giovedì 24 dicembre 2020

Adelio Fusé ”Le direzioni dell’attesa” (Manni Editori, 2020)

 

                                                        


“Fino a prova contraria, un profumo non può modificare un aspetto, tuttavia può dislocare altrove”. Luoghi, dunque, in stati che sono dell’animo come una temperatura misurabile per gradi, riflessi, estensioni icastiche. Seduzioni espresse da Adelio Fusé nel suo “Le direzioni dell’attesa”, testo di narrativa viandante che mette in scena, in una formula cara all’autore, due figure giovanili, una maschile e una femminile, Walter potenziale scrittore e Alina attrice imprevedibile, che mettono in atto una vasta danza di movimenti caratterizzati dal continuo perdersi e ritrovarsi nell’arco temporale di due decenni e in luoghi lontani tra loro che assumono i contorni della rivelazione. Chi scrive questa nota sente una particolare familiarità autoriale con la tematica specifica espressa dal rapporto con i luoghi, dal tema del viaggio come ricerca di significati. Nel passaggio dalla terza persona alla prima, l’overture è su Parigi; la Ville Lumière acconsente ad ospitare la passione fisica che coinvolge occasionalmente i due profili nella formula di un ancoraggio teso a restituire il credito mancato. E’ percepibile l’azione dell’autore che dispone sulla pagina la traccia per compensare l’estenuante disillusione degli attesi accadimenti che solo nella proiezione e nella trasfigurazione delle cose possono assimilare e poi filtrare le cedevoli attenuanti della corrosione artistica. Il vissuto è già troppo orientato se non si compie quel prodigio d’intervallo che rinomina le cose; quasi le salva in una rivisitazione esegetica, sempre ardua quando il proposito narrativo intende farsi conforto alla dinamica sofferta dei dissidi. Non a caso la prima parentesi parigina si conclude nella solitaria presenza del protagonista che assorbe la volontaria sparizione della figura femminile. L’assenza è tema di prova del processo estensivo adottato dalla prosa di Fusé che intende avvalersi di una misurazione costante, di modalità lineari nella conferma forse voluta di cenni allusivi alla prevedibilità compatibile con una tradizionale strategia espressiva. Nella scrittura dell’autore la ricerca dell’altro è sempre ricerca di sé, non nel senso solipsistico del termine ma nella necessità di evolvere verso una comprensione che solo se avviata può farsi diradamento atto a far percepire gli impulsi più profondi nella loro autenticità. L’effettiva incapacità di concretizzare la creazione letteraria porta Walter, il protagonista maschile, ad una sorta di deriva prossima al vagabondaggio, alla fuga; non un desiderio di distruggersi ma di perdersi, forse per poi essere ritrovato, in qualche modo. Così, dopo anni attraverso l’Europa, avviene infatti nella ricomparsa improvvisa di Alina. I nuovi incontri riaccendono una passione sostanzialmente anarchica e infantile; quasi colpi di scena di un teatro instabile, incapace di determinare fondamenta. E proprio così si avvicendano gli episodi della vita teatrale a Edimburgo o la nuova sosta di relazione a Lisbona. Sul piano stilistico, tanto è articolata, preziosa e complessa la poesia di Fusé quanto è assolutamente immediata la sua prosa, totalmente narrativa. Non sussiste però un’esigenza di trama propriamente detta; l’obiettivo è individuato nel complesso tentativo di far emergere dai luoghi effetti di riflessione. Ma qui sembra che i luoghi abbiano, in realtà, più una valenza da sfondo scenico. Forse tra le righe prevale il desiderio di quell’auspicato incontro mai del tutto raggiunto, il bisogno di una stabilità emotiva difficilmente attuabile. La necessità esplicativa porta quindi a moltiplicare il succedersi delle pagine, documentando l’estensione dicibile nel proposito comunicante che non esclude anche tratti di rimando a considerazioni civili. Lungo il percorso, la scrittura tende a concedersi momenti maggiormente focalizzati sulle distinzioni quando l’osservazione intercetta “le progressioni della luce”, metafora di aspettative, come avviene nel passaggio del protagonista per le città del Marocco. Il ripetuto perdersi dei personaggi compone lo spartito dei rimandi e le attese conseguenti premiate dal destino. Nuovi intermezzi si determinano anche in ulteriori luoghi d’Europa, come una parentesi di relazione con altra donna a Berlino, fino all’ultima tappa narrata che si distende nel sole della Grecia e incontra il mare dell’isola di Nìsyros. E lì, tra una luce intensa e grappoli di nuvole, fra un cielo simile a un vigneto e un accapigliarsi di onde, ricompare Alina e nuovamente si riavvia una danza di sguardi, di membra arrese ai venti. Adelio Fusé lascia scorrere la sua narrazione nella consapevolezza di quanto siano necessarie le molteplici direzioni di una qualunque intima attesa.

                                                                                      Andrea Rompianesi


giovedì 3 dicembre 2020

Giacomo Giannone, Come un romanzo, Genesi Editrice, Torino, € 12.00

 

“Come un romanzo” è una silloge di poesie che offre la visione di un viaggio da percorrere, o ripercorrere, attraverso luoghi, persone, accadimenti. Un reisebilder  a tutto tondo in cui traspare fin dall’inizio il senso della vita con i suoi misteri, intoppi, piacevolezze, felicità e tristezze; in cui le volontà di conoscenza e accoglienza di nuove esperienze rimuovono le difficoltà e le afflizioni che nel corso dell’esistenza possono intralciare il cammino. “Ancora un viaggio / ancora miraggi / tu vicina tu lontana / e il pensiero va / folle ossessivo, / mentre la mia voce / muta rimaneva”. Il segno del tempo e del viaggio viene dettato fin dalla lirica iniziale “Pula”, una specie di richiamo testamentale dove, affermando il valore del vivere quotidiano, con tutto ciò ovviamente che comporta, si passano in rassegna affetti, amori, incontri, problematiche e soddisfazioni.  “Prima di morire/ barolo nebbiolo / barbera // E la terra mi accoglierà / fragrante / festante // (…) Scorre il Bisagno/ di sangue / irrorato (…)”  Le liriche che seguono costituiscono un flashback attraversato a volte da desideri che si avverano, a volte da malinconiche considerazioni su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, a volte da scontri con un destino che sembra accanirsi proprio quando divieni più arrendevole e consapevole. “Povero Vittorio, mio Capitano, / perché il tuo letto ora è vuoto?” “Un giorno di Maggio / scivolò e in deliquio cadde / sulle piante di lavanda / in Provenza / tanto sole / tanti odori / tanti colori // (…) Non sa non dice / Lada non è più / la mia Lada”. Significativi sono i ritratti delle persone. Ribadisco persone, non personaggi che come spesso accade sono semplicemente delle maschere teatrali. Le persone infatti mantengono intatta la loro identità reale perché appartenenti allo stesso mondo del poeta e alla sua storia. “Gli occhi ha mirabolanti / occhi lucidi, verdi, cangianti / occhi con gocce di rugiada / sulle ciglia e voce fantasma / a ripetere (…)” Le medesime persone assumono una propria dimensione attraverso lo scambio con il paesaggio o i paesaggi che Giannone ha affrontato e interiorizzato. In tal modo gli ambienti diventano un tutt’uno con la vita, la storia si esprime nel rapporto con i luoghi visitati, amati, desiderati. Dai luoghi di sofferenza per eccellenza come il sanatorio di Villa Trezza presso Domegliara (Verona), dove potersi abbandonare in toto per guarire immergendosi nel sapore sereno della natura e degli uomini, ai luoghi di lavoro, come Bologna, in cui si rammenta l’esperienza da presidente d’esame, “Loquaci i colleghi / simpatici i ragazzi / ti guardano curiosi / sorridono / mi dico, spero che siano / tutti promossi”;  o ai luoghi di felicità matrimoniale dove prevalgono manifestazioni d’affetto “In un cinema di periferia / due mani si strinsero fortemente / come mai prima / e il timore di rompere l’incantesimo / mi vietò di sfiorarti con le labbra”. Insomma, il romanzo evocato dal titolo si traduce in una personale passerella che induce in profonde riflessioni sull’esistenza, propria ed altrui: momenti, infine, che non vanno sprecati ma affrontati con raziocinio e ardore, dove il sentimento fa da tramite ineludibile al film della vita stessa. “E’ stato un tempo lontano, sempre / in luoghi reconditi i ricordi scavano / per emergere furenti impietosi, / ritornano per rivedere un volto, / un ciocco di capelli carezzare, / per ascoltare una voce una parola, / ripercorrere una via un ponte, / un bacio implorare, non dimenticare”.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  Enea Biumi


giovedì 19 novembre 2020

Giorgio Bonacini “I segni e la polvere” (Arcipelago itaca Edizioni,2020)



