mercoledì 13 marzo 2024

Gianfranco Galante, Ti "racconto" perché, Circolo Scriptores, Varese, 2024

 



Si potrebbe definire lo scritto di questo testo “Ti racconto perché” come un poema d’amore e sull’amore. Infatti, a mezzo tra una serie di racconti, di poesie e di saggio, ci stanno una riflessione importante ed un invito. La riflessione è appunto quella riguardante l’amore in ogni sua forma e dimensione, l’invito riporta il lettore ad un esame di coscienza su di sé e sul mondo che lo circonda.

Ora, i racconti si potrebbero paragonare a degli exempla(1) che supportano considerazioni e valutazioni dell’autore, mentre le poesie traducono in sintesi le più svariate emozioni dovute a storie e accadimenti inerenti l’amore stesso.

Variegate sono le situazioni, ma una sola è la soluzione. Essa si traduce nella consapevolezza che l’uomo è un animale pensante, cosciente, dotato di una propria volontà e di un libero arbitrio che lo distinguono e lo fanno unico al mondo. Per questo ontologicamente si rende necessaria un’educazione all’altro, alla sua comprensione ed accettazione, e per questo basta una parola semplice che tutto racchiuda: amore. E non è la prima volta in cui Galante ci dà lezione, attraverso le sue opere, di moralità, civiltà e buon costume. Attenzione: moralità e non moralismo.

Si tratta allora di un trattato sull’amore? Certamente, ma non in senso filosofico sebbene poetico. Come ebbe a sottolineare Kant in un famoso detto: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.

Alcune riflessioni qui inserite erano già presenti nel De amore di Andrea Cappellano, come ad esempio: Nei piaceri d’amore non sopraffare la volontà dell’amante, oppure Conserva la castità per l’amante, ed anche Nel dare e nel ricevere piaceri d’amore mai deve mancare il senso del pudore. Ma Cappellano fu un autore medievale, con tutti i limiti che noi sappiamo e che non starò a sottolineare.

A tal proposito mi sovviene l’episodio dantesco di Paolo e Francesca, condannati non perché si amano ma per il fatto di essersi lasciati trascinare dall’irrazionalità della passione. Ed è una testimonianza, che l’amore è un elemento principale della condotta umana: da lì parte il tutto. Come lo dimostrano anche le parole di Cristo, o di Agostino d’Ippona che sostenne: “Ama e poi fa’ quello che vuoi”, perché era sicuro che l’amore conducesse solo al bene.

Dante attraverso quell’episodio del V Canto della Commedia condannava i romanzi cosiddetti d’amore che conducevano i lettori ad una pedissequa imitazione dei protagonisti.(2) Oggi non è più così. E non so quanti leggano ancora romanzi rosa, appassionanti e appassionati (lontane sono Liala, Delly, Mura, Guido da Verona, Pittigrilli). Oggi è la stagione degli influencer: questi sì, imitabili ed imitati e forse pericolosi, su alcuni aspetti, come lo fu, secondo l’Alighieri, Chrétien de Troyes con i suoi Lancillotto e Ginevra. Di per sé lo svenimento alla fine del Canto del Poeta dimostra come l’equilibrio amore-passione e razionale-irrazionale sia labile e il loro confine indefinito e indecifrabile, cui nemmeno Dante, soprattutto in età giovanile, poté sottrarsi(3).

Ma esistono purtroppo anche comportamenti inaccettabili tra amanti, meglio tra marito e moglie, ben sottolineati dall’autore e del tutto condivisibili. Non so se Galante abbia visto il film della Cortellesi “C’è ancora domani”, tanto giustamente celebrato. Di sicuro, però, il modo in cui in questo racconto-saggio viene descritto il rapporto uomo-donna è una chiara esaltazione di una unicità di legame paritario, attraverso la gentilezza, la comprensione, la non sopraffazione dell’uno sull’altra.

Nella seconda parte del testo, l’autore si sofferma sulla valorizzazione di altre culture, di altri saperi, di altri costumi. Ecco allora che da una prospettiva del singolo la visione offerta da Galante ci riconduce alla collettività. Un tempo, sostiene, gli emigranti eravamo noi italiani. Oggi noi siamo terra di immigrazione. Per questo dobbiamo saper accettare il diverso da noi.

Dalla “comprensione” empatica verso l’altro al discorso sulla guerra il passo è breve e naturale. La pace in fondo è un problema d’amore.

