Il titolo di una silloge,
solitamente, apre uno spiraglio sul contenuto. In questo caso la chiave che
spalanca la comprensione dei versi è il termine tempo, da una parte, e rughe,
dall’altra. Ed il tempo, in effetti, sta da trad
union a tutta la raccolta, che ha, tra l’altro, come sottotitolo “poesie del divenire”. Si intuisce
immediatamente, allora, come il cuore di quest’opera sia uno scandagliare in
tutti i suoi aspetti la forma “tempo”
e si capisce come mai l’assenza di rughe sia un elemento essenziale per poter
analizzare e, in ultima analisi, tentare di comprendere l’andare delle cose. In
tal modo, e solo in questa prospettiva sembra affermare Di Mineo, la poesia
recupera il divenire e tutto ciò che si affaccia sulla soglia del tempo, sia
esso insito nel microcosmo personale della propria ed intima esperienza, sia al
di fuori di se stessi nel macrocosmo che ci sovrasta e col quale, volenti o
nolenti, dobbiamo relazionarci. In una scrittura sostenuta dall’essenzialità
linguistica e sintattica, opportunamente orchestrata in versi lapidari che
danno la misura dello scorrere veloce della vita, la poetessa ci conduce entro
linee ed orizzonti metafisici dove possiamo confrontarci con sensazioni che
sicuramente vanno al di là del puro dato prammatico. Non si tratta solo dell’antico
assioma ruit hora, (“Ore minuti secondi/ scivolano via/ irreali”)
bensì di una ben più complessa introspezione, che segnala una dialettica tra l’autrice
e il tempo. Non è un caso che i primi versi affermino apoditticamente “Creo il tempo/ per la mia crudele lucidità”.
L’aggettivo crudele ci spiega che non è un compito facile. Anzi. Meditare fa
male. Fino alla crudeltà. Ma nello stesso istante ci si mantiene lucidi, cioè
consapevoli, perché portare alla luce l’iter della propria esistenza diventa
operazione necessaria, momento non procrastinabile, cartina di tornasole. Ecco
allora che quasi nervosamente, a scatti si potrebbe ipotizzare, avanzano nella
prima parte della silloge, sottotitolata appunto tempo, lacerti di immagini che illuminano il passaggio per poi
immediatamente spegnerlo: è un incessante accendersi e spegnersi come quei fari
sui campi di prigionia che di notte ispezionano il confine. “Il tempo mia dimora / scippa ricordi
desideri”. Ma è necessario proseguire. Non ci si può far sopraffare. Bisogna
vincere il tempo. “All’uomo clessidra/ il
granello/ che lo separa dal nulla/ non sembra più infinito”. Per questo il
dolore va esorcizzato, in ogni sua forma, sia per la morte, sia per l’amore. E
giungiamo alla seconda parte della raccolta (dolore) dove l’esame delle pagine ci induce a vagliare gli aspetti
più personali della poetessa: l’amore e la morte, in primo piano. E bisogna
subito constatare che non c’è disperazione, non ci sono ineluttabili drammi, ma
realistica visione. Se c’è urlo, si tratta di un urlo soffocato che comunque
non strazia “soffro senza menzogna”; “piango / per restituirmi al presente/ per
conciliarmi col passato”. La condizione è sempre e comunque il dialogo, il
desiderio di condivisione e mai di divisione. Microcosmo e macrocosmo si
uniscono alimentandosi l’un l’altro: “Silenzi/
passaggi obbligati/ tra uomo e creato”. Nel momento raziocinante della consapevolezza
ci si immerge in una specie di vasca purificatrice, come per declinare
colpevolezze che non sono nostre, ma del destino: “Il destino s’annuncia/ vacillo/ coi piedi d’argilla”. Superati gli
scogli del hic et nunc ci si apre all’infinito.