Giorgio Bonacini, poeta di particolare qualità e consistenza stilistica, propone questo esito “I segni e la polvere” nella definizione di un sottotitolo che allude a percorsi ritmati in 52 poesie “distrattamente felici”. Qui, il verso breve, limpido, essenziale, nella connotazione visibile del sintagma, nel verticalismo strutturale, nella lieve fonetica dell’assonanza così come nell’osare della rima, imprime alla pagina una espressività icastica che rimanda ad una conseguente attenzione riflessiva. L’immediata sensazione è di trovarsi di fronte ad un intreccio di prospettive che sorprendono nell’accostamento rapido e profondo, denso nella sostanza effusiva contemplata nei particolari esigenti; ben sapendo che “non è la distanza/ né il muoversi/ troppo che assorbe/ nel ritmo/ un tamburo di guerra/ ma ninnoli e note/ nel canto alla terra”. Sono attese di risposte nelle peculiarità delle piccole incisioni, nelle ferite, nei prospetti cromatici accesi dagli accostamenti di una sinestesia armonica: “i tuoi mille profumi/ li vedo giallissimi”. Un verso breve che nella veloce successione scava ogni volta una profondità evocativa. E’ trovare traccia di un assenso interpretante il valore della mitezza quando essa sa osservare contemplando, interrogare esprimendo. L’elemento naturale si ritrova lungo il percorso degli accostamenti in un sorvegliare liricamente le genesi e le mutazioni, così come gli esiti, in una volontaria ermeneutica dei dati materici accuditi e rivisitati. Giorgio Bonacini sa dosare la limatura del verso con estrema perizia, lasciando volutamente un aere sospeso, dove lo spazio della pagina sembra costituire ampiezze ulteriori, margini di accenni non detti ma intuibili. E sono, a succedersi, segni di neve e chiarori, sabbie e pietraie, venti e smanie, ma anche impreviste farfalle incuranti, tracce di una gradazione di risorse a volte diafane, altre incise, che corrispondono a passi rivelanti la tersa complessità del sentire oltre l’immediato. L’autore coniuga l’attesa con l’intuizione accorta “in fumogeni d’arte/ o di lingua/ e in fittizia clausura/ nei versi aggrottati...” quasi un esperire il senso autentico di un’ estetica che si è sempre più rivelata una valutazione del sensibile, in un suo definibile equilibrio. Gli accostamenti dicibili avvicinano esperienze sensitive diverse e inattese che esortano a pensieri capaci di riformulare le visibilità in considerazioni curanti una genesi partecipativa, evolvente, scandita in atti che comportano processi analogici. E’ quasi un contenersi sulla pagina per innestare propositi di accostamenti che richiedono una esegesi al di là delle fratture e delle scomposizioni. Poi diventa necessario porsi una domanda sull’oltre e sul senso, che sorge spontanea, inalienabile, dopo la sintesi di un’osservazione durante la quale “si mastica l’acqua/ per giorni e per notti/ si guarda all’insù/ con la mente/ racchiusa in un cielo”. La rievocazione è subitanea affiorando alle foci dei calori avvertibili, nella impossibilità di determinare gli eventi, ove sono i ritmi spesso chiusi che disperdono i segnali riproducibili e le contaminazioni collocabili in aree altre rispetto alle nostre stesse percezioni. Le assonanze evocano ritmi allusivi e pertinenti dissolvenze, attraverso le funzioni caratterizzanti la dinamica della stessa attenzione. Emerge la possibilità di cogliere il proprio limite nell’ancoraggio a segni devianti il mirare, dopo collocazioni inagibili e restie a decifrare i tumulti del cuore, così come la scansione riprodotta dalle sillabe nell’ora della vulnerabilità, della riduzione dei passaggi. Giorgio Bonacini vede il nostro procedere “in solitudine/ all’interno/ di un calvario minimale/ o di abitudine”. Vi sono misteri quotidiani da decifrare, allusivi ritorni all’incedere franto; come, a volte, è inevitabile accorgersi di percezioni fertili in mitezze d’aurore e smarrimenti d’esilio.  

                     

                                                                                                         Andrea Rompianesi

 

 

martedì 13 ottobre 2020

Fabio Scotto, Storia di Emma C. e altre poesie, Puntoacapo, Alessandria, 2020

 


In una nota finale ed esplicativa di questa silloge Fabio Scotto ci ricorda la sua idea di poesia, che rivela poi il suo modus operandi, e cioè: “costante fedeltà all’autoascultazione del corpo, della sua voce e dei luoghi del mondo”. Che didascalicamente tradotto significa privilegiare il campo dei cinque sensi, come insegna la lezione leopardiana. In effetti non c’è pagina in cui non si presenti la materialità ontologica che si trasmuta, per magia di parola, in una visione meramente pura, scevra dai ceppi illusori della semplice realtà, la cui scaturigine sperimenta un’idea totale della scrittura intesa come poetica, teatrale, lirica. Si innesta così una specie di non-luogo, di non-tempo (o meglio: oltre-tempo), che si dipana nel duplice binario antipodale: hic et nunc, da una parte, e ascesi inesprimibile, dall’altra: al pari di quella zattera gremita d’invisibile di Raboni.(1)  Il trait d’union che agisce da stimolo, sia di lettura che di scrittura, è il sentimento (desiderio, voglia, urgenza, tensione) d’amore. Si potrebbe nel concreto partire da questi suoi due versi, inclusi nella lirica Le parole, come ex ergo o incipit di critica al volumetto: “Ti dico ‘amore’, rispondi ‘amore’/ E già la sera è più serena”. Sì, perché l’amore la fa da padrone (mi si permette la semplicità di questa espressione), risultando il dominus indiscusso e riconosciuto di tutta la raccolta poetica, l’elemento centripeto e centrifugo, colto in ogni suo spessore, nella sua poliedrica consistenza e nella sua necessaria ambiguità.

Nel pezzo iniziale, altamente drammatico, e che dà il titolo a tutta l’opera “Storia di Emma C.”, la protagonista, Emma appunto, racconta la propria vita di fanciulla povera, dove la fatica del quotidiano e la miseria si accumulano di anno in anno. Mentre i genitori non tralasciano di azzuffarsi, anche per un nonnulla, Emma si ritaglia uno spazio tutto suo, un recinto di protezione che sarà alla fine spezzato, una volta raggiunta la pienezza di donna, dalla violenza e dallo stupro del padre su di lei. “Io che ti amavo se mi tenevi in braccio/ se mi donavi bambole di pezza, o un gelato/ eccomi lacera e vuota/ qui tra la latta e il vetro/ nel silenzio del sangue…”. Il padre verrà denunciato e portato in galera, ma la povertà costringerà la protagonista a prostituirsi. “Il  mio corpo è altrove/ persa ne è la chiave/ Così Emma C. muore…/ Cercatemi nella gola di mio padre/ Nelle tomba degli elfi/ Nella bava del sole”. 

Questo monologo teatrale(2) mette in luce, come in un metaforico caleidoscopio, l’ambiguità dicotomica insita nel concetto d’amore, rivelando (è il suggerimento dello stesso autore)  un non lieto fine, quell’impossibile su cui insiste la filosofia di Georges Bataille.(3) E non c’è chi non veda che la realtà si trasforma, oltre che in denuncia, in intensa  riflessione sui comportamenti umani. Ecco lo scarto di cui parlavo inizialmente. I luoghi, i personaggi, le azioni diventano ipso facto universali. Sforano in un oltre, immateriale, dove la carne si fa coscienza e la parola assume la probità della ricerca della verità.

