C’è una domanda posta alla fine di ogni capitolo (bisogna arrivare a pag. 124 per non più incontrarla; la ritroveremo poi come atto conclusivo del romanzo) ed è: “In pace?”. Se fossimo a teatro indicheremmo questa frase come un tormentone. Si chiamano tormentoni proprio perché tormentano, perseguitano gli spettatori o con lo scopo di suscitare risate, o con lo scopo di farli riflettere su ciò che sta avvenendo sul palcoscenico.
Ecco:
quella domanda ripetuta a dismisura tende a farci soffermare sul protagonista,
che a sua volta si interroga in continuazione. In effetti, la narrazione
viaggia nell’inconscio di Mario per farlo emergere non tanto e non solo al
lettore, ma soprattutto a se stesso. Non altrimenti si leggerebbero queste
pagine se non come un tentativo di dare un senso alla propria vita.
Oltre
tutto non è solo la pace il desiderio ultimo di Mario, bensì il riconoscimento
di uno status. In effetti il protagonista sembrerebbe voler insistere su questo
aspetto della sua esistenza. Sembrerebbe voler dire: la mia carta di identità è
quella dove sta scritto il mio nome, il mio cognome, la mia data di nascita, il
luogo, il mestiere, ma quello che io sono veramente dove sta scritto? Ed io
stesso so chi sono veramente? Mi riconosco in questo Mario? Oppure sono
qualcosa d’altro che nemmeno io so definire e ritrarre?
Si
sente in questo rincorrersi di interrogativi la filosofia di un conterraneo di
Galante: Pirandello. Certo è che Mario non cambierà identità come Mattia
Pascal. Ma come Vitangelo Moscarda si sentirà stretto in una morsa di
incomprensione e spesso di inguaribile delusione.
Mi
rendo conto di entrare a man bassa nella coscienza del protagonista, nella sua
autoanalisi minuziosa e precisa, di strappare il velo del segreto che tante
volte ognuno di noi antepone agli altri (e rieccoci al già citato Pirandello: Così
è se vi pare). Eppure Mario è quest’uomo interrogante, che guarda dentro di sé,
che si autodefinisce – ingiustamente a mio avviso – nessuno. Si crede forse uno
sconfitto? Un inetto come lo sveviano Zeno? Sicuramente non è un eroe, né lo
vuol essere o diventare. Tanto è vero che alla fine il confronto non sarà solo
con se stesso e la propria solitudine, ma con la moglie, che al ritorno del
momentaneo esilio, riabbraccerà affettuosamente come non mai.
“Ciò che si racconta”
sostiene il critico Vincenzo Capodiferro in Insubriacritica “è il
proprio erlebnis, in un flusso vitale continuo, nel riflesso di un
fiume eracliteo, ove è difficile ritrovare la posizione dello spettatore e del
fiume: entrambi sono risucchiati nel flusso, in un flusso maggiore, come nei
paradossi sulla temporalità, derivati dalle riflessioni di Mc-Taggart.”
Ed
il protagonista per ben riflettere si allontana per un breve periodo da tutto e
da tutti. Ricorda il passato, indaga su eventuali errori, analizza la propria
esistenza in un turbinio di domande e di risposte.
“Mario amava sedersi,
ogni tanto, sulla terza panchina in quella bella terrazza a strapiombo sul
mare. Era una grande piazza arredata da palme e contornata dalle stesse. I
blocchi di marmo, che ne creavano giochi geometrici per terra, la illuminavano
con il suo bianco candore. Ed i ciottoli, a corredo, davano quel senso di
antico e rustico al tempo stesso. La vista, oltre la poderosa ringhiera, poteva
vagare a perdita d’occhio sul mare, sulla curva dell’orizzonte, su per il cielo
od in cerca di vele che facessero sognare. Mario sedeva sempre solo. Quando si
recava sulla grande terrazza, cercava i momenti del giorno in cui non ci fosse
afflusso; i troppi turisti lo avrebbero disturbato.”
Seduto,
solo, come sottolinea l’autore, sulla “sua” panchina del lungomare dove
contempla estatico la natura, vede la propria famiglia, distante ma ben
presente nel suo animo, ricorda gli amici, disvela i nodi del suo vissuto. E dopo
questo isolamento volontario di meditazione e introspezione, in modo non del
tutto sorprendente, Mario si accorge che il tormento non è solo il suo.
“Il
vero è che, forse, anche a casa di Mario i familiari soffrivano i propri dubbi,
patimenti, riflessioni e bisogno d’aria; bisogno di respirare. Ognuno di loro,
forse, nell’intimo soffriva confusione, dolore e rabbia inespresse. Ognuno di
loro però, Mario compreso, non può conoscere l’intimo dell’altro a fondo. È intimo,
appunto.”
Ed
ecco ritornare la domanda cruciale: in pace? Potrà alla fine dormire
tranquillamente in pace? L’autore non ci offre una risposta, sebbene nelle
ultime pagine venga descritta una riconciliazione familiare spontanea e solida.
Ma questa pace sarà veramente duratura?
Come
ogni romanzo moderno le risposte le può dare solo il lettore. Non si tratta
però di cercare una morale, a mio avviso. Ognuno si costruisce come vuole o sa
fare. Ugualmente lo farà quel lettore che Galante ha saputo catturare pagina
dopo pagina attraverso un turbinio di interrogazioni per nulla scontate e che
danno il senso all’esistenza, a quella Weltanschauung tanto cara ai
romanzieri mitteleuropei del novecento.
Enea Biumi
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