mercoledì 31 luglio 2024

Raffaela Fazio “Gli spostamenti del desiderio” (Moretti & Vitali Editori, 2023)

 


            


 

L’attesa è proposta all’ineludibile fonte che si abbevera di desiderio. Un desiderio mutante, multiplo, estenuante, assiso alla richiesta riposta verso l’appartenenza (qualcuno avrebbe detto) alla figura dell’angelo, della concessione altra che già precede la domanda. Come muta allora la condizione che non è solo movimento nello spazio ma anche, e in particolar modo, mutamento di stato, travaso di forma contenente una materia solcata da interpretare. E’ l’edito di poesia “Gli spostamenti del desiderio”. L’autrice, Raffaela Fazio, tenta forse di avvicinare due punti lontani, due stati di coscienza, due vissuti, attraverso la calibratura di ciò che diciamo forza desiderante che in quanto tale è energia creativa, volontà progettuale. Già dai versi brevi, delicati, misurati emerge una sensibilità vibrante di tipo spirituale, all’interno di una proposta che spontaneamente collega impulsi sapienziali propri di una tendenza multiculturale in dialogo mai sincretista ma più esposta alla comprensione della realtà multiforme come mosaico policromo. E’ diretto e limpido lo sguardo di Raffaela Fazio; la sua architettura testuale è volutamente lineare, votata ad una espressività dicibile nella conduzione del sentire in natura e luce: “luce che filtra/ come sogno ripetuto// pare si spezzi/ e invece si rivela”. C’è speranza anche nel dolore, nel lutto, tema della prima sezione, perché la parola insorge, chiede un riscatto dall’abisso, dalla perdita terrena, propone il racconto che accompagna quale fosse uno stato nomade (così come accenna per certi aspetti la citazione da Proust). Ma il dono si concentra in una musicalità rapita che sembra coinvolgere l’armonia di una voce in lettura o in preghiera. La temporalità si fa metro di attenzione, quella prudente ma sincera che percepisce la valenza ontologica dei dettagli, dei frammenti rivestiti di una identità che li fa segnali nell’acutizzazione esperita dei travagli. La misura docile è radicata nella ritmica prestanza di una metrica che, in punti reiterati, si distingue per reazione in una visibilità di riscatto morale. Non più lo storico aut-aut di kierkegaardiana memoria, ma una sintesi raggiunta di estetico ed etico che apre al religioso nella sua più ampia accezione. La bontà creaturale emerge in constatazione diretta: “Il corpo che si tende/ la nebbia che trattiene/ la nebbia che nasconde/ il corpo che le appartiene/ hanno nel sogno/ la stessa natura”; quale processo che l’autrice definisce in alcune poesie anamorfico, la messa in evidenza del soggetto originale fa sì che lo sia in modo tale da essere riconoscibile solo se osservato secondo certe condizioni, da un preciso punto di vista. In fondo anche la complessità dell’esperienza anagogica nella teologia dogmatica ci permette il punto di fuga, il guardare come in uno specchio il nostro essere guardati da Dio. Molti poi sono i riferimenti a nomi di particolare spessore a cui l’autrice guarda: Saramago, Dostoevskij, Yourcenar, Carver, ma anche agganci al mondo antico, alla cultura greco-latina; poi vari gli accenni all’arte cinematografica, al suo rappresentare l’immaginario che si solidifica, diviene realtà. “Forse è così che impara la misura/ chi ascolta/ dopo anni di clausura/ il rompersi inatteso dei portali”, come le prospettive di discernimento acutizzano la capacità di ricezione e la proiettano verso stadi di consapevolezza struggente, emozionale, non passiva rispetto alla caducità apparente degli esiti: “Guarda bene./ In ciascuno, erbe sane e veleni./ Ma è la dose/ che dà forma al tutto./ E’ il suo impatto/ il suo costo...”. Si identifica anche un’attenzione successiva mossa dal senso della vista, in una sorta di retina inversa che detiene, in ulteriore sfumatura, quella composizione dei temi colti già dal significativo esordio che fu di Valerio Magrelli “Ora serrata retinae”, percorso esemplare nell’affrontare il tema della messa a fuoco, della difficoltà insita nel tentativo di raggiungere una conoscenza nitida. Vibrano così pensieri e tempi, intermittenze e distrazioni, respiri ed echi “della vita/ questa vita/ che pretende una traccia/ e si scorda/ di lasciare la presa// fino a che/ sarà infine l’attesa/ non risolta”. Nell’ultima sezione del libro, Raffaela Fazio si concentra su figure che nella storia hanno espresso con il loro esempio la voce che condanna ogni discriminazione, la necessità di trasformarsi in operatori di pace, la vicinanza agli ultimi, la tenace speranza di poter alleviare anche solo la più piccola sofferenza incontrata in chi ci è prossimo.