Allo stesso modo possiamo intendere gli altri capitoli del volumetto, forse meno drammatici ma comunque sinceramente vitali e di interesse. Così il “Diario di Ciutadella” diventa l’occasione per un dialogo d’amore con il padre. Qui l’elemento autobiografico prevale chiaramente, tuttavia non pregiudica la prosa poetica, rimanendo sempre in un ambito “alto”, come se Fabio Scotto ritraesse se stesso e il proprio padre, in una sorta di linea d’ombra del ricordo, non tanto per speculum in aenigmate quanto dentro lo specchio medesimo. “Carrer del Portal de la Font/ Carrer del Dormidor de las Monges/ Una panchina riflette la mia ombra/ Basta poco, purché la vita duri”. In tal modo la meditazione non è solo sul rapporto d’amore fra padre e figlio, sui loro gesti, sulle loro aspettative o intenzioni, bensì uno scoprire che al di là del muro, che li ha separati, la vista si spalanca su nuovi orizzonti, offre infinite letture. E c’è un passaggio, nel diario, da non sottovalutare, perché rinforza l’immagine di un poeta non astratto, non lontano dalla realtà, anche quando parla di se stesso. Lo cito nella sua completezza perché dimostra, se ce ne fosse bisogno, come la poesia, quando è veramente tale, non è né cieca né sorda. “Altri pianti di bambini meno udibili e meno visibili solcano in queste ore il Mediterraneo su vecchie barche sovraccariche di carne umana votata al macello, la cui vita conta ormai meno di nulla e non godrà della misericordia dei pescecani (i peggiori sono quelli umani). Ecco la vita in tutta la sua complessità, con tutte le sue ferite, nei suoi momenti più brutali di una morte ingiusta. Forse per questo si rende necessario proseguire, continuare, ridisegnare nuovi spazi, nuovi progetti, nuovi dialoghi. “La vita è un hangar dal quale spicchiamo voli senza senso./ Il senso, se c’è, padre, sta nel volo, non nella meta, né nel consenso (maestra fu da sempre in tal senso l’Itaca di Kavafis)”.

Un altro capitolo di questa raccolta poetica si intitola “Trittico lericino”. In esso il poeta, di origini spezzine (importante sottolinearlo), ritrova i colori e i sapori della sua terra natale e soprattutto si congiunge idealmente alle orme di artisti che di quei luoghi hanno valorizzato il nome. “Qui sono nato/ nel Golfo dei Poeti/ dove ogni hôtel/ si chiama Byron o Shelley” Per continuare nei versi successivi con una nota di melanconica autobiografia, come se, magari inconsciamente, volesse stabilire quasi un confronto con l’esperienza di chi, poeta, l’ha preceduto: “E la Venere che invoco ogni mattina/ ancora tarda/ ancora non risponde”.

Molto più esplicito, invece, è il rapporto con la sua Venere (F.) nel capitolo intitolato Movenze. Si tratta di una sequenza di amore erotico che il verbo poetico sublima ed isola in istanti di fermo immagine, dove però non viene meno la consapevolezza che qualcosa forse domani potrà mancare: il tempo, l’anima, il corpo? “Prendimi il sangue delle labbra/ la febbre feroce che mi salva/ Domani poi saremo nulla/ Ora cullami nel volo/ lubrica tua fanciulla.”

Nella sezione successiva Flamenco l’amore s’intreccia alla danza, s’incontra nel canto, si abbandona al ritmo sensuale delle chitarre. È un turbinio d’immagini sempre in movimento, un accumulo di sensazioni uditive e visive che trascinano il lettore entro le tipiche taverne spagnole dove il flamenco è il re della serata. Rivivono suoni e movenze: afrodisiaci momenti. “Non tori, né banderillas/ solo lei che fugge/ o lui che non la piglia/ il cerchio si stringe/ tintinnano caviglie/ e palme sulle cosce/ tonfi di pece sul costato.” La bravura poetica di Scotto in questo caso, ma non solo, si rivela in tutta la sua dimensione. L’andamento della lirica segue l’andamento del flamenco, il trasporto è immediato, non c’è tempo per respirare o per pensare: esiste solo quel momento, immerso nel ritmo incessante dei suoni e della danza. “Ma tu danza/ sul mio cuore ferito/ danza, danza, danza,/ sul mio cuore rinato/ danza, danza, danza/ contro il freddo che sento/ nel silenzio del mondo/ con la voce del vento/ tu sia amato tormento/ Flamenco.”

L’ultimo segmento della raccolta, Nostos, rievoca i luoghi in cui l’autore è stato, le sensazioni avute, il rapporto con gli altri e in particolare con l’altra. Le città visitate diventano àncora di salvezza, forza per proseguire, invitano alla coscienza di un sé intelligente nella conoscenza del mondo. “Sapermi solo/ Ma è solo un’ombra/ nel blu del tuo bel riso/ Wisla, viso, vivo, scrivo”. Questa, dunque, la consapevolezza del poeta che, immerso nelle contraddizioni inquietanti della vita, riporta alla luce ciò che spesso non vediamo e non udiamo perché le parole che quotidianamente sentiamo sono distanti dalla verità e non ci permettono di percepire la realtà. Per questo il ritorno, non solo fisico bensì spirituale, non è mai inutile o scontato: è la percezione che qualcosa di umano ancora rimane: è la forza della poesia. “Nostos l’amore/ Nostos ogni primo fiato/ l’esilio espiato/ tra orde di aguzzini in foia/ e gente che muore in strada/ d’inedia e di freddo/ frollata dal vento della storia”.

Enea Biumi

 


 

1)      Giovanni Raboni, Quare tristis, Mondadori, Milano, 1998

2)      Storia di Emma C. è stato rappresentato dall’attrice Eugenia Marcolli, con adattamento e riduzione, al Teatro Santuccio di Varese, il 24 novembre 2019, per la regia di Nicola Tosi.

3)      “Il progetto di raccontare il desiderio umano diviene un ricettacolo del torbido che spalanca una rivelazione inedita delle nostre esperienze interiori, il loro dialogo con la violenza, il gioco, il teologico e l’ateologico”. (….) “….la speculazione di Bataille si dispone intorno alle privilegiate esperienze di naufragio dentro cui l’uomo può sperimentare una differente versione di sé, aliena ai codici razionali dentro cui la storia lo ha adeguato. L’indocilità della nostra parte sacra e maledetta coinvolge Bataille in un inseguimento dell’impossibile fatto di silenzi, ingorghi concettuali e poetiche esplosioni di riso che erodono le norme discorsive e l’autenticità stessa delle strategie con cui invano tentiamo di disciplinare definitivamente la nostra inquietudine erotica.”  Tratto da: Georges Bataille: la mistica dell’osceno, tesi di Laurea di Diletta Caimmi, anno accademico 2016-2017, Università di Bologna, relatore prof. Vittorio D’Anna.

venerdì 2 ottobre 2020

Luciano Cecchinel “Da sponda a sponda” (Arcipelago itaca Edizioni, 2019)


 

