Andrea Rompianesi
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
Andrea Rompianesi
“Come un romanzo” è una silloge di poesie che offre la visione di un viaggio da percorrere, o ripercorrere, attraverso luoghi, persone, accadimenti. Un reisebilder a tutto tondo in cui traspare fin dall’inizio il senso della vita con i suoi misteri, intoppi, piacevolezze, felicità e tristezze; in cui le volontà di conoscenza e accoglienza di nuove esperienze rimuovono le difficoltà e le afflizioni che nel corso dell’esistenza possono intralciare il cammino. “Ancora un viaggio / ancora miraggi / tu vicina tu lontana / e il pensiero va / folle ossessivo, / mentre la mia voce / muta rimaneva”. Il segno del tempo e del viaggio viene dettato fin dalla lirica iniziale “Pula”, una specie di richiamo testamentale dove, affermando il valore del vivere quotidiano, con tutto ciò ovviamente che comporta, si passano in rassegna affetti, amori, incontri, problematiche e soddisfazioni. “Prima di morire/ barolo nebbiolo / barbera // E la terra mi accoglierà / fragrante / festante // (…) Scorre il Bisagno/ di sangue / irrorato (…)” Le liriche che seguono costituiscono un flashback attraversato a volte da desideri che si avverano, a volte da malinconiche considerazioni su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, a volte da scontri con un destino che sembra accanirsi proprio quando divieni più arrendevole e consapevole. “Povero Vittorio, mio Capitano, / perché il tuo letto ora è vuoto?” “Un giorno di Maggio / scivolò e in deliquio cadde / sulle piante di lavanda / in Provenza / tanto sole / tanti odori / tanti colori // (…) Non sa non dice / Lada non è più / la mia Lada”. Significativi sono i ritratti delle persone. Ribadisco persone, non personaggi che come spesso accade sono semplicemente delle maschere teatrali. Le persone infatti mantengono intatta la loro identità reale perché appartenenti allo stesso mondo del poeta e alla sua storia. “Gli occhi ha mirabolanti / occhi lucidi, verdi, cangianti / occhi con gocce di rugiada / sulle ciglia e voce fantasma / a ripetere (…)” Le medesime persone assumono una propria dimensione attraverso lo scambio con il paesaggio o i paesaggi che Giannone ha affrontato e interiorizzato. In tal modo gli ambienti diventano un tutt’uno con la vita, la storia si esprime nel rapporto con i luoghi visitati, amati, desiderati. Dai luoghi di sofferenza per eccellenza come il sanatorio di Villa Trezza presso Domegliara (Verona), dove potersi abbandonare in toto per guarire immergendosi nel sapore sereno della natura e degli uomini, ai luoghi di lavoro, come Bologna, in cui si rammenta l’esperienza da presidente d’esame, “Loquaci i colleghi / simpatici i ragazzi / ti guardano curiosi / sorridono / mi dico, spero che siano / tutti promossi”; o ai luoghi di felicità matrimoniale dove prevalgono manifestazioni d’affetto “In un cinema di periferia / due mani si strinsero fortemente / come mai prima / e il timore di rompere l’incantesimo / mi vietò di sfiorarti con le labbra”. Insomma, il romanzo evocato dal titolo si traduce in una personale passerella che induce in profonde riflessioni sull’esistenza, propria ed altrui: momenti, infine, che non vanno sprecati ma affrontati con raziocinio e ardore, dove il sentimento fa da tramite ineludibile al film della vita stessa. “E’ stato un tempo lontano, sempre / in luoghi reconditi i ricordi scavano / per emergere furenti impietosi, / ritornano per rivedere un volto, / un ciocco di capelli carezzare, / per ascoltare una voce una parola, / ripercorrere una via un ponte, / un bacio implorare, non dimenticare”. Enea Biumi
Giorgio Bonacini, poeta di particolare qualità e consistenza
stilistica, propone questo esito “I segni e la polvere” nella definizione di un
sottotitolo che allude a percorsi ritmati in 52 poesie “distrattamente felici”.
Qui, il verso breve, limpido, essenziale, nella connotazione visibile del
sintagma, nel verticalismo strutturale, nella lieve fonetica dell’assonanza
così come nell’osare della rima, imprime alla pagina una espressività icastica
che rimanda ad una conseguente attenzione riflessiva. L’immediata sensazione è
di trovarsi di fronte ad un intreccio di prospettive che sorprendono
nell’accostamento rapido e profondo, denso nella sostanza effusiva contemplata
nei particolari esigenti; ben sapendo che “non è la distanza/ né il muoversi/
troppo che assorbe/ nel ritmo/ un tamburo di guerra/ ma ninnoli e note/ nel
canto alla terra”. Sono attese di risposte nelle peculiarità delle piccole
incisioni, nelle ferite, nei prospetti cromatici accesi dagli accostamenti di
una sinestesia armonica: “i tuoi mille profumi/ li vedo giallissimi”. Un verso
breve che nella veloce successione scava ogni volta una profondità evocativa.