Così il libro diventa un vade mecum importante se non necessario da sistemare sul proprio comodino e sfogliare prima di addormentarsi, per un confronto con se stessi o per puro piacere intellettuale nella lettura di poesie e racconti come fossero favole o parabole divertenti oltre che esplicative e didascaliche.

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1)      Exemplum: racconto veridico a scopo didattico-religioso tipico della letteratura medievale, in cui il protagonista alla fine raggiunge la salvezza dell’anima. Nel corso dei secoli assunse un aspetto sempre più letterario, sino a confluire nella novella.

2)      “Quando leggemmo il disïato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante”.

3)      Si veda a tal proposito “La vita nova” in cui Dante tende a superare l’aspetto dolcestilnovista dell’amore cortese, portando l’amore a più elevata essenza e facendo della donna il tramite per raggiungere Dio.

   

Enea Biumi


martedì 5 marzo 2024

Lamberto Garzia “Live dealer” (Puntoacapo Editrice, 2024)

 

                                              

Croupier a vita inserito nelle interiezioni (intese come originate dal “gettare in mezzo”) estranianti per  passaggi focalizzati in piani narrativi che si alternano e si intrecciano attraverso salti temporali e cromatismi linguistici imprevisti. Assalti di personaggi estromessi da una finalità determinata per condurre inestricabili mutamenti al suono di luoghi e tentazioni ludiche o carnali, nella ricorrente sonorità dei rimandi a quella letterarietà che sviluppa una vera e propria prosa creativa. E’ “Live dealer” di Lamberto Garzia, testo-mondo forse postmoderno ma per lo più pagine gravitanti intorno a luoghi distanti e quindi comparabili nell’accezione dell’apporto, come la Liguria e il Messico. Terre di confine alla evanescente possibilità di determinare ogni spazialità tracciabile in multilinguismo a preziosa conduzione letteraria, quale garanzia ricevuta nel ricorrente riferirsi a spunti di rigore stilistico come quello espresso da Tommaso Landolfi. L’avventura di Garzia è nel corsivo delle incursioni tipografiche stesse; nelle proponibili infatuazioni dei gesti autoriali, nello stesso Lamberto che si pone autore e personaggio innestato nella non trama, come espediente ciclico nel vissuto occhieggiare generi impavidi e sottolineature erotiche apertamente provocatorie, senza escludere rigori critici quando è ferita l’incisione di un muro che divide un confine, che preclude l’orientamento libero. E di libertà l’autore avvolge le pagine dove il linguaggio perturbante e intertestuale coniuga celati rimandi ed estensioni liminari, digressioni fruttuose e proposizioni filmiche. L’intreccio delle arti suona dal fervore ammiccante di uno Sterne all’encomio latinoamericano di un Puig o di un Bolano. Un infrascritto che si azzarda, nell’azzardo stesso del giocatore, a pretendere l’emanazione del “mutuus dissensus” perché il contratto di lettura accolga possibilità di ricezione anarchica ed eversiva. Ogni singolo passo del testo è tutto il testo e, nello stesso tempo, non è se non frammento di tessitura dirompente, certo astutamente ludica. Misura di inconciliabile pregnanza sollevata dal contesto di una marcatura ambivalente, a inneggiare l’eclatante alternarsi dei toni stilistici determinanti la costruzione del possibile, quasi inteso come opzione e dicitura di una lettura del mondo nella sua più estesa realtà interrogante. L’espressione già tratteggiata di Lamberto Garzia in questo testo personalizza il sé ma non intende forse mai richiamare l’asserzione riconoscibile, piuttosto alludere ad una incisione nelle pieghe del tessuto vivibile, comunque empirico, di una opzione sempre accertabile, se non del nostro limitato fare, almeno in una coincidenza dove vita e scrittura possano coniugare la peculiarità creativa dell’avventura e dove la scrittura stessa interceda a sorreggere l’inesausta apprensione del nostro desiderio, così costante stimolo e reiterata pena. 


 Andrea Rompianesi


martedì 27 febbraio 2024

Angelo Manitta, Nel volto di Mirra, Il Convivio Editore, 2023

 


Rappresentare l’amore attraverso tutte le sue sfaccettature non è impresa facile. Tanto più se il racconto viene costruito in versi. Ciò evidentemente non ha spaventato Angelo Manitta che nel suo poema “Nel volto di Mirra” è riuscito a cogliere i vari gradi dell’amore trasportando il lettore in quel mondo sentimentale raccolto in personaggi mitologici e non, eroici o profani essi siano.