Gli Stati Uniti d’America come luogo a cui rapportarsi dall’Italia, nelle articolate vicende di emigrazione che hanno caratterizzato la nostra storia. Luciano Cecchinel, in questo suo esito di poesia “Da sponda a sponda”, rivisita il dialettico rapporto con il paese che ha dato ospitalità a parte della famiglia materna e dove è nata e ha trascorso l’infanzia la madre. L’esperienza, in seguito avvenuta, di visita delle terre statunitensi da parte del poeta, concede uno spettro di emozioni che sviluppano sentimenti alterni; da una iniziale componente nostalgica ad una successiva disillusione e relativo distacco. Cecchinel esprime efficacemente il riaffiorare delle immagini registrate e interpretate nella calibratura dei versi: “Muskingum River/ acqua pigra e melmosa/ la ruota del battello/ le pale sbrodolanti/ bocca mostruosa di ingordigia”. Qui il sogno americano è trascinato a terra, nella polvere e nella sofferenza vissuta dai migranti; da chi in quei luoghi cercava uno spazio di sopravvivenza, di riscatto, lungo i territori dell’Ohio, del Midwest, come a New York o nel New Jersey. La successione delle strade abita il quadro riprodotto di uno sviluppo dei segnali che determinano il tracciato della mappa nella rivisitazione aperta oltre l’iterazione del profilo di riferimento anche quando il verso trova nel suo sviluppo orizzontale l’estensione narrante: “le farms che corrono lungo una collina e ai piedi della collina sterpi/ e poi colline a perdizione boschi radure cespugli quasi un paradiso”. Sembra un lamento antico in odore di tono biblico, evocante esodi ma anche un “melting pot”, un crogiolo di culture che spesso si ritrovano a convivere nella difficoltà dei rapporti. Si susseguono spunti tratti dalle vastità raccolte e determinate dagli influssi di una ricezione che evoca la partitura di un Whitman; tende a ridisegnare le durezze abbinate agli strati rocciosi, alle vibrazioni operose che conducono attraverso le successioni innescate dalle voci disperse. Nella seconda parte del libro lo scenario si sposta presso Revine-Lago, paese in provincia di Treviso, luogo di nascita dell’autore. Qui è analizzato anche il senso di sofferenza espresso dalla madre Annie che, nata e cresciuta in terra americana, aveva poi dolorosamente dovuto lasciarla per rientrare in Italia. Il rapporto con le proprie radici comporta quindi differenze e stati d’animo relativi alle personali, mai ripetibili, sensazioni accelerate dalle vicissitudini subite e riaffiorate nella visitazione intima, come tratto indicante l’evidenza del percorso collegato alla esegesi dei luoghi. Anche il ricordo di soldati americani di stanza presso una base veneta e poi inviati a combattere nella guerra del Vietnam, conduce Cecchinel ad esprimere strofe che si rispecchiano in segnali traccianti le contaminazioni culturali che diventano riconoscimento di sentimenti comuni. I segni topografici racchiudono segnali di memorie, dove il testo è profondamente innestato nelle vicende familiari del poeta. L’asperità dei recuperi dilata travagli, gli spessori inesausti dove arde la domanda primaria frammentata e dispersa fra le proponenti attese dimentiche della possibilità di un conforto. L’ora insinua l’attenzione alle relazioni, alle opportunità mancate, oltre l’evidenza dei tributi offerti alla storia personale calcata nella contingente faticosa immanenza. Il luogo diviene quindi correlativo fonetico, concreto nella sua leggibilità visiva. Un’ermeneutica del bisogno infrange ogni proposizione asettica e nutre invece la carnalità delle emozioni così come l’acuta critica disincantata e amara. La terza parte del volume sviluppa una poesia a tutta pagina, una forma di lungo “talking blues” dove un intreccio linguistico di italiano/inglese evoca molti spunti e riferimenti alla cultura americana nella tonalità musicale che rimanda al tono country, così come allo slang italoamericano, ai ritmi dello spiritual e alle espressioni del blues, jazz e delle voci di una componente tipica del folk singer. Ma anche spunti drammatici che si soffermano sulle atrocità del conflitto in Vietnam o sulle ingiustizie delle discriminazioni razziali. La corporatura compatta delle strofe si trasforma in successione di poemetti dove il tema dei rapporti famigliari, le sofferenze della lontananza si intrecciano con le tonalità amare delle solitudini, profonde anche nello scenario variegato della cosiddetta terra delle libertà: “perché sommesse hanno ansimato per le loro foglie di nuovi alberi/ tristezze di spossatezza e nostalgia e sussurrato ossessi uccelli le/ cantilene di nazioni straniere non più devono piangere quegli/ occhi di una perduta età”. Davvero allora, nella complessità policroma di un sundown medley (letteralmente miscuglio del tramonto) Luciano Cecchinel si chiede “ quale    quale il senso?    vero    falso    celato?” attraverso la vasta proporzione di un affresco che include lunghe citazioni e non elude mai i contrasti e le contraddizioni su di uno sfondo disegnato da “la terra sassosa gialla rossa bruciata along the Navajo Trail il filo d’acqua/ sul fondo del canyon baracche con le cisterne per la pioggia...”.

                                Andrea Rompianesi


martedì 11 agosto 2020

VERNICE, anno XXVI, n° 58, Genesi Editrice, Torino, 2020, €. 20,00



E’ uscito il numero 58 della rivista di Letteratura “Vernice” edito dall’editrice Genesi di Torino. In copertina l’immagine della poetessa Chicca Morone che, intervistata da Sandro Gros-Pietro e Antonio Miredi, offre una panoramica sul Convivio delle Muse che rivive nell’attualità. Da Clio a Talia, da Urania a Calliope, da Euterpe ad Erato, vengono coniugate le varie personalità mitiche ritrovabili in ogni donna e riconducibili alla stessa poetessa che confessa: “interpretare il mio percorso attraverso le Muse mi sembra un gioco abbastanza divertente”.
Interessante risulta pure il contributo alla conoscenza del grande critico letterario Giorgio Barberi Squarotti, scomparso il 9 aprile del 2017, del quale la casa editrice torinese Genesi ha pubblicato l’antologia poetica “Dialogo infinito”.
Scorrendo l’indice si scoprono, tra gli altri, poeti come Serena Siniscalco, Mino De Blasio, Bruno Civardi, Ada de Judicibus Lisena, Mario Santagostini, nonché la rubrica “Rompete le righe” di Fabrizio Olivero. Non mancano interventi di saggi letterari da parte di personaggi dal calibro di Carlo Di Lieto, Claudio Giacchino, Franco Zoja.
La rivista si trova nelle principali Librerie di tutta Italia.



Enea Biumi

Livio Bottani, La memoria e l’oblio, Genesi Editrice, Torino, 2018, €. 16,00

 

La silloge poetica di Livio Bottani “La memoria e l’oblio” presenta in modo abbastanza articolato un percorso per lo più esegetico in cui il verso, dalla riformulazione classica dell’endecasillabo alla apparente libertà discorsiva, si distende in una connotazione ragionativa. “Ora sai che non si sfugge/ al destino,/ ora sai che la nebbia e il grigio/ non sono stati fugaci/ fenomeni d’antan,/ ma avvolgono la tua vita/ con una fitta coltre”. Non mancano, però, come sostiene Gros-Pietro nella prefazione, elementi caratterizzanti la lirica, come ad esempio allitterazioni, metafore, sineddochi, enjambement e via dicendo, ma ciò che maggiormente suggerisce la lettura di queste poesie è una visione d’insieme filosofica ed esistenziale, là dove il poeta ricostruisce se stesso in una formula dialogica denudata e denudante per riscoprire una specie di comun denominatore delle cose e del mondo.  “Vorremmo credere che la parola sia/ per mettere ordine nelle nostre anime/ disturbate dall’inesperibile;/ che ogni figura raccolga il senso/ di una sfida all’inesplicabile/ nella contesa delle interpretazioni/ che partoriscono mondi interi”. L’uso della memoria ci porta in anfratti storici e mitici, reali e possibili, contribuendo a delineare un cammino interiore anelante la verità dell’essere, disvelato in un pudore di affetti che recuperano ricordi non solo personali, bensì universali. Qualcuno direbbe che il re è nudo. Ma in questo caso il re è il poeta che si confronta in quotidiane battaglie, che affronta il lettore per risvegliarlo dall’intorpidimento, annebbiato ormai da una pluralità di voci e di consigli che tendono ad infiacchirlo piuttosto che a sostenerlo. “Non pensavi davvero/ che avresti nuovamente permesso/ alla musa di incalzarti”.  E ancora: “Povera e nuda se ne va la filosofia// (…) La poesia dovrebbe scaldare la pietra,/ col suo arcobaleno scaldare il mondo,// (…) Che non serva a niente/ e non sia serva di nessuno/ lo si sa bene e lo si mette in conto.// Non doversi vendere al mercato/ va a suo onore in tempi in cui/ l’unico valore sta proprio in quello”. In tale situazione un rifugio che Bottani suggerisce è il mondo classico, ribadito nella ripresa di poeti latini – Orazio in primis – e della loro concezione della vita, ma un mondo classico per nulla lontano da noi. Anzi. Del tutto assimilabile al nostro esistere. È il caso di famosi rimandi che, visti in un’ottica moderna, suonano altrettanto validi e affatto scontati. “È l’incurvarsi del tempo/ che spaventa,/ sapere che niente potrà fermarlo/ restituendogli il suo sentore antico.// (…) Avendolo perduto,/ non resta che il presente,/ da vivere nella sua pienezza/ di memorie, illusioni e attese.” Non c’è chi non veda in questi versi il “ruit hora sine mora” delle meridiane e l’oraziano “carpe diem”. E nella più classica delle tradizioni la silloge si apre con un proemio – In memoriam – che offre il la a tutta la raccolta e ne valida il racconto introducendo una specie di contrappunto alla scrittura poetica – in musica si parlerebbe di basso continuo.  La nota prevalente è il nero che sommerge ogni cosa: la luna, gli albori, gli sguardi e soprattutto i poeti, la loro voce, il loro respiro, la memoria stessa. “Neri fiocchi e luna nera,/ mare malato di notti senza risvegli:/ non c’è barlume che porti/ al di là di questo oceano tenebroso,/ che possa vincerne l’oscurità,/ dissolvendo tutto il dolore/ che si distende ammorbante sul cantore,/ coperta vischiosa dell’afflizione,/ latte nero degli albori/ in cui è annegato il poeta.” L’opera prosegue poi in tre tempi, altrettanto topici: papaveri e fiori di loto, pietre d’inciampo, pensieri come fuchi. Il file rouge che organizza e conduce il contenuto si dipana in cose concrete (fiori, pietre, fuchi) ma si risolve in meditazioni e domande. “Ma di che si vuole restanza se non dell’io?/ Rinunciare a esso e alle sue ubbie/ non corrisponde forse a un assottigliarsi?/ a un affilarsi? a un angelicarsi?” “Alla fine che resta dell’assottigliarsi/ e del non voler assottigliarsi?/ Una storia di preghiere e di dubbi,/ di scommesse e di rilievi sospettosi,/ di fede e scetticismo senza soluzione.” La policromia delle situazioni reali, allora, sembra affacciarsi in una universalità di sentimenti accomunati da una indubbia religiosità – non necessariamente quella cristiana – che insiste sulla specificità dell’uomo, quell’essere triste animal post coitum, che indugia in quesiti dopo millenni ancora irrisolti, che si inalbera in reiterate e irrequiete dispute di vita e di morte, di perdizione e di resurrezione. “E così abbiamo pregato e pregato:/ volevamo capire chi eravamo/ e cos’erano gli altri,/ carpendo il segreto delle nostre vite.”