E’ trovare traccia di un assenso interpretante il valore della mitezza quando
essa sa osservare contemplando, interrogare esprimendo. L’elemento naturale si
ritrova lungo il percorso degli accostamenti in un sorvegliare liricamente le
genesi e le mutazioni, così come gli esiti, in una volontaria ermeneutica dei
dati materici accuditi e rivisitati. Giorgio Bonacini sa dosare la limatura del
verso con estrema perizia, lasciando volutamente un aere sospeso, dove lo
spazio della pagina sembra costituire ampiezze ulteriori, margini di accenni
non detti ma intuibili. E sono, a succedersi, segni di neve e chiarori, sabbie
e pietraie, venti e smanie, ma anche impreviste farfalle incuranti, tracce di
una gradazione di risorse a volte diafane, altre incise, che corrispondono a
passi rivelanti la tersa complessità del sentire oltre l’immediato. L’autore
coniuga l’attesa con l’intuizione accorta “in fumogeni d’arte/ o di lingua/ e
in fittizia clausura/ nei versi aggrottati...” quasi un esperire il senso
autentico di un’ estetica che si è sempre più rivelata una valutazione del
sensibile, in un suo definibile equilibrio. Gli accostamenti dicibili
avvicinano esperienze sensitive diverse e inattese che esortano a pensieri
capaci di riformulare le visibilità in considerazioni curanti una genesi
partecipativa, evolvente, scandita in atti che comportano processi analogici.
E’ quasi un contenersi sulla pagina per innestare propositi di accostamenti che
richiedono una esegesi al di là delle fratture e delle scomposizioni. Poi
diventa necessario porsi una domanda sull’oltre e sul senso, che sorge
spontanea, inalienabile, dopo la sintesi di un’osservazione durante la quale
“si mastica l’acqua/ per giorni e per notti/ si guarda all’insù/ con la mente/
racchiusa in un cielo”. La rievocazione è subitanea affiorando alle foci dei
calori avvertibili, nella impossibilità di determinare gli eventi, ove sono i
ritmi spesso chiusi che disperdono i segnali riproducibili e le contaminazioni
collocabili in aree altre rispetto alle nostre stesse percezioni. Le assonanze
evocano ritmi allusivi e pertinenti dissolvenze, attraverso le funzioni
caratterizzanti la dinamica della stessa attenzione. Emerge la possibilità di
cogliere il proprio limite nell’ancoraggio a segni devianti il mirare, dopo
collocazioni inagibili e restie a decifrare i tumulti del cuore, così come la
scansione riprodotta dalle sillabe nell’ora della vulnerabilità, della
riduzione dei passaggi. Giorgio Bonacini vede il nostro procedere “in
solitudine/ all’interno/ di un calvario minimale/ o di abitudine”. Vi sono
misteri quotidiani da decifrare, allusivi ritorni all’incedere franto; come, a
volte, è inevitabile accorgersi di percezioni fertili in mitezze d’aurore e
smarrimenti d’esilio.
Andrea Rompianesi
In una nota finale ed
esplicativa di questa silloge Fabio Scotto ci ricorda la sua idea di poesia,
che rivela poi il suo modus operandi,
e cioè: “costante fedeltà all’autoascultazione
del corpo, della sua voce e dei luoghi del mondo”. Che didascalicamente
tradotto significa privilegiare il campo dei cinque sensi, come insegna la
lezione leopardiana. In effetti non c’è pagina in cui non si presenti la
materialità ontologica che si trasmuta, per magia di parola, in una visione
meramente pura, scevra dai ceppi illusori della semplice realtà, la cui
scaturigine sperimenta un’idea totale della scrittura intesa come poetica,
teatrale, lirica. Si innesta così una specie di non-luogo, di non-tempo (o
meglio: oltre-tempo), che si dipana nel duplice binario antipodale: hic et nunc, da una parte, e ascesi inesprimibile,
dall’altra: al pari di quella zattera
gremita d’invisibile di Raboni.(1)
Il trait d’union che
agisce da stimolo, sia di lettura che di scrittura, è il sentimento (desiderio,
voglia, urgenza, tensione) d’amore. Si potrebbe nel concreto partire da questi suoi
due versi, inclusi nella lirica Le parole,
come ex ergo o incipit di critica al volumetto: “Ti dico ‘amore’, rispondi ‘amore’/ E già la sera è più serena”. Sì,
perché l’amore la fa da padrone (mi si permette la semplicità di questa
espressione), risultando il dominus indiscusso
e riconosciuto di tutta la raccolta poetica, l’elemento centripeto e
centrifugo, colto in ogni suo spessore, nella sua poliedrica consistenza e
nella sua necessaria ambiguità.
Nel pezzo iniziale,
altamente drammatico, e che dà il titolo a tutta l’opera “Storia di Emma C.”, la protagonista, Emma appunto, racconta la
propria vita di fanciulla povera, dove la fatica del quotidiano e la miseria si
accumulano di anno in anno. Mentre i genitori non tralasciano di azzuffarsi,
anche per un nonnulla, Emma si ritaglia uno spazio tutto suo, un recinto di
protezione che sarà alla fine spezzato, una volta raggiunta la pienezza di
donna, dalla violenza e dallo stupro del padre su di lei. “Io che ti amavo se mi tenevi in braccio/ se mi donavi bambole di
pezza, o un gelato/ eccomi lacera e vuota/ qui tra la latta e il vetro/ nel
silenzio del sangue…”. Il padre verrà denunciato e portato in galera, ma la
povertà costringerà la protagonista a prostituirsi. “Il mio corpo è altrove/ persa
ne è la chiave/ Così Emma C. muore…/ Cercatemi nella gola di mio padre/ Nelle
tomba degli elfi/ Nella bava del sole”.
Questo monologo teatrale(2)
mette in luce, come in un metaforico caleidoscopio, l’ambiguità dicotomica insita
nel concetto d’amore, rivelando (è il suggerimento dello stesso autore) un non lieto fine, quell’impossibile su cui insiste la filosofia di Georges Bataille.(3)
E non c’è chi non veda che la realtà si trasforma, oltre che in denuncia, in
intensa riflessione sui comportamenti
umani. Ecco lo scarto di cui parlavo inizialmente. I luoghi, i personaggi, le
azioni diventano ipso facto universali.