         Andrea Rompianesi

 

 

 

 


domenica 28 luglio 2024

Eimear McBride “Strange Hotel” (La nave di Teseo, 2024)

 


                        


 “Porta. Serratura opaca graffiata. Infila. Gira la chiave. Non riesce. La scuote. Si appoggia. Resta ferma. Adesso riprova. Prova ancora, ancora. E, a un altro tentativo, ecco. E’ dentro”. Così la narrativa folgorante espressa dalla scrittrice irlandese Eimear McBride nel suo “Strange Hotel”, tradotto in italiano da Tiziana Lo Porto. La figura femminile raffigurata in una stanza d’albergo a concentrare pensieri dell’immediato filtrare sensazioni di un passato prossimo e remoto. Le anonime stanze d’hotel di varie città diventano un unico claustrofobico spazio d’interno dove percepire le fragranze angoscianti della condizione umana allo scorrere ineluttabile del tempo, nella reiterata aspettativa che domanda attraverso gli oggetti definibili nei ruoli e nelle differenze concesse della presa d’atto. Ricordi, amori passati e fugaci, insofferenze, malesseri vitali compongono la partitura di una pagina in cui lo stile letterario emerge finalmente in una realizzazione testuale oggi davvero rara. L’interpunzione grafica, qui concentrata principalmente sull’uso del punto fermo, imposta un evento scritturale a flusso di frasi brevi concatenate che incidono la conduzione di un ritmo assertivo finalizzato a determinare una procedura a scatti continui. Eimear McBride sembra aver assorbito alcune tipologie espressive di narrativa d’interni; pensiamo, ad esempio, ad un esito particolarissimo come “La stanza da bagno” di Jean- Philippe Toussaint. Le cose assumono il potere di riflettere, in quanto oggetti della nostra osservazione, interpretazioni visitate nella molteplicità degli spunti e delle sensazioni. Le vicinanze umane comportano dissidi, alternano attrazioni e fughe, compositi sillabari di un lessico oggettuale: “Le tendine marroni sono tirate su. Le altre sono spalancate. La maglietta di ieri in qualche modo si è ristretta. Suoni di sesso dappertutto”. E poi si colgono rimpianti e disprezzo, indugi e rovelli, desideri e domande, come singhiozzi muti investigano insoliti protocolli, così transizioni avvertite conducono a evocazioni di giovinezza trascorsa. “Che piacere essere un corpo solitario che si fa strada nel tempo. Se solo fosse vero. Ma quale persona è in possesso di tutte le risposte che desidera?” si chiede l’autrice. Certo l’amore perduto, nelle sue forme di seduzione concreta ma anche onirica, galleggia nella continua, ossessiva composizione dei tasselli comparabili. La protagonista vive l’incontro occasionale come una sintesi di tensioni irrisolte aperte alla trasformazione in un’opzione accolta: “Poi all’estremo nord, in alto, un gabbiano passa di sbieco, grigio-bianco nel grigio che sbianca nella luce. Un altro. Un altro. E poi un altro... Lei guarda mentre una corrente li guida e li porta più lontano dove, suppone, c’è il mare”. L’angolazione della visuale conferisce al passo la complessità del gestire razionalmente le ossessioni, i dolori, dialogando con la propria coscienza e ponendosi nella ricezione levigata del confronto con la precarietà esistenziale. McBride insinua la determinazione del voluto o negato, del permettersi l’episodio dell’incontro intimo quando l’esclusione avvalora la sintassi del dicibile. Pulsioni e note compresse nell’autoanalisi destabilizzante la prevedibilità dei percorsi, inerente all’alternativa delle trasgressioni. Il clima d’incompiutezza tracima e deborda evocando amori perduti e ricreando l’aroma erotico delle stanze d’albergo. Qui, però, l’autrice impegna la parola in una avventura interiore dove il flusso della coscienza ridisegna il possibile incrociarsi delle varianti e ci porta nella direzione del rigore dialettico sulla prospettiva ad invito: “Affronta la luce tetra del lampione ma, senza volergliene, vai dov’era l’ultima volta. A quel punto guarda e vedrai il sole ammiccare a se stesso verso est”, ben sapendo dalla voce narrante che il passato non è mai stato davvero un’opzione e sentendosi come l’ultima di tanti ricordi.

