdegna, la poetessa, di mostrare la propria vanità che tuttavia umilia e quasi dileggia come fattore negativo. “Sei famosa / come i crisantemi sulle tombe”, “Abbiamo esaurito uno scrigno di parole / e quelle parole tornano / ma mai / per stabilire / inutili compromessi / né effimeri contratti”, “Strappino dalla mia fronte / quella corona / che non mi ha mai sistemato. / Immeritata del resto, / appassita, / su questi simboli sparsi / di insubordinazione”. Alla fine il confronto tra sé e la scrittura diventa il parallelo per un dibattito sul mondo e su ciò che accade intorno a sé. “Quando la poesia ritorna / non rassomiglia / a quella che è stata / né rinverdisce / la triste ingenuità / con cui pretendevi / cancellare il tutto.” Si intravede in questa raccolta poetica come una rivelazione: la ricerca del proprio io che sembra lottare con i suoi versi, mutando in continuazione circostanze e visioni. Ma proprio in virtù di tali fattori, che possono pure considerarsi come tanti desideri inespressi, l’epilogo non può che essere eticamente inapprensibile: “Voglio che la mia vita / sia un atto riverente”. Assistiamo quindi ad una specie di labirinto dove mistero, arbitrio, aspirazioni, confessioni delineano uno spirito che non si accontenta mai. Ma si tratta di un labirinto che non è mai fine a se stesso: un labirinto ossimoricamente aperto, che comunque non vuole fornire un unico modo – e giusto – di interpretazione dell’esistenza. L’opera rimane accessibile all’intuizione del lettore, alle sue emozioni, alla sua cultura. L’invito, forse sotteso, è quello di non considerare la realtà come appare, ma di appropriarsene in maniera critica, con proprie idee e proprie considerazioni, nella consapevolezza di dover sempre e comunque indagare: il tempo, i giorni, la natura, la vita e la morte. “Per quanto tu abbia letto / i migliori poeti del mondo / sarai solo la migliore per la tua famiglia / e qualche altro ignorante / che non abbia letto Borges, / che cerca nelle tue parole / qualche leggera somiglianza / con quello che nemmeno tu riconosci: / il testo / che un giorno hai voluto scrivere / prima di aver letto Borges”.

Enea Biumi

(1) In “Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes”, www.cervantesvirtual.com.

(2) “Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. Da “La coscienza di Zeno”, Italo Svevo, Dall’Oglio, Milano, 1976.

(3) Il rapporto esistente tra arte e pazzia viene segnalato anche da Sigmund Freud in una pagina della sua Interpretazione dei sogni. Il sogno che lì si cita è questo: una giovane donna si trova all'Opera. È una rappresentazione wagneriana durata sino alle sette e tre quarti del mattino. In tutta la platea vi sono dei tavoli dove si mangia e si beve. Suo cugino, che è appena tornato dal viaggio di nozze, siede a uno di questi tavoli con la giovane sposa; accanto a loro c'è un aristocratico. Di lui si dice, molto apertamente, che la giovane signora se l'è portato con sé dal viaggio di nozze, pressappoco come dal viaggio di nozze si porta a casa un cappello. Nel centro della platea si trova un'alta torre (La cosiddetta torre dei pazzi, in tedesco Narrenturm), che ha in cima una piattaforma, circondata da una ringhiera di ferro. Lassù in alto sta il direttore d'orchestra, che ha i tratti di Hans Richter; egli si aggira ininterrottamente dietro la sua ringhiera, suda copiosamente e dirige da lassù l'orchestra, disposta intorno alla base della torre. La donna è seduta con un'amica in un palco. La sorella minore vuole porgerle dalla platea un gran pezzo di carbone, con la motivazione che lei non sapeva che l’opera sarebbe durata così a lungo e sarà ora tutta gelata. L'uomo esasperato e nella furia assalito dal terrore suggerisce l'immagine di un animale ingabbiato. La citata torre dei pazzi (Narrenturm), quindi, sarebbe un ossimoro retorico: unione sintattica intima di due concetti contradditori in una unità, che rimane caricata di una forte tensione. In questo caso il più alto (l'espressione artistica) e il più basso (il manicomio): l’ispirazione e la pazzia. Si tratta di una antitesi che ricorre frequentemente in mistici e asceti: la musica del silenzio, la solitudine musicale di San Juan de La Cruz, per esempio. Attualmente Narrenturm (la torre dei pazzi) antico manicomio di cui allude Freud nell'analisi del sogno, è divenuto museo anatomopatologico dell'Ospedale Centrale di Vienna, ubicato in Hallerstrasse, 9.