“L’amore è un fiore / nato dal nulla e nel nulla dissolto, // rinverdisce le giovinezze e smorza gli animi / nella vecchiaia inquieta, vissuta senza vita, / spenta senza morte, per reggere sulla croce / l’esistenza fredda dell’ultima parola”.

Il poema ha come un andamento di exemplum: un itinerario, tra finzione e realtà, che occupa una miriade di situazioni, luoghi, circostanze tra loro interagenti, animati e stimolati, sofferti e combattuti, immaginifici e verosimili. Il tutto in nome e per conto dell’amore.

Si sa che l’exemplum è un racconto veridico, tipico della letteratura medievale, a scopo didattico-religioso in cui il protagonista alla fine raggiunge la salvezza dell’anima. In questo poema rievocativo delle tragedie alfieriane gli exempla sintetizzano le più svariate emozioni causate da storie e accadimenti inerenti l’amore stesso. Eroi ed eroine affrontano il senso di vite tribolate, spesso contorte, sicuramente illuminanti ed illuminate da ardite metafore atte a dare il la a considerazioni e valutazioni che trasportano il lettore verso una analitica riflessione sull’oggetto amore. La salvezza dell’anima, contemplata negli exempla medievali, in questo caso, è la catarsi che alla fine di ogni episodio, dopo una delucidante e serrata dialettica, risulta essere la conoscenza del bene e del male.

“Dalle rocce dell’anima” grazie alla “figura ieratica d’un poeta” che “mescola la tragica verità con la vita” sgorga, come una magia e quasi per intervento divino (“Marte dal rosso viso d’azalea”, “impavidi profili che Antares ripercorre”, “nostalgie d’infanzie, curve soglie di mistiche gelosie”), una “eterna simbiosi” tra l’autore e il poeta che ha suscitato queste emozioni e   che ha fatto rivivere episodi e personaggi in una unità di sentire. Si scoprirà in seguito che il poeta influente è Vittorio Alfieri e lo sviluppo dei temi amorosi è la sequenza delle sue tragedie sulle quali emergerà il dramma di Mirra.

Prima ancora della rievocazione delle tragedie alfieriane, tuttavia, Angelo Manitta si sofferma sugli amori dell’Alfieri stesso: il primo, giovanile e folle, con Penelope Pitt (“La donna, dal manto di grano, appare / fugace baccante tra le braccia d’uno stalliere”); il secondo, non meno tumultuoso ma più duraturo, con la contessa d’Albany (“La trasparente figura d’Emmanuelle d’Albany / distrasse i miei occhi”).

Dopo la descrizione delle due donne che hanno trascinato con sé il cuore del grande astigiano, rivediamo Merope e la accogliamo tra le sue dubbiose riflessioni, “eternamente infelice (…) donna-oggetto, baratto / di sensualità, soprammobile abusato, / consumato da voglie malsane, / gettato nel letamaio d’una cloaca (…)”. Lo sguardo dell’autore poi si posa su Ottavia “che muore / tra fiamme inviperite d’una Roma incendiata”. Allo stesso modo si consuma la vita di Romilda, vittima d’una gelosia inconsulta, mentre “il vate impietrito si contrappose ai miei occhi” prosegue Angelo Manitta “Le sue immagini creaturali diventarono mie. / Una simbiotica osmosi fuse le emozioni”.

Il poema, ora, giunge al culmine dell’ispirazione trattando il dramma di Mirra. Inutile sottolineare come l’osmosi letteraria prosegua in un susseguirsi di immagini, riflessioni, metafore che coinvolgono l’emotività del lettore. Citerò solo alcuni punti che più mi hanno affascinato, rimandando il lettore alla scoperta di tutto il poema.

Sentite la delicatezza amorosa di questo passo in cui il padre, Ciniro, pensa e trasfigura l’immagine della figlia: “Il tuo volto di luna è sorto / ad oriente e il mio tenero cuore / luce imperlata di tristezza /evasa in arabeschi di libertà, // sussulta come un bambino danzante, / sorregge i tuoi occhi di perle, / incendia il mio senile tormento”. Oppure ammirate quegli spazi che Manitta dedica ai simboli e alle metafore come questi versi emblematici e che danno ulteriore vivacità al poema: “L’estate sorride a farfalle / esuberanti di luce e d’amore / sui rami inclinati dal vento, // sul volo delle rondini migranti. / I fiori occulti cercano / ardore di tombe. Vinceremo / il mare e le tempeste // per sfondare i battelli delle notti, inerpicarci a ruvidi orizzonti, / arrotare l’acqua coi coltelli / e spegnerci nel fragore delle onde”, dove si delineano sentimenti contrastanti d’amore, di morte, di tradimenti, di travagli, di sogni e speranze.