E’ la terza parte della silloge (infinità)
che si dispiega nella realtà quotidiana solo apparentemente, perché non ci si
può soffermare a lungo su di essa, la poesia deve andare a captare sensazioni
extrasensoriali, cogliere nella finitezza delle cose l’infinito del tempo. Incontriamo qui le liriche più personali e,
per così dire, intime dell’autrice. Di Mineo si mette a nudo davanti al
lettore. Gli comunica le proprie angosce, i propri dubbi, le proprie
esperienze, ma senza esasperazione. Rischierebbe in altri termini di deviarne l’attenzione
e delimitarne l’orizzonte di interpretazione. Attraverso un sapiente dosaggio, invece,
la poetessa ci offre i suoi sentimenti con semplicità ed autorevolezza. Quell’autorevolezza
che le viene dal saper limare i propri versi con maestria e lavoro consapevole
di cesellatura, privo di retorica ampollosità, conscia di una responsabilità sintattica
e formale. Non troveremmo altrimenti alcun interesse o alcun feeling in questo iter poetico, che
intende superare i confini del finito per farsi oggetto e soggetto, personale e
impersonale, materia e spiritualità, dove in un’estrema sintesi la poetessa
confessa: “finzione e realtà coincidono”.
Il tutto riassunto in quell’ossimoro finale – uno schizzo veloce e illuminante –
che recita: “chiarore/ nel cielo del tramonto”.
Enea BiumiScrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
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mercoledì 26 febbraio 2020
martedì 25 febbraio 2020
Paolo Ruffilli, “Le cose del mondo”, (Mondadori Libri, 2020)
La memoria rievoca una essenziale definizione di esperienza
che ci veniva ripetutamente citata presso l’istituto di Estetica dell’ateneo
bolognese: “quella infinita serie di relazioni tra ciò che diciamo io e ciò che
diciamo mondo”; così nella partitura più vasta espressa dalla neofenomenologia
critica che aveva in Luciano Anceschi un maestro esemplare. Nello stesso ateneo
si è formato anche Paolo Ruffilli, nome tra i più noti della odierna poesia
italiana, autore di numerose opere poetiche, ma anche esiti in narrativa,
biografie, curatele. “Le cose del mondo” si propone come un sorprendente
risultato frutto di un vero e proprio “work in progress” durato dal 1978 al
2019, parallelamente agli altri lavori dell’autore. Sempre e comunque con la
preoccupazione di mantenere un preciso filo conduttore in tutta la sua stesura
quarantennale, quale opera poematica di certosina attenzione verso il concreto
mondo delle cose, nei continui rimandi e rispondenze attraverso il linguaggio
poetico. Sì, per Ruffilli, la parola viene da lontano, da un’origine che chiede
ricerca ed esige un vocabolo poetico che si sceglie perché in quel caso non
sostituibile con nessun altro; che si carica di valenze tali da rendere la
parola, nell’occasione, necessaria. La particolare limpidezza del verso breve
caratterizza una scrittura che ha trovato riferimenti nell’opera di poeti come
Gozzano, Montale, Caproni, ma che, innanzitutto, continua ad assimilare le
preziose suggestioni che giungono dal sublime magistero dantesco. L’avvio è
dato dal tema del viaggio, il senso del rapportarsi alle dinamiche del moto (e
del mutamento) attraverso il contatto con i luoghi, gli spazi. “E’ proprio
andando che si capisce/ qual è il rovesciamento di ogni prospettiva./ Perché,
restando fermi, sfuggiva in pieno/ che è una questione del tutto relativa”
scrive l’autore, confermando una sua nitida perizia compositiva, inoltrata in
un dicibile qui però reso capace di oltrepassare l’osservazione iniziale,
consueta, ed elevarsi ad un timbro che cerca l’immaginosa verità della parola,
in attuazione di sensibili rimandi fonetici e severa accortezza nell’uso
calibrato della rima. L’elemento visivo si fa evidente confermando il dato e
nello stesso tempo superandolo per tendere ad un intimo significato che non
sarebbe stato possibile cogliere in modo così nitido, senza quella particolare
sosta linguistica. Ruffilli riesce a creare nella specificità di ogni singolo
testo un raro effetto d’equilibrio compositivo che sembra rispondere ad una
esigenza di ordine interiore, quasi frutto di una pratica di meditazione. Il
poeta si caratterizza nella osservazione minuziosa dei particolari, degli
aspetti anche quotidiani che, evidenziati, diventano indicazioni preziose di
rimandi a contenuti che lo sguardo consueto abitualmente non coglie. Così come
affondare il bisturi negli aspetti più intimi dei rapporti e dei ruoli, delle
temibili assuefazioni da evitare attraverso le vitali reazioni di quegli
stimoli che concedono rivisitazione fertile dei sensi aperti alla vocazione
interrogativa. Tanto più necessaria e terapeutica ci giunge questa poesia, in
una stagione epocale che ha da tempo sacrificato tutto l’ambito
dell’espressione umanistica a vantaggio di un’arida esaltazione tecnologica
finalizzata esclusivamente ad obiettivi economici. La parola poetica può, oggi,
anche se da un territorio liminare, esprimere la valenza teoretica di una
capacità d’osservazione che si fa conoscenza non del dato in quanto tale, ma
del suo significato più svelante, imprevisto e, di conseguenza, del suo destino.