(4) Ognuno sta solo sul cuor della terra, / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.

giovedì 3 aprile 2025

L’UNICITA’ DELLA LUCANIA FA INNAMORARE LA PUGLIA

 


A Ginosa Sabato 29,nella splendida Masseria STRADA, in una sala col camino acceso, alla presenza di un pubblico numeroso e qualificato, si è parlato della silloge” L’UNICITA’ DELLA LUCANIA: un approccio fotografico e poetico”. I lavori sono stati coordinati dalla professoressa Rossella Galeota, che  ha dato il benvenuto a tutti i presenti, appassionati di poesia, al sindaco Vito PARISI, alla dottoressa Antezza Valeria, all’editore Monetti e all’autore P. Cascini, ricordando come questa idea sia nata a Marina di Ginosa frequentando lo stesso  lido e godendo lo stesso fresco (ombrelloni vicinissimi). 

Il sindaco Parisi ha portato il saluto dell’amministrazione e si è soffermato sul concetto di cultura come volano di sviluppo salutando il poeta Prospero Cascini come COSTRUTTORE di Paesaggi. Appassionata la relazione di Antezza  che ha chiesto, a gran voce, la contaminazione dell’ESSERE LUCANO, ricordando a se stessa la sua conoscenza della Lucania e come la vicinanza della nostra cittadina con MATERA ha sempre favorito lo scambio di valori e servizi. Interessante l’analisi poetica delle poesie di Valerio e Prospero Cascini  da parte di ANTEZZA che ha ribadito …. che Valerio vede con gli occhi del Bambino e Prospero torna indietro nel suo poetare al mondo dell’infanzia, della nipotina, della primina… con lo stesso entusiasmo…. di essere stato giovanissimo con Valerio alla primina  e alle scuole elementari, e alla vacanze castellane! 

L’editore  Monetti ha ricordato il percorso del testo, la sua originalità (mettere insieme poesia in lingua, in vernacolo e foto)  ha ricordato il coinvolgimento del consiglio regionale di Basilicata, - il cui Presidente dell’epoca Carmine Cicala dichiara nella sua prefazione” una identità che può essere espressa solo sulla base del patrimonio culturale, che, come istituzioni siamo tenuti a custodire e valorizzare” E’ una opera - ha concluso l’editore - che apparterà sempre al patrimonio culturale della Basilicata.


IL Coautore Prospero Cascini, nelle sue conclusioni, ha ringraziato il Sindaco e i suoi assessori presenti (DANIA SANSOLINO e DOMENICO GIGANTE), i coniugi STRADA per la collaborazione offerta, gli amici di Laterza, di Ginosa  e gli amici venuti da Bari.

Si è congedato leggendo una poesia-preghiera indiana: amami, ma non fermare le mie ali se vorrò volare / non chiudermi in una gabbia per paura di perdermi/amami con l’umile certezza del tuo amore ed io non andrò via/ e se sarò in un cielo lontano  ritroverò la strada del tuo pensiero../e se sarai con me ti insegnerò a volare/e tu mi insegnerai a restare.