Sforano in un oltre, immateriale, dove la carne si fa coscienza e la parola
assume la probità della ricerca della verità.
Allo stesso modo possiamo
intendere gli altri capitoli del volumetto, forse meno drammatici ma comunque
sinceramente vitali e di interesse. Così il “Diario
di Ciutadella” diventa l’occasione per un dialogo d’amore con il padre. Qui
l’elemento autobiografico prevale chiaramente, tuttavia non pregiudica la prosa
poetica, rimanendo sempre in un ambito “alto”, come se Fabio Scotto ritraesse
se stesso e il proprio padre, in una sorta di linea d’ombra del ricordo, non
tanto per speculum in aenigmate
quanto dentro lo specchio medesimo. “Carrer
del Portal de la Font/ Carrer del Dormidor de las Monges/ Una panchina riflette
la mia ombra/ Basta poco, purché la vita duri”. In tal modo la meditazione
non è solo sul rapporto d’amore fra padre e figlio, sui loro gesti, sulle loro
aspettative o intenzioni, bensì uno scoprire che al di là del muro, che li ha
separati, la vista si spalanca su nuovi orizzonti, offre infinite letture. E
c’è un passaggio, nel diario, da non sottovalutare, perché rinforza l’immagine
di un poeta non astratto, non lontano dalla realtà, anche quando parla di se
stesso. Lo cito nella sua completezza perché dimostra, se ce ne fosse bisogno, come
la poesia, quando è veramente tale, non è né cieca né sorda. “Altri pianti di bambini meno udibili e meno
visibili solcano in queste ore il Mediterraneo su vecchie barche sovraccariche
di carne umana votata al macello, la cui vita conta ormai meno di nulla e non
godrà della misericordia dei pescecani (i peggiori sono quelli umani). Ecco
la vita in tutta la sua complessità, con tutte le sue ferite, nei suoi momenti
più brutali di una morte ingiusta. Forse per questo si rende necessario
proseguire, continuare, ridisegnare nuovi spazi, nuovi progetti, nuovi
dialoghi. “La vita è un hangar dal quale
spicchiamo voli senza senso./ Il senso, se c’è, padre, sta nel volo, non nella
meta, né nel consenso (maestra fu da sempre in tal senso l’Itaca di Kavafis)”.
Un altro capitolo di
questa raccolta poetica si intitola “Trittico
lericino”. In esso il poeta, di origini spezzine (importante sottolinearlo),
ritrova i colori e i sapori della sua terra natale e soprattutto si congiunge
idealmente alle orme di artisti che di quei luoghi hanno valorizzato il nome. “Qui sono nato/ nel Golfo dei Poeti/ dove
ogni hôtel/ si chiama Byron o Shelley” Per continuare nei versi successivi
con una nota di melanconica autobiografia, come se, magari inconsciamente,
volesse stabilire quasi un confronto con l’esperienza di chi, poeta, l’ha
preceduto: “E la Venere che invoco ogni
mattina/ ancora tarda/ ancora non risponde”.
Molto più esplicito,
invece, è il rapporto con la sua Venere (F.) nel capitolo intitolato Movenze. Si tratta di una sequenza di
amore erotico che il verbo poetico sublima ed isola in istanti di fermo
immagine, dove però non viene meno la consapevolezza che qualcosa forse domani
potrà mancare: il tempo, l’anima, il corpo? “Prendimi
il sangue delle labbra/ la febbre feroce che mi salva/ Domani poi saremo nulla/
Ora cullami nel volo/ lubrica tua fanciulla.”
Nella sezione successiva Flamenco l’amore s’intreccia alla danza,
s’incontra nel canto, si abbandona al ritmo sensuale delle chitarre. È un
turbinio d’immagini sempre in movimento, un accumulo di sensazioni uditive e
visive che trascinano il lettore entro le tipiche taverne spagnole dove il
flamenco è il re della serata. Rivivono suoni e movenze: afrodisiaci momenti. “Non tori, né banderillas/ solo lei che
fugge/ o lui che non la piglia/ il cerchio si stringe/ tintinnano caviglie/ e
palme sulle cosce/ tonfi di pece sul costato.” La bravura poetica di Scotto
in questo caso, ma non solo, si rivela in tutta la sua dimensione. L’andamento
della lirica segue l’andamento del flamenco, il trasporto è immediato, non c’è
tempo per respirare o per pensare: esiste solo quel momento, immerso nel ritmo
incessante dei suoni e della danza. “Ma tu
danza/ sul mio cuore ferito/ danza, danza, danza,/ sul mio cuore rinato/ danza,
danza, danza/ contro il freddo che sento/ nel silenzio del mondo/ con la voce
del vento/ tu sia amato tormento/ Flamenco.”
L’ultimo segmento della
raccolta, Nostos, rievoca i luoghi in
cui l’autore è stato, le sensazioni avute, il rapporto con gli altri e in
particolare con l’altra. Le città visitate diventano àncora di salvezza, forza
per proseguire, invitano alla coscienza di un sé intelligente nella conoscenza
del mondo. “Sapermi solo/ Ma è solo un’ombra/
nel blu del tuo bel riso/ Wisla, viso, vivo, scrivo”. Questa, dunque, la
consapevolezza del poeta che, immerso nelle contraddizioni inquietanti della
vita, riporta alla luce ciò che spesso non vediamo e non udiamo perché le
parole che quotidianamente sentiamo sono distanti dalla verità e non ci permettono
di percepire la realtà. Per questo il ritorno, non solo fisico bensì
spirituale, non è mai inutile o scontato: è la percezione che qualcosa di umano
ancora rimane: è la forza della poesia. “Nostos
l’amore/ Nostos ogni primo fiato/ l’esilio espiato/ tra orde di aguzzini in
foia/ e gente che muore in strada/ d’inedia e di freddo/ frollata dal vento
della storia”.