                Andrea Rompianesi


mercoledì 24 luglio 2024

Silvia Comoglio “Margit” (Book Editore,2024)

 



  “Margit e un prato con fiori e farfalle dipinto a Terezìn” è lo struggente esito poetico di Silvia Comoglio, voce particolarmente significativa della sua generazione, che prende spunto da un disegno di Margit Koretzovà, fanciulla ebrea, realizzato nel campo di concentramento di Terezìn e attualmente conservato, insieme ad altri, presso il Museo Ebraico di Praga. Le poesie sono proposte nella versione italiana e in traduzione inglese per opera di Giorgio Mobili. I versi brevi, empatici, di Silvia Comoglio tendono a porsi quali voci, agnizioni a traccia solcante il molto spazio della pagina, il flusso nel limpido passaggio che si configura in segno e nota con apporto di corsivo e parentesi, nel tratto grafico di voce indicante dizione: “- sia, il vento, un serto-/ a filo di cuore/ (...soffio a cui tenerti/ traslucido di cielo,/ per esserti più alta/ del lume del tuo corpo...”. Tutto il gorgo abissale della sofferenza e del tragico epilogo, incide quel tratteggio lasciato ai margini, facendo emergere al centro la discorsività dei dati naturali, comunque insistentemente curati dall’osservazione aurorale ma già densa, acuta, profonda nella stessa leggerezza apparente dei toni, dei nitori, umori, terra, rose, cuori ancora proponibili, nonostante tutto. L’iterazione composta detiene il privilegio della rapida fluidità ritmica dell’essenziale udibile ombra che sovrasta il piccolo moto che si fa urlo intimo: “- ma, chi lo seda allora il cuore-/ dove tu mi gridi, questa, notte sacra?”; così la fronte è margine e ferita, disciolto avvento nella drammaticità sospesa e raggelata per la definizione di ciò che in appunto è altro, è dimora di una sospensione quieta, quasi fosse possibile il diramare assolto dei tremori, l’occasione rivedibile nell’ascolto notturno, nella predominanza sorda dell’inascoltato che orienta lo sguardo verso il punto di fuga, così le mani “poggiano a respiro/ dove è incedere di pieno/ mondo a precipizio”. Silvia Comoglio fa irrompere magistralmente l’alba in un contesto dove parrebbe assente ogni prospettiva riconoscibile; regala con versi incisivi e calibrati la visibilità dell’altrove. Nel disegno iniziale, fonte d’ispirazione, e nel testo autoriale si moltiplicano le ali, le risonanze, i possibili colori che vorrebbero ridisegnare un destino, il volto raggiunto dell’angelo. Una testimonianza, questa, che accende le lettere stesse e conduce a collegare Memoria e Vita, Vita e Eticità al Tempo, affinché il Tempo sia Umanità.