E’ una consapevolezza di mistero ulteriore che abita la coscienza, anima un
pensiero che “ resiste alimentandosi di niente/ da quel che nel profondo
oscuro/ emerge, e sente di essere straniero.../ l’altrove, il cielo...il
trascendente”. Così si avvia un confronto serrato e filtrato anche attraverso
le cose quotidiane e materiche; enti presenti nella loro natura ontologica e
allo stesso tempo resi protagonisti dell’innegabile divenire insito nell’unità
dell’esperienza. L’umile bicchiere, ad esempio, “sbrecciato, andato in pezzi
dopo essere caduto./ La forma, incontenibile, di un contenuto”; oppure la
finestra “filtro di scambio tra il fuori e il dentro,/ tappo dell’immenso
espanso a dismisura”, o il letto “porto sicuro e perno del giorno/ che svolta
rapace, rotte le sponde/ nel tuffo, nel pozzo, in mezzo alle onde”. Tutto
acquista, in questo procedere, un tono sapienziale che rimanda ad intimità
ulteriori, a connotati rintracciabili solo superando nettamente il livello
della prima ricezione; evidenziando il nostro percepire negli aspetti che sanno
riconoscere l’elemento stesso quando si fa strumento, come negli organi del
corpo analizzati in una sezione del libro impostata come vero e proprio atlante
anatomico, rendendo il dato fisico protagonista di una pagina che ridisegna i
ruoli delle sue singole parti. Il centro è determinato da propulsione esigibile
e percettibilmente offerto dal flusso del linguaggio nella sua più composita
capacità di ricerca, pur all’interno del limite a cui siamo inevitabilmente ancorati
dalla nostra natura: “Ecco che di colpo riesco a dare/ corpo all’ombra, si
stacca la parola/ dal groviglio e dà forma al fantasma/ figlio del sogno che si
sveglia/ e respira il respiro della vita/ con il suo peso e con la
meraviglia...”. Paolo Ruffilli ci confida, con questo suo articolato lavoro, la
vocazione insita nella profonda maieutica che cura, reinterpreta e interroga le
cose del mondo.
Andrea Rompianesi
domenica 23 febbraio 2020
Daria Lapi, Rime Libertine, Menta&Rosmarino Editore, Caldana Di Cocquio (Va)
Con un’epigrafe apodittica di
Oscar Wilde (Non esistono libri morali od
immorali. I libri o sono scritti bene o sono scritti male) Daria Lapi ci
mostra la strada da percorrere per la sua nuova silloge poetica “Rime libertine”. Infatti, sebbene la
maggior parte dei lettori si rivolga prevalentemente al contenuto di un testo,
non può esistere poesia senza un’adeguata e corretta forma. Saremmo di fronte
essenzialmente ad un bel pensiero. Nulla più. Una lirica per essere tale, oltre
all’emozione che suscita, deve possedere una sua intrinseca musicalità. Non si
chiamerebbe lirica, altrimenti.Fatta questa premessa, d’obbligo
visto l’autorevole esergo, mi soffermerò innanzitutto sul sostantivo (rime) per analizzare nel prosieguo
l’aggettivo (libertine).