Enea Biumi
1)
Giovanni Raboni, Quare tristis, Mondadori, Milano, 1998
2)
Storia
di Emma C. è stato rappresentato dall’attrice Eugenia Marcolli,
con adattamento e riduzione, al Teatro Santuccio di Varese, il 24 novembre
2019, per la regia di Nicola Tosi.
3) “Il progetto di raccontare il
desiderio umano diviene un ricettacolo del torbido che spalanca una rivelazione
inedita delle nostre esperienze interiori, il loro dialogo con la violenza, il
gioco, il teologico e l’ateologico”. (….) “….la speculazione di Bataille si dispone
intorno alle privilegiate esperienze di naufragio dentro cui l’uomo può
sperimentare una differente versione di sé, aliena ai codici razionali dentro
cui la storia lo ha adeguato. L’indocilità della nostra parte sacra e maledetta
coinvolge Bataille in un inseguimento dell’impossibile fatto di silenzi,
ingorghi concettuali e poetiche esplosioni di riso che erodono le norme discorsive
e l’autenticità stessa delle strategie con cui invano tentiamo di disciplinare
definitivamente la nostra inquietudine erotica.” Tratto da: Georges Bataille: la mistica
dell’osceno, tesi di Laurea di Diletta Caimmi, anno accademico 2016-2017, Università
di Bologna, relatore prof. Vittorio D’Anna.
Gli Stati Uniti d’America come luogo a cui rapportarsi
dall’Italia, nelle articolate vicende di emigrazione che hanno caratterizzato
la nostra storia. Luciano Cecchinel, in questo suo esito di poesia “Da sponda a
sponda”, rivisita il dialettico rapporto con il paese che ha dato ospitalità a
parte della famiglia materna e dove è nata e ha trascorso l’infanzia la madre.
L’esperienza, in seguito avvenuta, di visita delle terre statunitensi da parte
del poeta, concede uno spettro di emozioni che sviluppano sentimenti alterni;
da una iniziale componente nostalgica ad una successiva disillusione e relativo
distacco. Cecchinel esprime efficacemente il riaffiorare delle immagini
registrate e interpretate nella calibratura dei versi: “Muskingum River/ acqua
pigra e melmosa/ la ruota del battello/ le pale sbrodolanti/ bocca mostruosa di
ingordigia”. Qui il sogno americano è trascinato a terra, nella polvere e nella
sofferenza vissuta dai migranti; da chi in quei luoghi cercava uno spazio di
sopravvivenza, di riscatto, lungo i territori dell’Ohio, del Midwest, come a
New York o nel New Jersey. La successione delle strade abita il quadro
riprodotto di uno sviluppo dei segnali che determinano il tracciato della mappa
nella rivisitazione aperta oltre l’iterazione del profilo di riferimento anche
quando il verso trova nel suo sviluppo orizzontale l’estensione narrante: “le
farms che corrono lungo una collina e ai piedi della collina sterpi/ e poi
colline a perdizione boschi radure cespugli quasi un paradiso”. Sembra un
lamento antico in odore di tono biblico, evocante esodi ma anche un “melting
pot”, un crogiolo di culture che spesso si ritrovano a convivere nella
difficoltà dei rapporti. Si susseguono spunti tratti dalle vastità raccolte e
determinate dagli influssi di una ricezione che evoca la partitura di un
Whitman; tende a ridisegnare le durezze abbinate agli strati rocciosi, alle
vibrazioni operose che conducono attraverso le successioni innescate dalle voci
disperse. Nella seconda parte del libro lo scenario si sposta presso
Revine-Lago, paese in provincia di Treviso, luogo di nascita dell’autore. Qui è
analizzato anche il senso di sofferenza espresso dalla madre Annie che, nata e
cresciuta in terra americana, aveva poi dolorosamente dovuto lasciarla per
rientrare in Italia. Il rapporto con le proprie radici comporta quindi
differenze e stati d’animo relativi alle personali, mai ripetibili, sensazioni
accelerate dalle vicissitudini subite e riaffiorate nella visitazione intima,
come tratto indicante l’evidenza del percorso collegato alla esegesi dei
luoghi. Anche il ricordo di soldati americani di stanza presso una base veneta
e poi inviati a combattere nella guerra del Vietnam, conduce Cecchinel ad
esprimere strofe che si rispecchiano in segnali traccianti le contaminazioni
culturali che diventano riconoscimento di sentimenti comuni. I segni
topografici racchiudono segnali di memorie, dove il testo è profondamente
innestato nelle vicende familiari del poeta. L’asperità dei recuperi dilata
travagli, gli spessori inesausti dove arde la domanda primaria frammentata e
dispersa fra le proponenti attese dimentiche della possibilità di un conforto.