 

Enea Biumi


Federico Aru, Sulla scia del vento, Genesi Editrice, 2019, €. 15,00

 


Non si tratta solo di un giallo noir. O per lo meno. L’apparente situazione delittuale offre lo spunto ad Aru di presentarci un’umanità borderline immersa in desideri, appagamenti, afflizioni, recitante a sua volta un copione di inespressi bisogni, strani appetiti, oggettive mancanze.  “Sulla scia del vento” che dà il titolo al romanzo è l’incontro empatico che avviene tra due individui: meglio, tra un ego e un alter-ego, entrambi portati a riflettere sulla condizione del proprio passato. Si innesta, allora, una serie di considerazioni sulla ineluttabilità dei gesti, sulla distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, sul dovere, sull’amore filiale e coniugale: più estesamente sul bene e sul male. Non per nulla, all’incirca alla metà del romanzo, si legge come una parentesi: una meditazione che coinvolge in termini teologici la missione di Cristo e la riflessione sul tempo. “L’idea che mi ero fatto sul concetto di tempo somigliava molto a ciò che Gesù diceva di se stesso e predicava agli altri.”   Ecco la parola chiave: il tempo. Su questo il protagonista (o meglio, i protagonisti – ma non voglio svelarne la trama) si interroga nei momenti di pausa tra un’azione e l’altra; su questo si concentra il delitto che ammorba gli animi scaraventandoli in un turbinio di “se” e di “ma”, tormentandoli in un continuum di chiaro e scuro; su questo l’io narrante si erge a paladino della verità. Ma qual è la verità? E’ un anello di grande valore ereditato a cui siamo costretti a rinunciare? E’ il valore dell’amicizia? E’ la parola data e non concessa? E’ l’ingiustizia che costringe all’omicidio? E’ l’imbroglio che ti porta a mentire? E’ l’odio del figlio nei confronti del padre? E’ la situazione emergenziale che ti ha scaraventato sul lastrico, inibendoti gli affetti famigliari? Tante sono le domande che possono contornare il tessuto del racconto in cui il lettore si insedia partecipando e parteggiando ora per questo ora per quello, fino alla riflessione conclusiva che l’autore pone nell’epilogo, dove un sentimento su tutto ha la prevalenza: il perdono. Esso infatti è “una gemma preziosa che nasce non dalla ragione ma dal cuore”, “è un gesto di carità con il quale salviamo noi stessi dalla disperazione”, è la salvezza che sa “trarre dall’odio una speranza di vita.” Lo sfondo di tutto ciò è una Cagliari moderna che entra nel gioco psicologico dei protagonisti e che ne circonda figure e pensieri, adagiandosi nella scrittura di Aru quasi a raccoglierne agitazioni, pressioni e incubi. La minuziosa descrizione dei personaggi e dei loro gesti, la capacità espositiva ed analitica dei luoghi e dei paesaggi, supportano l’intreccio narrativo del romanzo, sostenendone la trama e il tentativo lodevole di mettere in primo piano sentimenti, psicologia, eticità: i veri protagonisti di una storia caratterizzata dal delitto e sottolineata dalla rinuncia al castigo o alla vendetta in nome del perdono.

 

Enea Biumi


Federico Aru, Il voltolino, Genesi Editrice, Torino, 2019, €. 15,00



 Appartengo alle terre di Gianni Rodari. Non me ne posso certamente fare un vanto. È il caso che l’ha voluto. Ma questo mi ha permesso un’attenzione maggiore alle problematiche da lui affrontate. Sebbene per motivi professionali abbia approfondito una pedagogia che privilegiava l’adolescenza (insegnando in Istituti Liceali, il mio sguardo era rivolto principalmente al rapporto adolescente-adulto) questi racconti di Aru, rivolti al mondo dell’infanzia, mi danno adito e sprone per discettare di una scrittura che mette al primo posto il bambino e che non può né deve essere trascurata o snobbata. Rodari insegna. “Il voltolino”, che si traduce in una serie di brevi racconti fantastici – ma non troppo – si propone di stimolare l’intelligenza e la curiosità infantile.  Partendo da una verità ormai assodata, ma spesso dimenticata – “maxima debetur puero revetentia” – l’opera percorre una serie di situazioni atte a trasmettere interesse ed ampliare conoscenze. Sembra quasi di assistere ad un drone il cui sguardo spazia ovunque sia possibile penetrare. I luoghi appartengono all’esperienza dell’autore, naturalmente, e sono messi a disposizione del fanciullo che ne potrà trarre vantaggio e utilità sia per il presente che per il futuro. Così dalla metropolitana di Milano alle nebbie di Bergamo, dalla campagna al mare, dal trattore Garibaldi agli uomini di foglie, si snodano favole fantastiche tra sogno e realtà. Ed è proprio il sogno che guida spesso la vita, non solo del bambino bensì dell’adulto, il quale, se potesse, ritornerebbe volentieri indietro per ripercorrere, ora consapevolmente, parte della sua esistenza. Perché, come sta scritto in quarta di copertina, “viaggiare attraverso la fantasia, in fondo, è una delle più serie missioni della nostra esistenza.”  Si tratta quindi di un percorso non fine a se stesso: il viaggio merita attenzione, passione, desiderio; il viaggio induce a conoscenza, opportunità, disvelamento. Aru è consapevole di ciò, e in questa consapevolezza inquadra i suoi brevi racconti destinati all’infanzia per costruire un’affinità familiare, un mutuo interloquire finalizzato alla crescita, recuperando la scrittura e quindi la lettura in un mondo che va via via sgretolandosi in formule e forme spesso tecnologicamente alienanti. Non intendo, ben inteso, criminalizzare nulla delle molteplici implicazioni comunicative contemporanee, ma c’è un modus comunicandi che non può essere trascurato. Il fuoco che Prometeo ci ha concesso sottraendolo agli dei ci ha permesso la costruzione del linguaggio e con esso il colloquio e la scrittura. Non dobbiamo dilapidarne il regalo. Per questo è importante il rapporto adulto-bambino, presentato in quest’opera di Aru. Finis coronat opus, si potrebbe in conclusione dire. Infatti, Il voltolino è costituito da storie da leggere “insieme, in famiglia, avvolti dal tepore di casa”, per recuperare il rapporto con i figli, per farli crescere affinché non si disperdano quelle qualità tipicamente umane che sono lo sviluppo, fisico e mentale, e la conoscenza, di sé e del mondo.

 Enea Biumi 

martedì 28 luglio 2020

Tiziano Rossi “Piccola orchestra” (Edizioni La Vita Felice, 2020)