L’autrice utilizza in pratica quattro forme di metrica. La più usata è quella che insiste su quartine di endecasillabi. Troviamo poi il settenario ed il senario doppio. E infine il settenario semplice. Le rime sono in prevalenza o baciate o alternate e si possono considerare ad libitum, a discrezione della poetessa. Una vivisezione così certosina dei versi non vuol essere solo mera retorica. La forma infatti ha il preciso compito di alleggerire lo scritto rendendo maggiormente fruibile il contenuto. Oltretutto il modus operandi disvela una capacità poetica non trascurabile ed una facilità di scrittura non indifferente. Le quali cose, congiunte, fanno di Daria Lapi una scrittrice da non sottovalutare. Detto ciò vediamo dove ci conduce l’aggettivo “libertine”. E bisogna subito notare come la letteratura occidentale fin dalle origini abbia sempre avuto in sé una pagina a parte riguardante il microcosmo del sesso e dell’erotismo, vissuti naturalmente secondo le epoche e le filosofie imperanti. Se si pensa poi a quello straordinario libro della Bibbia che è il “Cantico dei Cantici” non possiamo sicuramente cestinare o relegare ad opera secondaria uno scritto che parla dell’amore carnale hic et nunc. Non sto a citare la cultura greca o romana, sicuramente in antitesi a quella cristiana, ma basta ricordare quei liberi pensatori, nati proprio nel seno della civiltà cattolica, che hanno contribuito a restituire all’uomo ciò che, per motivi qui non sindacabili, l’uomo aveva perso. Mi riferisco a un Cecco Angiolieri, a un Ciullo d’Alcamo, a Boccaccio, a Pietro Aretino, a Ruzzante, al veneziano Baffo, al nostro Carlo Porta, tanto per rimanere nell’ambito italiano: l’elenco è sicuramente incompleto e non esaustivo. Se però ci fermiamo alla superficie del termine libertine, sia pur con tutti i riferimenti sopra citati, non riusciremmo a comprendere fino in fondo il pregio di queste liriche che Daria Lapi ci propone. In effetti, le sue poesie sono un gioioso e spensierato percorso dell’eros in tutte le sue implicazioni e applicazioni. La sua franchezza e schiettezza ci allontanano da una non ben celata pruderie che, senza volere, potrebbe ancora abitare negli anfratti della nostra anima. La poetessa strizza l’occhio al lettore non tanto per trascinarlo a sé in una specie di captatio benevolentiae, visto che l’argomento è di quelli, anche al giorno d’oggi, tabù, quanto per ricreare il gioco dell’amore sensuale in tutte le sue sfumature. Ecco allora che nascono l’uccellulare, il lamento dell’onanista, la pillola blu, la cintura di castità e tante altre situazioni che descrivono in una specie di girotondo della ruota della fortuna l’abbandono e i desiderata del piacere. Ma non c’è solo spensieratezza e voglia di vivere – che sarebbe già tanto fra i poeti, poiché i componimenti dei più si inalberano sulle maggiori, insanabili e tristi malinconie, votanti al suicidio – bensì uno sguardo attento ai falsi moralismi, alle menzogne pubbliche che in privato diventano vizi, alla condanna di ciò che non è genuino e sincero: come l’eros, appunto.Citerò solo alcuni versi esemplari per non privare il lettore della bellezza e spontaneità di tutta la raccolta. Sentite qua: E’ meglio certo la masturbazione/ piuttosto che l’usanza di quei frati/ che, nel segreto della confessione, / fanno la festa ai giovani sbarbati. Oppure questi altri: Al giorno d’oggi capita sovente, / che qualcheduno non di primo pelo/ si creda ancora d’essere attraente/ anche se invero è tutto uno sfacelo. Od anche questa quartina tratta da “La cintura di castità”, e finisco: “Fatemi obliare tosto, Magnifica Eminenza,/ d’avere lungamente patito l’astinenza/ e dopo questo sfogo, con grande devozione/ vi chiederò di darmi la vostra assoluzione.” Rara avis, è il caso di affermarlo, questa silloge di rime libertine. Dal punto di vista formale la si può avvicinare ai classici rivisitati in un linguaggio moderno. Dal punto di vista contenutistico mi fa ricordare i versi finali di una canzone di Georges Brassens, tradotta in italiano da Fabrizio De Andrè e nel nostro dialetto da Nanni Svampa, a proposito di una prostituta che sale in paradiso: qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto; dumà i bigott disen de no, la ghe va minga giò.