L’ora insinua l’attenzione alle relazioni, alle opportunità mancate, oltre
l’evidenza dei tributi offerti alla storia personale calcata nella contingente
faticosa immanenza. Il luogo diviene quindi correlativo fonetico, concreto
nella sua leggibilità visiva. Un’ermeneutica del bisogno infrange ogni
proposizione asettica e nutre invece la carnalità delle emozioni così come
l’acuta critica disincantata e amara. La terza parte del volume sviluppa una
poesia a tutta pagina, una forma di lungo “talking blues” dove un intreccio
linguistico di italiano/inglese evoca molti spunti e riferimenti alla cultura
americana nella tonalità musicale che rimanda al tono country, così come allo
slang italoamericano, ai ritmi dello spiritual e alle espressioni del blues,
jazz e delle voci di una componente tipica del folk singer. Ma anche spunti
drammatici che si soffermano sulle atrocità del conflitto in Vietnam o sulle
ingiustizie delle discriminazioni razziali. La corporatura compatta delle
strofe si trasforma in successione di poemetti dove il tema dei rapporti
famigliari, le sofferenze della lontananza si intrecciano con le tonalità amare
delle solitudini, profonde anche nello scenario variegato della cosiddetta
terra delle libertà: “perché sommesse hanno ansimato per le loro foglie di
nuovi alberi/ tristezze di spossatezza e nostalgia e sussurrato ossessi uccelli
le/ cantilene di nazioni straniere non più devono piangere quegli/ occhi di una
perduta età”. Davvero allora, nella complessità policroma di un sundown medley
(letteralmente miscuglio del tramonto) Luciano Cecchinel si chiede “ quale quale il senso? vero
falso celato?” attraverso la
vasta proporzione di un affresco che include lunghe citazioni e non elude mai i
contrasti e le contraddizioni su di uno sfondo disegnato da “la terra sassosa
gialla rossa bruciata along the Navajo Trail il filo d’acqua/ sul fondo del
canyon baracche con le cisterne per la pioggia...”.
La silloge poetica di Livio Bottani “La memoria e l’oblio” presenta in modo
abbastanza articolato un percorso per lo più esegetico in cui il verso, dalla
riformulazione classica dell’endecasillabo alla apparente libertà discorsiva,
si distende in una connotazione ragionativa. “Ora sai che non si sfugge/ al destino,/ ora sai che la nebbia e il
grigio/ non sono stati fugaci/ fenomeni d’antan,/ ma avvolgono la tua vita/ con
una fitta coltre”. Non mancano, però, come sostiene Gros-Pietro nella
prefazione, elementi caratterizzanti la lirica, come ad esempio allitterazioni,
metafore, sineddochi, enjambement e via dicendo, ma ciò che maggiormente
suggerisce la lettura di queste poesie è una visione d’insieme filosofica ed
esistenziale, là dove il poeta ricostruisce se stesso in una formula dialogica
denudata e denudante per riscoprire una specie di comun denominatore delle cose
e del mondo. “Vorremmo credere che la parola sia/ per mettere ordine nelle nostre
anime/ disturbate dall’inesperibile;/ che ogni figura raccolga il senso/ di una
sfida all’inesplicabile/ nella contesa delle interpretazioni/ che partoriscono
mondi interi”. L’uso della memoria ci porta in anfratti storici e mitici,
reali e possibili, contribuendo a delineare un cammino interiore anelante la
verità dell’essere, disvelato in un pudore di affetti che recuperano ricordi
non solo personali, bensì universali. Qualcuno direbbe che il re è nudo. Ma in
questo caso il re è il poeta che si confronta in quotidiane battaglie, che
affronta il lettore per risvegliarlo dall’intorpidimento, annebbiato ormai da
una pluralità di voci e di consigli che tendono ad infiacchirlo piuttosto che a
sostenerlo. “Non pensavi davvero/ che
avresti nuovamente permesso/ alla musa di incalzarti”. E ancora: “Povera e nuda se ne va la filosofia// (…) La poesia dovrebbe scaldare
la pietra,/ col suo arcobaleno scaldare il mondo,// (…) Che non serva a niente/
e non sia serva di nessuno/ lo si sa bene e lo si mette in conto.// Non doversi
vendere al mercato/ va a suo onore in tempi in cui/ l’unico valore sta proprio
in quello”. In tale situazione un rifugio che Bottani suggerisce è il mondo
classico, ribadito nella ripresa di poeti latini – Orazio in primis – e della
loro concezione della vita, ma un mondo classico per nulla lontano da noi.
Anzi. Del tutto assimilabile al nostro esistere. È il caso di famosi rimandi
che, visti in un’ottica moderna, suonano altrettanto validi e affatto scontati.
“È l’incurvarsi del tempo/ che spaventa,/
sapere che niente potrà fermarlo/ restituendogli il suo sentore antico.// (…)
Avendolo perduto,/ non resta che il presente,/ da vivere nella sua pienezza/ di
memorie, illusioni e attese.” Non c’è chi non veda in questi versi il “ruit hora sine mora” delle meridiane e
l’oraziano “carpe diem”. E nella più
classica delle tradizioni la silloge si apre con un proemio – In memoriam – che offre il la a tutta la raccolta e ne valida il
racconto introducendo una specie di contrappunto alla scrittura poetica – in
musica si parlerebbe di basso continuo. La
nota prevalente è il nero che sommerge ogni cosa: la luna, gli albori, gli
sguardi e soprattutto i poeti, la loro voce, il loro respiro, la memoria
stessa. “Neri fiocchi e luna nera,/ mare
malato di notti senza risvegli:/ non c’è barlume che porti/ al di là di questo
oceano tenebroso,/ che possa vincerne l’oscurità,/ dissolvendo tutto il dolore/
che si distende ammorbante sul cantore,/ coperta vischiosa dell’afflizione,/
latte nero degli albori/ in cui è annegato il poeta.” L’opera prosegue poi
in tre tempi, altrettanto topici: papaveri
e fiori di loto, pietre d’inciampo, pensieri come fuchi. Il file rouge che organizza e conduce il
contenuto si dipana in cose concrete (fiori, pietre, fuchi) ma si risolve in
meditazioni e domande. “Ma di che si
vuole restanza se non dell’io?/ Rinunciare a esso e alle sue ubbie/ non
corrisponde forse a un assottigliarsi?/ a un affilarsi? a un angelicarsi?”