Insomma, si sovrappone in questo itinerario d’amore una miriade di impressioni che ora sembrano tempeste, ora dolce quiete. E le parole di Manitta diventano quelle dell’Alfieri, e quelle dell’Alfieri amplificano le parole di Mirra e di Ciniro, e la natura fa da sfondo e controcanto ad un dramma che diventa perpetuandosi eterno. Così che alla fine “i sensi si smarriscono tra le rughe degli anni, / rapide gocce di miele cospargono, / come lagrime amare d’una amata mirra, / il volto del vate che, statua di marmo, / accoglie, insensibile, venti e tempeste”. Ecco, allora, come il titolo stesso del poema viene di fatto recuperato. Nel volto di Mirra effettivamente vengono a specchiarsi Alfieri, i suoi drammi e, aspetto non del tutto scontato, anche Angelo Manitta.

Un ultimo e non meno importante commento va fatto a proposito della struttura del poema. I versi, come viene indicato dall’autore stesso, apparentemente sembrano liberi. Sono invece quadrimetri, cioè con quattro arsi principali e quattro parole portatrici di significato, oppure trimetri, vale a dire con tre arsi principali. Si tratta di una particolare forma che vuole evidenziare metrica e musicalità della poesia attraverso il recupero della parola chiave contenuta nel singolo verso. Alla fine di una accurata analisi attraverso esemplificazioni esaustive a supporto di quanto esplicitato sopra, Manitta sottolinea che “il lettore che si avventura nella lettura di questo poema, si troverà come in una foresta, rimarrà spaesato di fronte ad una poesia che esce fuori dagli schemi tradizionali e da un consolidato sistema letterario. Ma probabilmente, scoperta la chiave di lettura, si avventurerà con delizia, oppure poserà il libro sul tavolo per sempre.”

 

Enea Biumi




mercoledì 21 febbraio 2024

LA POETICA DI PROSPERO E VALERIO CASCINI COLMA DI LUCANITA’, RACCOGLIMENTO E SILENZIO


I cugini Prospero e Valerio Cascini, nati a Castelsaraceno (PZ) nel 1951 hanno frequentato la primina e le scuole elementari insieme, poi Valerio si  è trasferito con la famiglia a Torino nel 1962, dove vive ancora  svolgendo la professione di Avvocato. Attraverso il dialetto e le poesie si è tenuto in contatto POETICO con la propria terra.


Prospero non si è mai spostato dal proprio borgo natio e scrive poesie in lingua. I legami di sangue sono stati sempre salvaguardati e le vacanze estive le hanno trascorse insieme a Castelsaraceno. La loro poesia ci aiuta a riconoscere - con CALVINO - chi e cosa sono l’inferno e chi e cosa non lo sono. Valerio si definisce compositore breve affetto da “vernicolite acuta”. Ha vinto tanti premi con la raccolta U pruf  ssore e di recente si è classificato al primo posto alla prima edizione del premio "Pietro Paolo Montano" di Corleto Perticara. Prospero Cascini (preside e poi dirigente scolastico) ha pubblicato nel 2018  la silloge Il girotondo tra primina e buona scuola, Monetti editore. Di recente ha vinto il premio della critica al concorso internazionale di poesia 2022 Postiglione (SA). Insieme, Prospero in lingua e Valerio in vernacolo, hanno pubblicato due raccolte edite da Monetti: Lucanità Saracena e la recente L’unicità della Lucania: un approccio fotografico e poetico. In queste opere  i poeti evidenziano il loro essere lucani dentro: hanno vissuto la loro infanzia a diretto contatto con il mondo rurale, l’area interna della Basilicata, assimilando linguaggio, modo di vivere e relativi disagi. Attenti osservatori, sempre puntuali nelle analisi, sempre attratti dal loro paese. 

Riconoscere/senza guardare/ il passante dal suo incedere/riconoscere il neonato/senza averlo mai visto…….vivere la ruralità/senza alcuna marginalità . 

Pino loricato di Valerio come sincero attaccamento…

Coto..ru lambo/cenner nu mi fazzo/ storto e malorto/ risisto….. a fa cumbagnia a le frat/.