Tiziano Rossi, poeta di lunga e accreditata militanza letteraria, ha dato alle stampe un testo che raccoglie brevissime prose essenziali, “Piccola orchestra”, definite antifavole e dicerie. Non nuovo a questa formula espressiva, Rossi sperimenta l’uso calibrato di un lavoro teso, come dice nella prefazione Stefano Raimondi, ad una vera e propria sottrazione del dire, in una prosa sostanzialmente ancora determinata ad essere comunque narrante. Il tutto addensa climi esigibili di costante e signorile ironia, con aspetti di vera e propria comicità in un teatro di figure che caratterizzano ogni profilo. Molte conclusioni rapide dei brevi passi indicano la via inevitabile di un epilogo spesso secco e amaro, ma senza che l’autore perda il suo distacco misurato e la sua funzione di osservatore lucido e disincantato; indicativo il personaggio affezionato alla borsa dell’acqua calda con la quale instaura un rapporto affettivo, del tutto impossibile invece nei confronti di un cucciolo di cane, cacciato a pedate. Una fonte d’ironia a volte cinica che intende smascherare ruoli superficialmente acquisiti e che , in realtà, nascondono tratti imprevedibili e spiazzanti. Anche le figure animali assumono connotazioni capaci di rappresentare esiti e stati che volgono a sviluppi classici nel paradosso che si fa insegnamento, esprimendo difetti e toni esplicitamente antropomorfici.  Il percorso dei racconti tende a riferire escludendo, sia negli  aspetti più concreti che in quelli surreali, una qualsiasi espressione consolatoria o giustificativa. La traccia registra, attraverso l’osservazione dell’autore, con un elegante distacco, ironico e cinico, il semplice svolgersi di eventi che improvvisamente si concludono in un carattere di sospensione privo di risposta. Scrive Tiziano Rossi, in un finale esemplare: “ Ora quella morbidissima cadenza del mezzo sta lievitando ed ecco che l’autobus addirittura si libra sereno nell’aria: è un fatto che nessuno ha voglia di interpretare”. Sembra proprio che l’intenzione dell’autore sia quella di comunicare episodi distaccati e avulsi da una qualsiasi logica prevedibile e capaci di porci all’osservazione del minimo atto in sé estraneo alla spiegazione, quasi che la vitalità del contesto non necessiti di elementi assolutori per realizzarsi e ci mantenga nell’impossibilità di asserire. La scrittura si presenta sempre di una totale e assoluta semplicità; un dicibile posizionato nel ritmo costante dei brevissimi racconti, come tappe di un succedersi di attimi regolati da un timbro di pacata inevitabilità. Tale clima appare riconfermarsi anche nella sezione che coinvolge nomi di poeti e filosofi anch’essi inseriti in questa equilibrata partitura che determina il luogo del possibile e, nello stesso tempo, del surreale, coniugata in una sintesi corale.
                                                                                                                       Andrea Rompianesi


sabato 11 luglio 2020

Enea Biumi in un giallo realistico ed intrigante



Mi permetto segnalare il blog insubriacritica in cui è inserito un commento al mio romanzo a firma di Vincenzo Capodiferro.







martedì 7 luglio 2020

Gianfranco Galante, "Volevo raccontare una storia...", Macchione Editore, Varese, 2020



“Non è mai facile raccontare sé stessi ed avere il coraggio d’esporsi al giudizio di chi ignora non conoscendoti”: così Gianfranco Galante introduce le sue pagine di diario, mettendosi a nudo e a disposizione del lettore. Sono pagine di memoria – è ancora l’autore a giustificarsi – perché “il ricordo è parte del vivere del nostro presente e ci accompagnerà nel futuro quando il presente sarà passato”.

Galante, in effetti, non è nuovo alle rivelazioni del sé. Come poeta, infatti, ha già abbondantemente abituato il lettore al racconto delle sue emozioni. Con la prosa, però, l’operazione assume una connotazione centripeta ancorché compiuta. Il sé diventa l’elemento da scandagliare pagina per pagina e, pagina per pagina, il discrimine fra ricordo e sentimento si fa consapevolezza di vita e di crescita costante. La strada, quindi, che l’autore vuole percorrere, ha da situarsi proprio in quei momenti fondativi che sono l’inizio di una esistenza che il destino gli ha preparato e che lui perlustrerà fra valori e affetti irrinunciabili.

“Ho voluto raccontare storie di vita vissuta, riflessioni personali, piccoli cenni storici; offro la conoscenza, a chi interessi, di un po’ di me” suggerisce, visualizzando poi un fuoco di lettura che ci permette una migliore comprensione del testo. E in ciò disvela un binomio ben rilevabile e affatto trascurabile: la Sicilia – del cui imprinting va fiero e orgoglioso – e la famiglia – che gli ha trasmesso i valori di libertà, onestà e amicizia.

          Siamo di fronte a un momento importante della sua formazione: quello che in letteratura si chiama Bildungsroman e che riesce a decifrare il primo percorso dello scrittore come apprendistato per la vita, sia del protagonista, sia dell’autore. In questo caso autore e protagonista sono un tutt’uno, per cui, allo stesso modo, in questo lungo racconto della propria infanzia Gianfranco Galante affronta i presupposti per gettare le basi del suo futuro: la conoscenza di sé. Nel ricordo dei suoi primi passi sul sentiero della vita, il protagonista-autore si identifica e si discerne.

Si tratta, allora, di un viaggio della memoria. Ma si sa che il viaggio, nell’antichità come nel presente, è un topos per indicare crescita e consapevolezza. Ulisse, Enea, lo stesso Telemaco, per colpa degli dei girovagano tra un porto e l’altro in mezzo a mille pericoli, ma alla fine raggiungono la propria meta più consapevoli e più forti di prima. In tempi più vicini a noi On the road di Jack Kerouac offre il medesimo risultato. almeno, questa è l'idea di John Leland, accettata e adottata anche da altri critici, dove si sostiene che si tratta di un romanzo ricco di lezioni su come crescere. Se vogliamo rimanere nell’ambito della formazione, non mancano esempi di viaggio anche in campo religioso. Le antiche religioni politeistiche, per esempio, prefiguravano iniziazioni attraverso viaggi di mistero che rafforzassero l’anima e il corpo. Dante ci fa attraversare, a mezzo del suo cammino, inferno e purgatorio per raggiungere il paradiso, cioè la piena consapevolezza del sé.

Ecco, allora, che il catecumeno Gianfranco ha la sua iniziazione in questo viaggio-memoria nella terra siciliana. E lì si riconosce, come direbbe Ungaretti, docile fibra dell’universo. Lì si intrecciano e si intersecano i rapporti umani, col vicinato, con i parenti – passati, presenti e venturi – con gli amici o con emeriti sconosciuti. Lì il protagonista cresce ed impara, accompagnato da ampie e sincere riflessioni sul perché della vita e della morte, della violenza e della sopraffazione, dell’amicizia e del perdono, dell’ipocrisia e della pazzia.

La sua formazione avviene negli anni sessanta – l’autore è nato nel 1964. Ed oggi – dichiara – sembra trascorso un secolo. Lo ribadisce spesso. La sua sicilianità sta in questo atto di fede assoluta a quel mondo e a quei modi d’essere e di pensare. Mentre in Italia, al nord, che a tratti frequenta e che diverrà dagli anni settanta in poi la sua dimora definitiva, è già in pieno sviluppo il boom economico e industriale, la società del sud vive ancora in tradizioni ancestrali e condizioni lontane anni luce dal progresso. E Galante preferisce questa a quella, perché la sente più genuina, meno artefatta, più naturale. Ci sono disagi, è vero. C’è un’apparente maggior povertà. Ma c’è una ricchezza di umanità incomparabile a qualsiasi altra situazione.

Significativa e paradigmatica è la contrapposizione tra abitudini e comportamenti diversi se non opposti tra nord e sud. Non c’è un giudizio di valore, beninteso. Entrambi sono accettabili perché nascono e si sviluppano in contesti diversi. Può essere emblematico l’episodio che Gianfranco narra del suo arrivo per la prima volta all’oratorio di Sant’Ambrogio in Varese. Vede ed osserva ragazzini della sua età che non fanno baccano, giocano senza insultarsi, sono educati e gentili fino ad assomigliare quasi a dei robot asettici. Lui è abituato alle urla, ai cazzotti, alle birichinate. Due mondi differenti, sia pur antitetici e complementari.

La povertà non è miseria. Non è disordine o trascuratezza. L’autore ce lo ripropone più volte. E se manca la luce elettrica o la radio, poco importa. Se è necessario percorrere chilometri e chilometri a piedi o sul carretto trainato dal mulo per poter vedere i propri parenti non è un dramma. Anzi: è la felicità. E’ la possibilità di incontrare altre persone, di soffermarsi a parlare, di sapere notizie. E’ un modus vivendi che si contrappone in modo considerevole alla frenesia di un mondo moderno che misura la vita in secondi. Lì la vita è misurata in stagioni. E ancora una volta c’è da sottolineare che non bisogna intravedere nessuna povertà in quel modo d’essere e comportarsi, ma ricchezza.

Galante confesserà di fatto più avanti: “la ricchezza la portavo dentro: dignità dell’essere, educazione, senso del dovere, senso della famiglia, senso del sacrificio a prescindere, conoscenza delle priorità, importanza dei valori, timor di Dio, rispetto del credo altrui, forza d’animo, forza di reazione ai disagi, umiltà, capacità di perdono”.  Sono infatti questi i valori ereditati dall’insegnamento dei suoi genitori, dei suoi nonni, dei suoi zii. Valori di cui andar fiero. Valori di una terra che fa soffrire e gioire. Valori di libertà.