                                                 Andrea Rompianesi


sabato 20 luglio 2024

Massimo Morasso “Frammenti di nobili cose” (Passigli Editore, 2023)

 





Curiosa l’affermazione nel risvolto di copertina di questo libro di Massimo Morasso “Frammenti di nobili cose” dove si dice che si potrebbe parlare di poesia metafisica se non fosse per la fervida adesione a una realtà insieme materiale e spirituale che caratterizza il dettato dell’autore. Ma la metafisica, nel suo senso più proprio, come riflessione sull’essere delle cose, e anche delle cose ultime, è propriamente un orizzonte che comprende gli aspetti più concreti del reale e, nello stesso tempo, l’ente più alto e trascendente, “oggetto” della teologia razionale. Qui, nello specifico titolo di Morasso, sembra aprirsi una inquietudine vissuta però con la capacità di farsi riflessione, attesa del sentire, possibilità di ritrovati conforti che apparivano sbiaditi... “Nel mio messaggio, l’anima si affina,/ cerca le vie per crescere, si tempra/ sfociando nell’immagine sorgiva/ di un puro, interminabile fluire” scrive il poeta. Spiritualità è combinazione di elementi che vivono interpretazioni nuove, feconde, articolate in lucori serali dipinti con parole evocanti i suoni delle metafore. E’ incessante la domanda che conduce attraverso i passi, le apparenze, le trappole, per riemergere da continenze bellicose che a volte cedono i confini ed eruttano in un privato opporsi tra le guglie della codificazione; oltre il verticale apporto quando qualcosa si evidenzia nella sua pluralità: “In principio fu la Parola/ e, per sua grazia, i mondi generati:/ la realtà.// Ma il tempo passa, e tutto si dimentica.” Massimo Morasso ama i silenzi, anzi “la duplice natura del silenzio” perché l’abitare implica opzioni che responsabilizzano nel quotidiano la nostra libertà relativa. Allora diventa possibile cogliere quel niente di speciale che però l’autore vede come “il bene di vivere”, l’incauto assolvere la trepidazione di una natura contestuale che apporta tempi e moti, riposi e orditi, mestieri e passaggi, rimbalzi e cadute, sentimenti e distanze. Poi la constatazione di una evidenza: “C’è in questa materia/ che geme e stride/ un vuoto un’attesa/ un dipendere da Dio”; così è il ritrovare i punti del tempo da collegare restituiti agli spasmi, ai giochi di luce, ai venti, ai pensieri evoluti che tratteggiano nostalgie assorte. A volte il passo poetico sembra quasi trovare gradini d’inciampo, interruzioni di flusso con iati irregolari infissi in una tramatura divelta e feriale. “Idee tempo e artificio/ e il paesaggio è un paese di pinnacoli”, quasi forme che costringono a soste e variazioni direzionali dove subentra l’alienazione: “I social. L’a vanvera si parla/ e rotola sull’oggi, e gonfia il vuoto dello smisurato/ desiderio d’esserci, di dire”. Il libro di Massimo Morasso si conclude con un omaggio a Caproni e con il poemetto “Spine”, scritto in occasione di una mostra dell’artista Roberto Pietrosanti nella quale il poeta vede “Risolta in cosa da un cannello di fuoco,/ questa lastra d’ottone, questa lastra-bozzato/ scavata a forza, abrasa, violentata”. Massimo Morasso nel suo testo ribadisce così la convinzione “che la bellezza del cammino è nel cammino”.

Andrea Rompianesi

martedì 16 luglio 2024

Alberto Mori “Posture” (Fara Editore, 2024)

 