“Alla fine che resta dell’assottigliarsi/ e del non voler assottigliarsi?/ Una
storia di preghiere e di dubbi,/ di scommesse e di rilievi sospettosi,/ di fede
e scetticismo senza soluzione.” La policromia delle situazioni reali,
allora, sembra affacciarsi in una universalità di sentimenti accomunati da una
indubbia religiosità – non necessariamente quella cristiana – che insiste sulla
specificità dell’uomo, quell’essere triste
animal post coitum, che indugia in quesiti dopo millenni ancora irrisolti, che
si inalbera in reiterate e irrequiete dispute di vita e di morte, di perdizione
e di resurrezione. “E così abbiamo
pregato e pregato:/ volevamo capire chi eravamo/ e cos’erano gli altri,/
carpendo il segreto delle nostre vite.”
Enea Biumi
Non si tratta solo di un giallo noir. O per lo meno.
L’apparente situazione delittuale offre lo spunto ad Aru di presentarci
un’umanità borderline immersa in desideri, appagamenti, afflizioni, recitante a
sua volta un copione di inespressi bisogni, strani appetiti, oggettive
mancanze. “Sulla scia del vento” che dà il titolo al romanzo è l’incontro
empatico che avviene tra due individui: meglio, tra un ego e un alter-ego,
entrambi portati a riflettere sulla condizione del proprio passato. Si innesta,
allora, una serie di considerazioni sulla ineluttabilità dei gesti, sulla
distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, sul dovere, sull’amore
filiale e coniugale: più estesamente sul bene e sul male. Non per nulla,
all’incirca alla metà del romanzo, si legge come una parentesi: una meditazione
che coinvolge in termini teologici la missione di Cristo e la riflessione sul
tempo. “L’idea che mi ero fatto sul
concetto di tempo somigliava molto a ciò che Gesù diceva di se stesso e
predicava agli altri.” Ecco la
parola chiave: il tempo. Su questo il protagonista (o meglio, i protagonisti –
ma non voglio svelarne la trama) si interroga nei momenti di pausa tra
un’azione e l’altra; su questo si concentra il delitto che ammorba gli animi
scaraventandoli in un turbinio di “se”
e di “ma”, tormentandoli in un continuum di chiaro e scuro; su questo
l’io narrante si erge a paladino della verità. Ma qual è la verità? E’ un
anello di grande valore ereditato a cui siamo costretti a rinunciare? E’ il
valore dell’amicizia? E’ la parola data e non concessa? E’ l’ingiustizia che
costringe all’omicidio? E’ l’imbroglio che ti porta a mentire? E’ l’odio del
figlio nei confronti del padre? E’ la situazione emergenziale che ti ha scaraventato
sul lastrico, inibendoti gli affetti famigliari? Tante sono le domande che
possono contornare il tessuto del racconto in cui il lettore si insedia
partecipando e parteggiando ora per questo ora per quello, fino alla
riflessione conclusiva che l’autore pone nell’epilogo, dove un sentimento su
tutto ha la prevalenza: il perdono. Esso infatti è “una gemma preziosa che nasce non dalla ragione ma dal cuore”, “è un
gesto di carità con il quale salviamo
noi stessi dalla disperazione”, è la salvezza che sa “trarre dall’odio una speranza di vita.” Lo sfondo di tutto ciò è
una Cagliari moderna che entra nel gioco psicologico dei protagonisti e che ne
circonda figure e pensieri, adagiandosi nella scrittura di Aru quasi a
raccoglierne agitazioni, pressioni e incubi. La minuziosa descrizione dei
personaggi e dei loro gesti, la capacità espositiva ed analitica dei luoghi e
dei paesaggi, supportano l’intreccio narrativo del romanzo, sostenendone la
trama e il tentativo lodevole di mettere in primo piano sentimenti, psicologia,
eticità: i veri protagonisti di una storia caratterizzata dal delitto e
sottolineata dalla rinuncia al castigo o alla vendetta in nome del perdono.
Enea Biumi
“Non
è mai facile raccontare sé stessi ed avere il coraggio d’esporsi al giudizio di
chi ignora non conoscendoti”:
così Gianfranco Galante introduce le sue pagine di diario, mettendosi a nudo e
a disposizione del lettore. Sono pagine di memoria – è ancora l’autore a
giustificarsi – perché “il ricordo è parte del vivere del nostro presente e
ci accompagnerà nel futuro quando il presente sarà passato”.
Galante, in effetti, non è nuovo alle rivelazioni
del sé. Come poeta, infatti, ha già abbondantemente abituato il lettore al
racconto delle sue emozioni. Con la prosa, però, l’operazione assume una
connotazione centripeta ancorché compiuta. Il sé diventa l’elemento da
scandagliare pagina per pagina e, pagina per pagina, il discrimine fra ricordo
e sentimento si fa consapevolezza di vita e di crescita costante. La strada,
quindi, che l’autore vuole percorrere, ha da situarsi proprio in quei momenti
fondativi che sono l’inizio di una esistenza che il destino gli ha preparato e
che lui perlustrerà fra valori e affetti irrinunciabili.
“Ho voluto raccontare storie di
vita vissuta, riflessioni personali, piccoli cenni storici; offro la
conoscenza, a chi interessi, di un po’ di me” suggerisce, visualizzando
poi un fuoco di lettura che ci permette una migliore comprensione del testo. E in
ciò disvela un binomio ben rilevabile e affatto trascurabile: la Sicilia – del
cui imprinting va fiero e orgoglioso – e la famiglia – che gli ha trasmesso i
valori di libertà, onestà e amicizia.