Accanto alle motivazioni personali di crescita e sviluppo, Galante mette in rilievo anche il mondo contadino. Ne descrive il paesaggio, con ammirazione e dovizia di termini. Ne valuta lo sforzo e il sacrificio lavorativo della vita dei campi, in quel pezzo di Sicilia, che crea per lui, bambino, anche un clima di serenità e di spensieratezza. Vede il sudore dei suoi nonni e dei suoi zii. E ne vuole partecipare. Perché è in quel sudore – capisce –  che si colloca la pienezza della vita. Perché è in quel rapporto uomo-natura, ancestrale, che si compie la sua formazione. “Davanti ai miei occhi – sottolinea orgogliosamente – c’è il panorama della immensa valle di Segesta, il tempio ed il verde e giallo dei terreni della collina di fronte (…) Ecco perché questo luogo ha il fascino di cui sono vittima. E mi sento vivo più che mai e parte dell’armonia di quel posto.”

La valle di Segesta, è inutile rammentarlo, ha in sé la storia e la cultura che hanno formato il sapere occidentale.

Si capisce così il suo legame con la Sicilia e con la tradizione. Il suo essere preso in quel vortice magico che è il passato in contrapposizione al piatto e quasi insignificante presente. C’è tanta nostalgia per quel mondo, per la sua infanzia, per quell’umanità remota ma ancora viva nel suo animo. Ancora capace di commozione e di ammirazione. Si comprende allora il perché Galante abbia voluto rievocare tutto ciò, riportarlo in pagine di diario e trasmetterlo al fine di non disperderlo e dimenticarsene colpevolmente.

In queste pagine offerte al lettore si ritrovano gesti e sentimenti ormai desueti. Quando ad esempio Galante descrive il lavoro che il nonno e lo zio fanno nei campi, la loro attenzione quasi religiosa nei confronti dei prodotti della natura; quando raffigura i suoi compiti mattutini – rassettare la stalla, dar da mangiare alle galline, ripulire l’aia –; quando mostra la nonna intenta a preparare il pane da infornare, o a coltivare l’orto, o a preparare la cena; si ha come l’impressione di essere lì pure noi a gustare di quei momenti, a sentire quei sapori, a godere di quegli odori.

Né va dimenticato l’affetto reverenziale che Gianfranco nutre nei confronti dei propri genitori, più volte rammentati e portati in palmo di mano. Grazie a loro, oltre che ai nonni e agli zii, il viaggio della memoria acquista significativamente valore. La sicilianità ha uno scatto intenso, duraturo nel tempo. Ritrova la continuità dell’oggi, sia pur diverso, sia pur, forse, meno brillante e appassionato dell’ieri. Ma l’ieri è servito per crescere, per conoscere e conoscersi, per preparare i muscoli per l’oggi. Per questo non va dimenticato. Ma scritto e tramandato. Fosse anche solo per sé.

 

Enea Biumi


domenica 5 luglio 2020

Elio Tavilla “La gravità terrestre” (Musicaos Editore, 2020)



Nella poesia che apre la raccolta di versi in sette sezioni “La gravità terrestre” del poeta di origine siciliana e residente a Modena, Elio Tavilla, è già presente non solo una dichiarata concezione che si distingue nella struttura tecnica del testo stesso, nella compattezza di versi che concentrano una solidità espressiva di abilissima tensione, ma anche un contenuto a traccia espositiva, aperto a intervalli dai due punti che indicano, in corso di scrittura, il segno tangibile di una sofferenza privata e civile dove è il settore animato del prospetto giovanile ad essere esposto alla caduta dei progetti; “ma infine qui è il nero dominante/ il tuttobianco, tuttonero nullasembiante/ torna l’ostrica d’infanzia, schiude bella/ l’apparenza del rossore sulle guance”. E’ una perturbante occasione dicibile di terreni adibiti alle lotte, ostacoli e destini, intenzioni narrative interrotte, pene mature, tempi davvero incerti che riportano ad un bivio. E’ notte aperta anche sulle aspre condizioni che caratterizzano la personale identità di chi accoglie gli effetti riflettenti agnizioni che non tralasciano la ormai separatezza del luogo inglobato e trasfigurato nella sua decadenza “anche sopra gli argini, nella fitta foresta/ delle aziende metallurgiche addentrate/ sino quasi alla città che più non è/ periferia”. Una parvenza d’amore deve emergere nella durezza della strada, nella inesorabilità della notte, quando la notte è domanda, è inascoltato regesto di assidui dintorni per lo più immediati. Sono quasi strati di esaurita tolleranza verso il sopruso, di graduale recupero di una necessaria sensibilità civile, attraverso lo smarrimento volontario e, allo stesso tempo, imposto dalla distrazione contestuale di un riflesso descrittivo che insinua rimandi di rima e assonanza irregolari e distanziati nella partitura esposta agli intrecci del ritentare la domanda dello sguardo. Inchioda al fisso della pagina il tangibile randagio, il vivente che conosce il rifiuto, lo sbando, la persecuzione, la separatezza che vibra nella fissità di “un chiostro di ossa e nervi gettati/ nel pattume”. E’ qualcosa che ci può tenere legati alla terra, ad una condizione minerale, terrestre appunto, dove la complessità delle implicazioni distoglie dalla intransigenza del dato reiterante la dipendenza. Il dramma anticipa eventi che riguardano la tangibile pelle degli umani, lo strazio inascoltabile perché scartato, tra uno schermo di gomma e un fuoco nemico; anche sognare in fondo, scrive Tavilla, è un gesto “poi/ spalanchi la marsina e scappi”. Si approda a sonni incerti e crepuscoli avanzati, sere oggetto di tentazione, carezze inconsolabili, avvistamento di lago. Dopo la difficoltà di scorgere le insegne che dovrebbero interpretare il nostro passaggio, dopo le insonnie, sono ancora figure giovanili a disegnare il possibile ulteriore destino, allora “basterebbe/ tremare di candore e di innocenza”. Le storie di guerre e di nemici, di sudore e sangue, di cieli incombenti e di domande, svelano la determinazione di una sintesi che racchiude la complessità di attese rivolte a forme altre, vie d’uscita. Ma la conclusione contenutistica di Elio Tavilla è più amara, nella conferma di un mondo che esprime l’infamia mai cicatrizzata nelle schiene “vergate a sangue”; in un trascorrere, insomma, in un epilogo, visto come un meccanismo non conoscibile e contratto in una desolazione che, per l’autore, solo il rapido passaggio testimonia.

 

                                                                                                                                Andrea Rompianesi


martedì 23 giugno 2020

Emanuele Bettini “Il giorno e l’amore” (Book Editore, 2020)

 
 
“Quando la notte si ritira, lasciando filtrare la luce, lo sguardo cerca la dimensione del nuovo giorno e appare l’Alba. Presso gli antichi greci si chiamava Eos...”. Con tale premessa introduce il suo esito in poesia “Il giorno e l’amore”, Emanuele Bettini, scrittore, traduttore, storico, non nuovo alla vicinanza tematica con spunti riferiti alla sensibilità ricettiva verso il mito greco e gli intrecci culturali, stimolati dalla opzione del dialogo e dalle suggestioni coerenti. E’ un rivolgersi lirico alla seconda persona singolare, ove le attese, quasi affilate da rosee dita, coniugano silenti aspettative e travagli di inabissati contorni. E’ corollario di un’alba simbolica che tratteggia il verticalismo dei testi, comportando esitazioni diramate attraverso lo scalare dei pertugi e degli anfratti offerti alla dinamica delle variazioni fonetiche e termiche; quasi un ancoraggio disciolto nella possibilità del palpito, oltre un’ ansa ove “la notte s’acquieta/ nel remare della mia barca” scrive Bettini, osando la tensione della prossimità auspicata o echeggiata perché “”Il fiume ha spazzato/ la piena dei ricordi”. Si segnala, leggero, un tono di abbandono all’inesorabile lontananza di ciò che evoca un passato remoto, per questo non solo sostanzialmente mitizzato ma comunque esternato in un drappeggio “dove anche il pianto/ può essere/ tempesta/ irrefrenabile/ come vento/ contro le imposte/ chiuse dal tempo”. E il verso breve a vocazione di sintagma condiziona le vocalità dei sentimenti espressi in una condizione metatemporale. L’avvio indica plausibili esempi quali il volo impossibile di Icaro, la ricerca di Ulisse o Giasone. Ancor più struggente, poi, la vicenda di Orfeo e Euridice. Il canto poetico capace di commuovere gli dei ma non di evitare le ineluttabilità del destino. E’ una potenza amorosa quella che il poeta evoca, portandola alla contemplazione quotidiana dell’avvertibile sensibilità propria delle schegge di natura estendibili ai vigori diurni e alle contemplazioni serali. Le tessiture auspicate contendono al controllo espressivo la dinamica del percepibile ascolto enumerato negli umori ansiosi della domanda. Croce, anima e canto, dunque, anafora e accenni di illocutorio concentrano la trama del reiterato accorrere a stilemi in coerenza di dettato. E’ sofferta e incessante ricerca di altro e di oltre, di un’aura femminile che sembra rievocare certe figure muse, angelicate, ritratte in percorsi poetici singolari quale fu, in un contesto mitomodernista, quello di un autore come Dorian Veruda, nelle conferme al dato ricettivo che concesse Rosita Copioli. Attenzioni quindi alle suggestioni della mancanza, quella che incide il segno quotidiano, libera l’invocazione e la domanda, “regala la rete dove la solitudine è furia/ che trascina la mia passione” scrive il poeta; decide le sorti di esiti in naufragio. Allora si affronta la difficile esperienza di saper interpretare tutto ciò che rifugge, che alimenta le strategie di risposta al disagio, quello che si accampa, che deturpa le possibili espressioni della nostra fuga impedita; accorpa i silenzi estroversi alla spazialità votati, determinando l’assedio costante che cinge i fianchi e allenta solo nell’attimo estorto della prevedibile resa, al timore esausto accogliente quei silenzi al rompere dell’alba, come tracciato in versi che furono di Francesco Marotta. Il sangue dirama segnali di ferite individuali e collettive, epoche segnate dalla rigenerazione dei propositi che ostentano consapevoli debolezze. Emanuele Bettini riconosce però il destino umanistico del tracciato: “persino l’acqua tra le pieghe della terra/ e più simile al volto/ che al deserto bagnato”. Un lirismo accompagna la pena del distacco dalle cose; il dicibile evoca l’accatastato oltraggio destrutturando il pensiero nell’opposta linearità del verso ed oltre... “c’è per tutti/ un po’ di pietà/ se il muro divide/ l’infinito dal cielo”.
Andrea Rompianesi
 