Un fotogramma in copertina tratto da un film di Michelangelo Antonioni inaugura la scelta delle “Posture”, titolo di poesia di Alberto Mori. Il libro si suddivide in tre parti: “Azione”, “Natura e spazio”, “Set”. La disposizione è quella dei fotogrammi che s’insediano sulla pagina a dirsi segni, tratti, posizioni definibili all’interno di uno schema quasi geometrico a contatto con la luce, la sua rilevanza incauta che, a volte, va schermata per poter mettere a fuoco una visibilità sostenibile nei modi e nei tempi della ricezione: “L’occhio risale/ al messaggio appena chiarito/ Con avvertenza d’essere informato”. I dati corporei evidenziano il tracciato leggibile attraverso la riconoscibile appartenenza ad una visibilità funzionale dove emergono dita, polsi, capelli, membra esposte all’azione, appunto, delle molteplicità; delle diversità multiple, dei conoscibili gesti rielaborati in scatti fotografici mossi alla rivedibilità dell’osservazione autoriale, “Saliscendi delle ginocchia/ Spinta per ritmo motorio/ I fiati allungano/ Accorciano distanze/ Nello sforzo la strada scrive”. E’ una danza di movimenti ritratta con la lucidità della posizione trasformata in verso, struttura essenziale riprodotta nella tracciabilità formale. E’ una evidenza della visibilità che si proietta in uno spazio decifrato nella sua determinazione di contenitore, quale deposito di effetti tracciati nella solidità dei particolari inclusi in una riconoscibilità di episodi minimali che hanno come sfondo una proiezione naturale: “Poi l’orizzonte/ denota gesti solari/ dissemina luoghi/ nell’anima del cielo”. I versi sempre brevi, essenziali, materici, compongono una tessitura decifrabile nell’aroma quotidiano del dato episodico, capace di evocare categorie primarie; sapendo, ad esempio, che “il passato” a volte può essere “un viale rettilineo e vuoto”. Si coglie un ritorno di echi, una ripetizione di voci, emissioni diffuse ed energie connesse, sussulti vibrati e conduzioni indicate. Poi Alberto Mori va ad allestire una sorta di set cinematografico nel quale le figure assumono posture rivelanti movimenti, azioni o soste interpretabili come segnali che veicolano stati d’animo, storie e possibilità inespresse, davvero “La svolta della vita avvenuta ”All’intersezione angolare”; come una “Ripresa in campo lunghissimo” per fissare sulla pagina la contingenza dei fatti e trasformarla in destino. Alberto Mori qui si conferma nuovamente attento osservatore e interprete poetico di tutti quei rapporti tra ciò che diciamo “io” e ciò che diciamo “mondo”.

                                                                                                                                              Andrea Rompianesi

 


mercoledì 10 luglio 2024

Imperia Tognacci, Diario di una samaritana, Genesi Editrice, Torino, 2024

 

È necessaria una buona dose di autocontrollo del proprio dolore per esporre al pubblico una vicenda delicata e complicata come quella narrata da Imperia Tognacci. Si tratta di un percorso attraverso la malattia del marito, che lo condurrà alla morte, vissuto con amore e abnegazione in una dimensione e comprensione dell’altro fino all’estremo sacrificio di sé. Un titolo più consono non poteva esserci. È il samaritano colui che, nella parabola di Cristo, si prende cura di un ferito, lo assiste e lo aiuta. Allo stesso modo  la moglie prende sulle proprie spalle la malattia del marito e, ben sapendo che non ci sarà salvezza, farà di tutto per non impensierire lo sposo il quale continuerà a credere nella guarigione. Tradotto in questi minimi termini la vicenda potrebbe risultare scontata, come scontato può essere l’amore coniugale. Ma ciò che ci narra Imperia Tognacci va ben al di là della pura e semplice narrazione. Non per nulla l’autrice ha la statura e la bravura di una poetessa profonda e altamente riflessiva. Così la storia si amplia e si contorna di dramma e di passione condotti su un filo teso tra la vita e la morte, tra il pianto e il sorriso, tra la speranza e lo sconforto. Molto spesso, e in forma sottilmente negativa, si sente parlare di crocerossina. Ecco: la crocerossina  è quel tipo di donna che senza ottenere nulla in cambio opera tra coloro che più ne hanno necessità. In questo caso la crocerossina-samaritana-moglie diventa il simbolo di una dedizione assoluta: perinde ac cadaver, come direbbero i gesuiti. Giustamente il curatore dell’opera, nonché critico letterario sensibilissimo, Sandro Gros-Pietro, confessa la sua commozione dinanzi a uno scritto talmente intenso, intimo e accurato che trascina il lettore verso dimensioni del dolore inesplorate. Quasi fosse un’analisi tecnica dettagliata, lo scritto di Imperia Tognacci ci conduce nell’intimo delle sue sensazioni che immediatamente diventano nostre, con una sensibilità veramente straordinaria accudisce situazioni drammatiche trasformandole in momenti topici del dolore umano. L’indiscussa religiosità della scrittrice fa sì che le sue considerazioni diventino di conforto e di fiducia: in fondo, come si legge nei Vangeli, la vita non è di questo mondo. L’eternità, nascosta dalla morte, diventa allora il punto di arrivo, cancella la possibile disperazione e l’angoscia di un futuro amaro e crudele, si avvia verso un percorso di luce. Tanti sono i segni e i simboli di fede presenti in quest’opera e tutti quanti procedono verso l’unico risultato possibile: la morte non sconfigge la vita, ma la riporta nell’alveo primigenio con la coscienza che non esiste nient’altro di più grande, misterioso e assoluto di Dio, che trionfa su tutto: sull’amore, sulla debolezza umana, sul dolore, sul tempo. La speranza, nonché la consapevolezza, nasce da qui. Dal fatto che alla fine la sposa ritroverà lo sposo e l’incontro non potrà che segnarne la felicità per entrambi. “Manifesto la mia individualità in ciò che la vita mi riserva e medito sul mistero della vita e della morte e le accetto entrambe con il cuore teso alla speranza. E il vento, che già porta il sentore di una nuova primavera, mentre diffonde nell’aria certezza di risvegli, di fioriture, di nuova vita, mi sfiora il volto e sembra dirmi che il desiderio, che da tempo il mio cuore accarezza, si realizzerà. Un giorno non lontano attuerò il sogno incompiuto di mio marito. Mi imbarcherò su di un aereo diretto in Argentina. Giungerò, anche per lui che non è più, fino alle cascate di Iguazù.  Sì, diventerà realtà il mio sogno. E nell’infinito dell’acqua scrosciante, del verde della foresta e dei colori dell’arcobaleno, tu sarai con me.” Termina così il racconto: nell’intima unione spirituale di due cuori fatti l’uno per l’altra, inseparabili, nonostante tutto, perché l’amore supera la barriera della morte e trionfa. Una lezione di fede, questa, che Imperia Tognacci ci offre come cartina di tornasole di un tempo ammalato, esso sì, di individualismo e indifferenza: malattie ben peggiori, sembra suggerire la poetessa, di quel male corporeo assoluto che si chiama tumore.