Enea Biumi
L’autrice utilizza in pratica quattro forme di metrica. La più usata è quella che insiste su quartine di endecasillabi. Troviamo poi il settenario ed il senario doppio. E infine il settenario semplice. Le rime sono in prevalenza o baciate o alternate e si possono considerare ad libitum, a discrezione della poetessa. Una vivisezione così certosina dei versi non vuol essere solo mera retorica. La forma infatti ha il preciso compito di alleggerire lo scritto rendendo maggiormente fruibile il contenuto. Oltretutto il modus operandi disvela una capacità poetica non trascurabile ed una facilità di scrittura non indifferente. Le quali cose, congiunte, fanno di Daria Lapi una scrittrice da non sottovalutare. Detto ciò vediamo dove ci conduce l’aggettivo “libertine”. E bisogna subito notare come la letteratura occidentale fin dalle origini abbia sempre avuto in sé una pagina a parte riguardante il microcosmo del sesso e dell’erotismo, vissuti naturalmente secondo le epoche e le filosofie imperanti. Se si pensa poi a quello straordinario libro della Bibbia che è il “Cantico dei Cantici” non possiamo sicuramente cestinare o relegare ad opera secondaria uno scritto che parla dell’amore carnale hic et nunc. Non sto a citare la cultura greca o romana, sicuramente in antitesi a quella cristiana, ma basta ricordare quei liberi pensatori, nati proprio nel seno della civiltà cattolica, che hanno contribuito a restituire all’uomo ciò che, per motivi qui non sindacabili, l’uomo aveva perso. Mi riferisco a un Cecco Angiolieri, a un Ciullo d’Alcamo, a Boccaccio, a Pietro Aretino, a Ruzzante, al veneziano Baffo, al nostro Carlo Porta, tanto per rimanere nell’ambito italiano: l’elenco è sicuramente incompleto e non esaustivo. Se però ci fermiamo alla superficie del termine libertine, sia pur con tutti i riferimenti sopra citati, non riusciremmo a comprendere fino in fondo il pregio di queste liriche che Daria Lapi ci propone. In effetti, le sue poesie sono un gioioso e spensierato percorso dell’eros in tutte le sue implicazioni e applicazioni. La sua franchezza e schiettezza ci allontanano da una non ben celata pruderie che, senza volere, potrebbe ancora abitare negli anfratti della nostra anima. La poetessa strizza l’occhio al lettore non tanto per trascinarlo a sé in una specie di captatio benevolentiae, visto che l’argomento è di quelli, anche al giorno d’oggi, tabù, quanto per ricreare il gioco dell’amore sensuale in tutte le sue sfumature. Ecco allora che nascono l’uccellulare, il lamento dell’onanista, la pillola blu, la cintura di castità e tante altre situazioni che descrivono in una specie di girotondo della ruota della fortuna l’abbandono e i desiderata del piacere. Ma non c’è solo spensieratezza e voglia di vivere – che sarebbe già tanto fra i poeti, poiché i componimenti dei più si inalberano sulle maggiori, insanabili e tristi malinconie, votanti al suicidio – bensì uno sguardo attento ai falsi moralismi, alle menzogne pubbliche che in privato diventano vizi, alla condanna di ciò che non è genuino e sincero: come l’eros, appunto.Citerò solo alcuni versi esemplari per non privare il lettore della bellezza e spontaneità di tutta la raccolta. Sentite qua: E’ meglio certo la masturbazione/ piuttosto che l’usanza di quei frati/ che, nel segreto della confessione, / fanno la festa ai giovani sbarbati. Oppure questi altri: Al giorno d’oggi capita sovente, / che qualcheduno non di primo pelo/ si creda ancora d’essere attraente/ anche se invero è tutto uno sfacelo. Od anche questa quartina tratta da “La cintura di castità”, e finisco: “Fatemi obliare tosto, Magnifica Eminenza,/ d’avere lungamente patito l’astinenza/ e dopo questo sfogo, con grande devozione/ vi chiederò di darmi la vostra assoluzione.” Rara avis, è il caso di affermarlo, questa silloge di rime libertine. Dal punto di vista formale la si può avvicinare ai classici rivisitati in un linguaggio moderno. Dal punto di vista contenutistico mi fa ricordare i versi finali di una canzone di Georges Brassens, tradotta in italiano da Fabrizio De Andrè e nel nostro dialetto da Nanni Svampa, a proposito di una prostituta che sale in paradiso: qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto; dumà i bigott disen de no, la ghe va minga giò.