Si tratta, allora, di un viaggio della
memoria. Ma si sa che il viaggio, nell’antichità come nel presente, è un topos
per indicare crescita e consapevolezza. Ulisse, Enea, lo stesso Telemaco, per
colpa degli dei girovagano tra un porto e l’altro in mezzo a mille pericoli, ma
alla fine raggiungono la propria meta più consapevoli e più forti di prima. In tempi più vicini a noi On the road di Jack Kerouac offre il medesimo risultato. almeno, questa è l'idea di John Leland, accettata e adottata anche da altri critici, dove si sostiene che si tratta di un romanzo ricco di lezioni su come crescere. Se vogliamo rimanere
nell’ambito della formazione, non mancano esempi di viaggio anche in campo
religioso. Le antiche
religioni politeistiche, per esempio, prefiguravano iniziazioni attraverso
viaggi di mistero che rafforzassero l’anima e il corpo. Dante ci fa
attraversare, a mezzo del suo cammino, inferno e purgatorio per raggiungere il
paradiso, cioè la piena consapevolezza del sé.
Ecco, allora, che il catecumeno Gianfranco
ha la sua iniziazione in questo viaggio-memoria nella terra siciliana. E lì si
riconosce, come direbbe Ungaretti, docile fibra dell’universo. Lì si intrecciano
e si intersecano i rapporti umani, col vicinato, con i parenti – passati,
presenti e venturi – con gli amici o con emeriti sconosciuti. Lì il
protagonista cresce ed impara, accompagnato da ampie e sincere riflessioni sul
perché della vita e della morte, della violenza e della sopraffazione, dell’amicizia
e del perdono, dell’ipocrisia e della pazzia.
La sua formazione avviene negli anni
sessanta – l’autore è nato nel 1964. Ed oggi – dichiara – sembra trascorso un
secolo. Lo ribadisce spesso. La sua sicilianità sta in questo atto di fede
assoluta a quel mondo e a quei modi d’essere e di pensare. Mentre in Italia, al
nord, che a tratti frequenta e che diverrà dagli anni settanta in poi la sua
dimora definitiva, è già in pieno sviluppo il boom economico e industriale, la
società del sud vive ancora in tradizioni ancestrali e condizioni lontane anni
luce dal progresso. E Galante preferisce questa a quella, perché la sente più genuina,
meno artefatta, più naturale. Ci sono disagi, è vero. C’è un’apparente maggior
povertà. Ma c’è una ricchezza di umanità incomparabile a qualsiasi altra
situazione.
Significativa e paradigmatica è la
contrapposizione tra abitudini e comportamenti diversi se non opposti tra nord
e sud. Non c’è un giudizio di valore, beninteso. Entrambi sono accettabili
perché nascono e si sviluppano in contesti diversi. Può essere emblematico
l’episodio che Gianfranco narra del suo arrivo per la prima volta all’oratorio
di Sant’Ambrogio in Varese. Vede ed osserva ragazzini della sua età che non
fanno baccano, giocano senza insultarsi, sono educati e gentili fino ad
assomigliare quasi a dei robot asettici. Lui è abituato alle urla, ai cazzotti,
alle birichinate. Due mondi differenti, sia pur antitetici e complementari.
La povertà non è miseria. Non è disordine
o trascuratezza. L’autore ce lo ripropone più volte. E se manca la luce
elettrica o la radio, poco importa. Se è necessario percorrere chilometri e
chilometri a piedi o sul carretto trainato dal mulo per poter vedere i propri
parenti non è un dramma. Anzi: è la felicità. E’ la possibilità di incontrare
altre persone, di soffermarsi a parlare, di sapere notizie. E’ un modus vivendi
che si contrappone in modo considerevole alla frenesia di un mondo moderno che
misura la vita in secondi. Lì la vita è misurata in stagioni. E ancora una
volta c’è da sottolineare che non bisogna intravedere nessuna povertà in quel
modo d’essere e comportarsi, ma ricchezza.
Galante confesserà di fatto più avanti: “la
ricchezza la portavo dentro: dignità dell’essere, educazione, senso del dovere,
senso della famiglia, senso del sacrificio a prescindere, conoscenza delle
priorità, importanza dei valori, timor di Dio, rispetto del credo altrui, forza
d’animo, forza di reazione ai disagi, umiltà, capacità di perdono”. Sono
infatti questi i valori ereditati dall’insegnamento dei suoi genitori, dei suoi
nonni, dei suoi zii. Valori di cui andar fiero. Valori di una terra che fa
soffrire e gioire. Valori di libertà.
Accanto alle motivazioni personali di crescita e
sviluppo, Galante mette in rilievo anche il mondo contadino. Ne descrive il paesaggio, con ammirazione e dovizia di termini. Ne
valuta lo sforzo e il sacrificio lavorativo della vita dei campi, in quel pezzo
di Sicilia, che crea per lui, bambino, anche un clima di serenità e di
spensieratezza. Vede il sudore dei suoi nonni e dei suoi zii. E ne vuole
partecipare. Perché è in quel sudore – capisce – che si colloca la pienezza della vita. Perché
è in quel rapporto uomo-natura, ancestrale, che si compie la sua formazione. “Davanti
ai miei occhi – sottolinea orgogliosamente – c’è il panorama della
immensa valle di Segesta, il tempio ed il verde e giallo dei terreni della
collina di fronte (…) Ecco perché questo luogo ha il fascino di cui sono
vittima. E mi sento vivo più che mai e parte dell’armonia di quel posto.”