 Enea Biumi

 


martedì 9 luglio 2024

Marco Plebani, DECIMO DAN, ed. La Gru, Latina, 2022

 



Ho trovato Decimo Dan come se fosse una panoramica a tutto tondo su che cosa sia il senso della vita, i suoi perché, i suoi intoppi, le sue piacevolezze, le sue incognite. Da una parte la felicità, anche di un solo momento, dall’altra la tristezza ed il dolore, cui si accompagna, come ombra benevola, un’ironia acuta che dà all’insieme il giusto apprezzamento. “Quotidianamente abortisco amore, / io sono un poeta / e dico la verità / sotto forma d’enigma.” Ecco allora che si disvela il valore quotidiano del vivere, anche in contrapposizione ai propri desideri e alle proprie intenzioni. “Chi mi risveglierà? / Chi mi risveglierà? /  Chi mi risveglierà/ da questo torpore ipno-paranoideo?”. È un cammino che si esprime attraverso la dedizione della parola e l’espressività dell’immagine che ne sorte. L’immediata sensazione è di trovarsi di fronte ad un intreccio di prospettive che sorprendono: “Voglio un verso senza pause e scuse”. Infatti le espressioni usate sono vive, genuine, forti, tentano di esprimersi come se uscissero dal fiume della dimenticanza, il Lete,  per rivendicare l’ἀλήθεια, la verità dei Greci. “Il naturale tramutar del tutto / porterà via volendo / un’umanità disumanizzata / da pornografia e videopoker.” Emerge allora la possibilità di cogliere il proprio limite nei segni-segnali che decifrano l’io in rapporto al mondo in una scansione che segna il desiderio di comprensione: di sé innanzitutto, e di chi ci circonda (discepoli, politici, città).