Enea Biumi
mercoledì 5 febbraio 2020
Paola Pansa - Il destino, il sogno. Genesi Editrice, Torino, 2019
La realtà poetica ha numerose sfaccettature.
Didascalicamente si può decriptare attraverso l’analisi, da tempo codificata,
in significato e significante. Ma si farebbe torto al lavoro di Paola Pansa se
si usasse solo questo criterio scolastico per esaminare la sua lirica. Parlo di
lirica al singolare perché la sua è una poesia che parte da un centro vitale,
quale può essere il mondo, e si incanala in tanti rivoli che hanno per oggetto
la scrittura e per soggetto l’uomo. O viceversa. Non ci si lasci ingannare
dall’io sempre insistentemente presente. Si tratta di un soggettivismo che si
irradia nel lettore e che al tempo stesso riflette come in uno specchio le
emozioni del momento. Insomma, “tutto è
finzione/ ogni cosa/ può essere altrove.” Che significa sostanzialmente
tradotto in prosa: attento lettore, non lasciarti ingannare dalle parole, vai
oltre, guarda più a fondo della mia scrittura, solo così potrai trovare un
segno o il segno della fruibilità dei miei versi. “E faccio dello scrivere/ il proiettile che esplode/ il grilletto
premuto a occhi chiusi/ che va dritto a colpire/ pagine e pagine di silenzio”. A
volte sembra che la Poetessa giochi e scherzi con noi. Ci introduce in un
labirinto dove ad ogni angolo sta scritto “uscita”
ma l’uscita non la vedi. Anzi. Ad
ogni uscita sta un’altra uscita e tu giri in continuazione, richiamato
anche da una scrittura ponderatamente ironica, a tratti parossistica, a tratti
icastica in cui il realismo si sovrappone e si coniuga al soggettivismo
estremo, dissacrante. “Ma sedendo e
mirando/ inconclusi silenzi/ il pensiero si posa/ su un nulla/ che non conosce
confini”. Al di là della citazione leopardiana, subito graffiata e forse
punita da quel foscoliano nulla infinito ed eterno, il lettore è colto da una
specie di girotondo adulterino che lo fa trastullare, come fosse un adolescente
disperso in rivoli di pensieri sul futuro, in una lotta dell’oggi mai spenta e
mai sopita. Siamo polarizzati in una combine magica e accattivante, rinchiusi
in un sogno che anticipa e posticipa. “La
mia rivoluzione/ non è un mulino a vento/ l’unica cosa che aspetto/ è che il
momento/ diventi maturo”. E a proposito del don Chisciotte, implicito
nell’ultima citazione, la complicità con il lettore diventa trasparente reità: “mi credo un nobile cavaliere/ do alla
realtà le maschere che/ più si addicono alle mie assurde/ e strampalate
imprese”. Quando ero piccolo amavo andare al Luna Park, salire su di un
veicolo autotrasportante ed entrare in un tunnel dove incontravo
successivamente spettri, scheletri, streghe, pirati e subdoli visi da forca,
venendone da una parte attratto e dall’altra respinto. Ne avevo timore, certo.