La valle di Segesta, è inutile rammentarlo, ha in
sé la storia e la cultura che hanno formato il sapere occidentale.
Si
capisce così il suo legame con la Sicilia e con la tradizione. Il suo essere
preso in quel vortice magico che è il passato in contrapposizione al piatto e
quasi insignificante presente. C’è tanta nostalgia per quel mondo, per la sua
infanzia, per quell’umanità remota ma ancora viva nel suo animo. Ancora capace
di commozione e di ammirazione. Si comprende allora il perché Galante abbia
voluto rievocare tutto ciò, riportarlo in pagine di diario e trasmetterlo al
fine di non disperderlo e dimenticarsene colpevolmente.
In
queste pagine offerte al lettore si ritrovano gesti e sentimenti ormai desueti.
Quando ad esempio Galante descrive il lavoro che il nonno e lo zio fanno nei
campi, la loro attenzione quasi religiosa nei confronti dei prodotti della
natura; quando raffigura i suoi compiti mattutini – rassettare la stalla, dar
da mangiare alle galline, ripulire l’aia –; quando mostra la nonna intenta a
preparare il pane da infornare, o a coltivare l’orto, o a preparare la cena; si
ha come l’impressione di essere lì pure noi a gustare di quei momenti, a
sentire quei sapori, a godere di quegli odori.
Né va
dimenticato l’affetto reverenziale che Gianfranco nutre nei confronti dei
propri genitori, più volte rammentati e portati in palmo di mano. Grazie a
loro, oltre che ai nonni e agli zii, il viaggio della memoria acquista
significativamente valore. La sicilianità ha uno scatto intenso, duraturo nel
tempo. Ritrova la continuità dell’oggi, sia pur diverso, sia pur, forse, meno
brillante e appassionato dell’ieri. Ma l’ieri è servito per crescere, per
conoscere e conoscersi, per preparare i muscoli per l’oggi. Per questo non va
dimenticato. Ma scritto e tramandato. Fosse anche solo per sé.
Enea Biumi
Nella poesia che apre la raccolta di versi in sette sezioni
“La gravità terrestre” del poeta di origine siciliana e residente a Modena,
Elio Tavilla, è già presente non solo una dichiarata concezione che si
distingue nella struttura tecnica del testo stesso, nella compattezza di versi
che concentrano una solidità espressiva di abilissima tensione, ma anche un
contenuto a traccia espositiva, aperto a intervalli dai due punti che indicano,
in corso di scrittura, il segno tangibile di una sofferenza privata e civile
dove è il settore animato del prospetto giovanile ad essere esposto alla caduta
dei progetti; “ma infine qui è il nero dominante/ il tuttobianco, tuttonero
nullasembiante/ torna l’ostrica d’infanzia, schiude bella/ l’apparenza del
rossore sulle guance”. E’ una perturbante occasione dicibile di terreni adibiti
alle lotte, ostacoli e destini, intenzioni narrative interrotte, pene mature,
tempi davvero incerti che riportano ad un bivio. E’ notte aperta anche sulle
aspre condizioni che caratterizzano la personale identità di chi accoglie gli
effetti riflettenti agnizioni che non tralasciano la ormai separatezza del
luogo inglobato e trasfigurato nella sua decadenza “anche sopra gli argini,
nella fitta foresta/ delle aziende metallurgiche addentrate/ sino quasi alla
città che più non è/ periferia”. Una parvenza d’amore deve emergere nella
durezza della strada, nella inesorabilità della notte, quando la notte è
domanda, è inascoltato regesto di assidui dintorni per lo più immediati. Sono
quasi strati di esaurita tolleranza verso il sopruso, di graduale recupero di
una necessaria sensibilità civile, attraverso lo smarrimento volontario e, allo
stesso tempo, imposto dalla distrazione contestuale di un riflesso descrittivo
che insinua rimandi di rima e assonanza irregolari e distanziati nella
partitura esposta agli intrecci del ritentare la domanda dello sguardo.
Inchioda al fisso della pagina il tangibile randagio, il vivente che conosce il
rifiuto, lo sbando, la persecuzione, la separatezza che vibra nella fissità di
“un chiostro di ossa e nervi gettati/ nel pattume”. E’ qualcosa che ci può
tenere legati alla terra, ad una condizione minerale, terrestre appunto, dove
la complessità delle implicazioni distoglie dalla intransigenza del dato
reiterante la dipendenza. Il dramma anticipa eventi che riguardano la tangibile
pelle degli umani, lo strazio inascoltabile perché scartato, tra uno schermo di
gomma e un fuoco nemico; anche sognare in fondo, scrive Tavilla, è un gesto
“poi/ spalanchi la marsina e scappi”. Si approda a sonni incerti e crepuscoli
avanzati, sere oggetto di tentazione, carezze inconsolabili, avvistamento di
lago. Dopo la difficoltà di scorgere le insegne che dovrebbero interpretare il
nostro passaggio, dopo le insonnie, sono ancora figure giovanili a disegnare il
possibile ulteriore destino, allora “basterebbe/ tremare di candore e di
innocenza”. Le storie di guerre e di nemici, di sudore e sangue, di cieli
incombenti e di domande, svelano la determinazione di una sintesi che racchiude
la complessità di attese rivolte a forme altre, vie d’uscita. Ma la conclusione
contenutistica di Elio Tavilla è più amara, nella conferma di un mondo che
esprime l’infamia mai cicatrizzata nelle schiene “vergate a sangue”; in un
trascorrere, insomma, in un epilogo, visto come un meccanismo non conoscibile e
contratto in una desolazione che, per l’autore, solo il rapido passaggio
testimonia.
Andrea Rompianesi
La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...