Le poesie in vernacolo sono state declamate da P. CASCINI, quelle  in lingua da R. GALEOTA, da I. BARDINELLI e da V. ANTEZZA e da D.SANSOLINO   

L'Autore dell'articolo è Prospero Cascini

   


mercoledì 5 marzo 2025

Danila Di Croce “Dove ancora non siamo nati” (Puntoacapo Editrice, 2024)


Elevazione e, nello stesso tempo, rarefazione. Un divenire che s’infinita... sono parole di Ivan Fedeli, prefatore dell’opera “Dove ancora non siamo nati” di Danila Di Croce. La possibilità di espressività opaca, termine ibrido, non è motivo di difficile accesso ma, anzi, pregio nel momento in cui ciò deterge da simulacri riprodotti e apre invece a riferimenti imprevisti. Il riemergere, dunque, è anche nella poiesi ulteriore, nuova o almeno rinnovata, quando l’accadimento è cogliere l’alta priorità del fare, del decidere, come rifuggire le distrazioni, focalizzandosi invece sulla praticabilità delle tregue, dei ritrovamenti oltre i profili usuali. “Certo, quel punto/ frustra attese e illusioni, ma si impianta/ sulla retina e rinasce di dentro...”; attraversare intonazioni che responsabilizzano gli espedienti franti e ricomposti nell’aggrumarsi dei retaggi. Il salto quotidiano, per Danila Di Croce, è volo ma volo di strada, di limite e dolore. Se l’imprevisto incalza, tende agguati nel mimetico, ci confronta con le attese estenuate, “fulminea la detonazione/ oltre il muro dell’evidenza/ ha già pietrificato il volo”. Ancora l’attenzione qui si rinnova e conferma la natura sostanzialmente conoscitiva della pratica poetica; codice a inoltrare la richiesta impellente della traccia generativa come e più di un’analisi attraverso la quale la compostezza strutturale dei versi si coniuga con la prudenza del dettato. No, davvero il rischio non è l’opaco, semmai il suo contrario, poiché il destino insorto dell’evocare il luogo, quello appunto dove ancora non siamo nati, è di per sé sito ubiquo, bifronte, tendenzialmente equivoco. Di Croce allora osa tentare la tenerezza dello sguardo compositivo che si fa premessa; attinge alle risorse esposte nella condivisione oggettiva ma interpretata, come solo può esserlo ogni confronto con una ipotesi di realismo. “Si corre in silenzio, ché il fiato/ non basta a dire la fatica/ o lo slancio e il traguardo/ non è un nome da gridare”; come l’insistenza di un confronto collettivo con l’incompiuto che resta parte e sintomo della dispersione dinamica che disegna tessere e mietiture assorte. La solitudine è quindi “randagia” ma, o forse proprio per questo, sostiene “il canto nuovo dell’estate”, quando il linguaggio cerca il suo senso nel farsi, nel dislocarsi autentico e condotto attraverso le forre delle perturbazioni terrigne. Allora qualcosa s’accende, compone evidenze d’inciampo, impressioni aperte, “un cielo bianco di assenza e di niente”, come la capacità lieve di concentrare nei versi una sorta di riproducibilità materica inoltrata verso l’esegesi violabile attraverso voli, appunto, che conducono la tracciatura delle urgenze sospese. In Danila Di Croce la poesia vuole aggirarsi nella direzione di un’ apertura verso le cose, verso le rinascite (nascere è forse sempre un rinascere), sviluppando ipotesi di relazione tra gli opposti, vegliando nelle atmosfere della notte. Una diversa gravità insinua il senso dell’acquisizione ma anche della dispersione; Hegel parlava della capacità di sostare nel negativo, nella contrapposizione che contribuisce alla molteplice sintesi di altro esito. “Si accorgono spesso le notti/ che tutto sviene il nostro cielo/ e che quaggiù deraglia pure il vento” dicono i versi dell’autrice, quasi a riportare quelle sensazioni accostate al senso di una nostalgia franta che può essere presa d’atto di una identità da comporre nella complessità biografica del mosaico policromo attestante la nostra tramatura. E ci saranno fondi di storie e di segreti, di nomi e nodi, inviti e abitudini, soste e risalite, così serviranno giorni e strade inesauste per difendere il ruolo e l’anticipazione di ciò che detiene bellezza, quasi un riverbero che la poesia ritrova e raccoglie, ricrea nella dimensione della risorgenza, dopo le pause esitanti del ricordo. Può esserci forse un’intesa di nomi che incrociano le intenzioni stesse ben sapendo, come scritto da Daniele Mencarelli, che sia di ieri o di oggi, nulla c’appartiene.

                                                                     Andrea Rompianesi