Ma ne ero pure calamitato. Mi pareva di vivere in un incubo, ma ero consapevole
della falsità di quel momento e di quegli individui indecenti, lontani dal mio
vero ambito quotidiano. Ecco: la poesia di Paola Pansa ti veicola in questo
mondo che oggi si direbbe virtuale perché apparente, dove però nulla sembra essere
vero. Sembra. Perché i dati della realtà appaiono falsi, scorretti,
irrimediabilmente insinceri. Eppure non è così. Come “il fumo della sigaretta/ crea suggestioni/ sul foglio/ che portano
ovunque”, così la scrittura per la Poetessa diventa la scusa per
confessioni e ammissioni. Non esiste altra possibilità per vivere se non nella
poesia e con la poesia. In un gioco di continui echi e rimandi i versi di Paola
Pansa hanno la sorprendente leggerezza di una volontà costantemente alla
ricerca di qualche misterioso segreto. Infatti “C’è un sempre/ che non trova posto nel tempo/ e vaga nella mente/
smarrito e solo/ come un avverbio/ che non ha frase pronta ad ospitarlo/ un
senso ignoto/ anche a se stesso/ un significato/ che tarda ad arrivare”.
Enea Biumi
Pasquale Balestriere, Assaggi critici, Genesi Editrice, Torino, 2018
Si riscontra in questa raccolta di Assaggi critici di Pasquale Balestriere una visione della
letteratura molteplice e variegata. Innanzitutto ho notato una conoscenza
profonda e puntuale dell’universo oraziano descritto con dovizia di
particolari, insistito su aspetti forse meno noti ma non privi di interesse per
un autore che al di là dei ricordi scolastici per molti, me compreso, non
rientra probabilmente nelle letture quotidiane. Per misurare le qualità della
sua introspezione critica basta menzionare i vari capitoletti in cui è
suddiviso il suo trattato su Orazio: l’uomo
e lo scrittore, il tema della femminilità, la filosofia oraziana, la religione
e il motivo simposiaco-conviviale. Ne esce un ritratto a tutto tondo di un
intellettuale romano del primo secolo a.c., che accomuna doti e difetti dal
punto di vista umano, ma che si eleva considerevolmente come scrittore e poeta.
Interessante risulta essere la disanima che l’Autore fa delle opere oraziane
intravvedendo e ricercando in esse i punti salienti da trascrivere e far
conoscere al lettore. Così vediamo un Orazio umanizzato a tal punto che ci
sembra quasi di averlo presente fisicamente, di osservarlo “basso, bruno, tendente alla pinguedine,
instabile, iracondo”, di vederlo combattere per farsi largo tra
l’intellighenzia del tempo, lui che era nato da un liberto e che per un
ventennio non era certo vissuto nell’abbondanza. Poi la svolta nel 38 a.c. quando
viene ammesso nel circolo di Mecenate. Ma una svolta che non inficia il suo
equilibrio, anzi lo rafforza. Gli stessi suoi amori risultano essere pacati,
sereni, trattati quasi superficialmente: si
direbbe che Orazio non abbia mai amato veramente. Ciò nonostante il
Venosino si circonderà di compagnie femminili, almeno così appare dai suoi
versi, per tutta la vita. Non mi dilungherò oltre per non togliere il gusto di
una lettura affascinante e accattivante, concretamente viva e densa, facile da
scorrere nonostante l’altezza e la profondità della materia e dell’uomo. Allo
stesso modo si svolgono le ricerche su altri autori un po’ più vicini a noi nel
tempo, quali Dino Campana, Giorgio Barberi Squarotti, Paolo Ruffilli, Pasquale
Festa Campanile, ed altri non meno importanti e avvincenti. Da ultimi, ma non
meno considerevoli, due saggi: uno sull’accento
nella traslitterazione del greco antico ed uno sulla poesia, che ci fanno comprendere, se ce ne fosse bisogno, di
essere di fronte ad uno studioso che non si limita a trascrivere o riferire
piccole porzioni di letteratura, ma ne compendia e ne approfondisce con rigore
e sensibilità tutta una gamma che va dal classico al contemporaneo, dalla
poesia alla prosa, dalla ortoepia alla riflessione sulle varie poetiche e sulla
loro validità in ambito sociale e moderno.