giovedì 11 giugno 2020

Alessandro Ricci “Tutte le poesie” (Europa Edizioni, 2019)

Singolare esito questo volume antologico, curato da Francesco Dalessandro, che ripropone l’insieme dell’opera poetica di Alessandro Ricci (1943-2004), figura particolarmente appartata e di profonda espressione stilistica. Il volume contiene i due titoli pubblicati in vita dall’autore (“Le segnalazioni mediante i fuochi”, “Indagini sul crollo”) e i tre editi postumi (“I cavalli del nemico”, “L’arpa romana”, “L’editto finale”). Come afferma Michele Ortore nella prefazione, la scrittura di Ricci è complessa ma per lo più “ragionativa”; aggiungerei particolarmente sofferta e attraversata da due corsi che anelano alla partecipazione esegetica. Da un lato la memoria storica e mitica che affonda le radici nei più articolati riferimenti all’antichità classica, dall’altro il personale e privato sentire posto all’offerta della pagina, l’io denudato da orpelli e svelato nel pudore del concesso; tale solo perché combattuto come ogni amore lacerato. Una connotazione evidente lo porta spesso all’uso calibrato del poemetto, ma sempre in una formula che riesce a valorizzare la tenuta timbrica del verso anche nell’approccio discorsivo, differenziandosi nettamente su questo piano da sviluppi e recuperi storicamente evocati da nomi e voci come avviene ad esempio nelle formule del monologo in versi proprio di un autore come Roberto Mussapi. Nella poetica di Ricci il tono è totalmente autentico, a volte irritato per una postura in esistenza mai scontata o prevedibile. L’appello della sua voce sulla pagina impone attenzione e domanda, quella ricezione accorta che scorge il guizzo esponenziale dove nasce inatteso. Al di là di un impianto ricco di sintagmi colti, latinismi, grecismi, arcaismi e tonalità policrome, quindi anche tracciate da espressioni più concrete e dicibili, una compattezza severa ed esigente conclude l’operato sulla pagina nel momento definitivo della delimitazione di ciò che svolge e che conquista inoltre il diritto alla vocalità immediata resa pensosa dall’uso dell’enjambement, dal dubbio che chiede prove d’amore impossibili. Ricci sembra quasi richiamare un dio a cui dice di non cedere, affacciandosi alla necessità della bellezza nella sua peculiare presenza in ogni cosa, pensando che la religiosità cristiana sostenga che bella sia l’anima sola. Tutto il contrario. E’ proprio il Cristianesimo, in realtà, quello autentico, che trova la bellezza nel concreto seme più piccolo, nella sua beltà creaturale ancora indifesa, proprio perché il cuore del messaggio evangelico ci rivela che il Regno è già tra noi, e qualsiasi intolleranza non può certo essere giustificata da chi ci invita persino ad amare i nemici. La domanda del poeta, allora, affonda nel solco della distribuzione di un bisogno emotivo, struggente e, allo stesso tempo, culturale, che sia auspicio di una vertigine pagata col prezzo della disputa, dell’irrequieto accadere dei crolli reiterati. Chi legge è spinto alla voglia di dialogare con l’autore, di soffermarsi su parentesi di trattato alla luce di una esigenza esistenziale misurata nella solidità di una figurazione mai gratuita, scontata; sempre acuta, invece, interrogativa, esigente perché mossa da quel rovello interiore e perenne che rivela l’intimità dell’artefice, lo nutre di squarci quotidiani e mitici che s’intrecciano. Particolarmente suggestivo anche l’uso del verso breve: “Nel golfo balenavano/ le correnti soltanto,/ in mosse pigre di nuvola”; quando è accorto il sentire di ciò che scuote, agita, “ed è già ieri, dilaga/ l’appena stato”, e ancora: “Poi ricomincia./ E’ una fine potente,/ spettacolare, da/ vergognarsi”. Il luogo, la topografia romana in particolare emerge in tratti estremamente nitidi e incisi, a volte quasi scolpiti da perizia nomade, perciò indocile: “Come hai fatto a estrarre un cielo/ dai tetti e rondini valorose e il colore/ ocra della città, o le conversazioni...”. Una maestria poietica concentra strutture lessicali in imprevisti innesti che rendono acuti e profondi i confini della versificazione e positivamente stupisce il tocco maturo del rimando: “Già dunque oltreautunno è arrivato qui,/ è carica la strada di gente calda/ sotto i cappotti e che chiasso bene o male/ si leva, tamburo assai più di pifferi cresce/ e sale ma non sbarazza/ questo freddo improvviso...”. Il tono di Alessandro Ricci è temerario, le sue strofe sanno dirsi pensanti e variabili nella lunghezza, in una conduzione abile e attenta del periodo; riavvolte nell’abdicazione a ciò che imprime l’usuale, scegliendo il recupero accolto nelle trepidazioni che guardano a storie e cenni proponenti le peculiarità dei riflessi classici di miti trascinati sulla strada randagia del vissuto, e quando le parole si fanno più comuni e transitabili è allora, in quel momento, che l’avvenuto rilascio pone i vocaboli in una successione imprevista. Li mischia nella concretezza del loro essere scrittura di pensiero. A volte, in lontananza, sembra di cogliere echi della poesia di Leopardi e Pascoli, annunci di un cammino nella vanità del tutto sul far della sera. Ricci è autore che incide i suoi versi sulla pelle del vissuto, in una partecipazione che non può dirsi mai parziale, ma interamente testimoniata dalla stessa forza di una corporeità gettata nello spazio della pagina quale luogo da abitare nella consapevolezza dello stesso rischio esistenziale. “Vissi della corona sul picco,/ il tempio nell’astratta nube/ di devozione che saliva, scoprendo poco/ a poco la linea di confine errante/ fra mare e rena, nella stagione nata/ insieme al giorno, all’ora...”; è l’erranza quindi in una visione duplice del vagare e del poter sbagliare, in una profonda domanda che incunea e svolge inquietudini agostiniane. C’é poi un senso di rimpianto diffuso echeggiante figure femminili, amori che hanno deluso; domanda sulla possibilità di trattenere qualcosa che inevitabilmente sfugge o non mantiene la peculiarità della promessa. I tempi si avvicinano, s’intrecciano; la sofferenza di Catullo è quella del contemporaneo sentire che ridisegna le agnizioni e ripete i timbri inagibili del rifiuto, dell’attardato ritrarsi, dell’inappagato contorno. Molto evocata la figura del padre, un riferimento di forte ausilio, una memoria esperita nella disanima del legame apparentemente perduto, scrive Alessandro Ricci: “E poi mai, mai/ potrò dirtelo e toccarti di nuovo”. Ma noi sappiamo che ogni bene consacra, rimane; così confidiamo in un incontro avvenuto, presente, notando che ancora “laggiù si leva/ il fumo delle colazioni”.
                                                                                                                                               Andrea Rompianesi