Enea Biumi

 


lunedì 1 luglio 2024

Marco Giovenale “Cose chiuse fuori” (Nino Aragno Editore, 2023)



Il flusso allitterante del titolo espone quelle cose prima racchiuse e ora esternate, irradiate nella prospettiva di una lacerazione che responsabilizza i frammenti, granuli sovraesposti attraverso la peculiare abitazione della pagina per processo di cut up come detto da Laura Pugno nella nota in quarta di copertina. Scriviamo dell’opera in versi “Cose chiuse fuori” di Marco Giovenale. Lavoro che da subito appare felicemente innovativo e originale nel processo di costruzione linguistica, attraverso spazi, parentesi, inquadrature, interruzioni, attivazioni lessicali impreviste e riconducibili a tracciati alternativi. “Prima di uscire con due gesti/ misurati rimette in distrazione/ lo straccio azzurro del bagno o lago”, come un’anticipazione di segnale acustico che comporta balzi tra le pulsioni di una fisicità disegnata nelle e intorno alle cose. C’è, nell’altissimo esercizio stilistico di Giovenale, una considerazione versificata degli elementi assolti dal dovere di funzioni e proiettati in uno spazio di confronto e di concessa opzione. Come stagioni schermate e scaltre, così ipotesi di sosta dove l’allungo asimmetrico detiene la compattezza solida del cuneo. Il taglio nel verso allude e spesso non completa ma devia in modo da oltrepassare l’atteso per ampliare l’osservazione verso un ulteriore riquadro, esprimendo l’esigibile accorato procedere delle irregolarità temporali. La presa d’atto allontana ogni funzione consolatoria e vuole trattarci duramente in una accentuazione della visibilità drammatica quando implica proiezione: “Full. Pieno qui di/ storpi che convergono – a trovare il morto/ sul celeste, alle righe orizzontali”. Le pluralità linguistiche, gli spazi, i corsivi coordinano la mappatura di ciò che, anche se proiettato all’esterno, si fa solido e inamovibile. In un’epoca dove si moltiplicano come in fotocopia scritture poetiche prevedibili e scontate, qui incontriamo un raro esempio di effettiva ricerca testuale capace di costruire passi talmente robusti da meritare l’indicazione dell’intera strofa : “Fontane, tritoni manierati, photoshop:/ nel parco vuoto è fitto di panchine/ vuote, a segmenti triti, di vento – logico,/ mezzo offeso, fronte strada./ La virgo stacca/salda insieme i file/ brevi dei porno, morso morso,/ il lavorato, delle ore al buio/ nella casamatta. E’ del custode.”; un vero e proprio cimento quasi cinematografico a sequenze interrotte e riassorbite nella procedura inusuale delle diverse elaborazioni dello stesso dato grafico. Il tutto non esclude minima provocazione e solida ironia, cambi di paradigma, echi di una critica alla cifra anche sociale delle pluralità viste, a volte, attraverso un processo non tanto indirizzato verso una “prosa in prosa” tautologica ma affine ad una scomposizione fotografica. Intarsi di segnali appuntati ridisegnano le corrosive effusioni ad intreccio e intervallo, quasi Marco Giovenale si ponesse nella possibilità di accentuare la persistente occasione di segnalare il punto trascurato che riaffiora dalla volontà interpretante della presa d’atto di ciò che apparentemente si dichiara oggettivo, mentre “a un getto del sottosole/ che scrosta gli smerigli e fa l’avaro” sembra detergere l’attinenza come ciò che riesce a dislocare le parti previste in una interpunzione fissata a ruolo diffusivo. Gli spazi della guerra come le ritirate conduzioni ad una domestica intrusione, “ha fatto molto freddo sul lato/ esposto a nord, dall’usciolo nel porticato/ inglese”, emergono indicanti. La completa appropriazione  della fornita capacità strutturale porta l’autore ad una versificazione di solidità diveniente, compatta nel compimento anche fonetico: “Reso e perso tempo, il tempo/ del sangue nelle commessure e ore/ cobalto, cianotipo singolare/ di giara e ringhiera parigina...”. Le tubolari infittite e sotterranee esplicazioni si confrontano anche con i lutti, le visite oscillanti, le debolezze termiche, le attenzioni parziali, le possibili ammissioni di un parlare che, forse, conta. “Cose chiuse fuori” di Marco Giovenale è davvero esito poetico tra i più originali e riusciti di questi anni.

                                                                                          Andrea Rompianesi