La Lucanità dei Cascini è lieve, delicata, che si nutre di rimpianti, di raccoglimento e silenzio partendo dal microcosmo di Castelsaraceno. Uno schiaffo di Lucanità, rimestata nel profondo, che attinge ai moti dell’anima. Una lucanità che si trasforma in emozioni forti,  che lasciano un retrogusto di malinconia, di silenzio e di pace. I due poeti, pur nella loro diversità: Prospero, un cultore della parola per una poesia filosofica, Valerio un cultore dell’immagine e dell’espressione poetica  esprimono all’unisono la coralità degli anfratti che hanno vissuto con le luci e le oscurità del loro tempo.



sabato 17 febbraio 2024

Mauro Ferrari “Seracchi e morene” (Passigli Editori, 2024)

 

Seracchi come blocchi di ghiaccio di metri vari d’altezza a forma di guglia o torre; morene quali accumuli di materiali rocciosi disgregati da un ghiacciaio delle pendici montuose poi trascinato a valle; così i significati letterali portano a “Seracchi e morene” appunto, esito poetico di Mauro Ferrari, autore, editore, critico, operatore culturale. L’opera si suddivide in quattro sezioni: la prima e la quarta caratterizzate dal rapporto con le vicende della storia, la seconda, che offre il titolo al libro, e la terza espressamente rivolte al rapporto con il mondo della natura. Un intreccio che è guida per una consistenza riflessiva dominata dalla consapevolezza di muoversi poeticamente su di un terreno che possa essere tracciabile, quasi calpestabile nella sua realtà ontologica. “L’approdo deve essere cauto/ le rotte scelte con cura, ché poche/ hanno correnti amiche e dèi benigni”; l’insidia è opprimente condizione che impone la veglia e l’attenzione irta verso l’episodio diurno capace di svolta e operosa mediazione propositiva in opzione di luce. Molto infatti è per Mauro Ferrari nel senso della vista, nella decisione acuta di volgere il passo verso un tempo civile che si fa spazio, luogo da abitare così come i versi scolpiti abitano lo spazio stesso della pagina. Qui si parla della follia del nulla che davvero è tale poiché, come insegna il principio di Parmenide, sussiste sempre l’essere che non può non essere; d’altra parte, se il nulla esistesse non sarebbe nulla ma qualcosa. E il ritrovare frammenti in abbandono, oggetti quali rifiuti e depositi di ansie, tormenti fisici e morali, segni bellici, ordini caotici e graffi insistenti, conduce alla necessità della responsabilità etica, al cosa devo fare di una ragion pratica...”e poi di nuovo quella trasparenza/ che nasconde e illude,/ il tempo che fugge/ e l’attrazione del fondale”. Ancora giungono echi di pandemie ed azzardi, di macerie e abusi; così la netta necessità del poeta posto di fronte al dovere di risolvere il nitido senso percepibile della domanda. Sembra, a questo punto, davvero una svolta l’affidarsi allora a ciò che di natura rappresenta elemento di resistenza come montagne, ghiacciai, rocce. Tracce di solidità a cui aggrapparsi in una soluzione d’ordine che apre ad una possibilità forse non illusoria, anche se vediamo “il vento e la pioggia che rodono/ istante su istante/ mentre il muschio appone la firma/ su contratti in bianco”; come tempo che si sottrae nelle sue creature all’azione di Shiva distruttore. Si esprimono trame e tregue che Ferrari insegue alle foci di una contaminazione che è ferita, quesito e tracciato inquieto. Il ciclo di rinascite e morti, l’integrarsi degli elementi nei versatili asserti vegetali e animali ove l’esergo anticipa la veduta sulla persistenza minerale. Il poeta, in uno slancio intimo, concede l’alternativa, “posso fingermi altrove/ un attimo a sussurrare al vento” in una partizione spaziale visivamente costruita sulla pagina nella breve distanza del distico dalla terzina: “fiore lichene zampe che vagano/ sotto un cielo vuoto e sereno/ senza squarci né voci”. Il tono aurorale e panico incide con determinazione l’asciuttezza rigorosa del verso compiuto all’interno di un equilibrio solido tra strofe composte nella geometria del dettato, quando “solo la pietra non soffre la sua logica”, tra spuntoni ed abissi, “sistri e cimbali”. Gli elementi attirano lo sguardo, la svolta dell’osservatore nel dramma della verifica, nell’innesto magmatico dove l’accesso è dimenticanza, oblio inesausto. La terza sezione è rapidissimo e fugace confronto con tempo e spazio, per “contemplare il tutto che noi siamo”, forse risposta all’ipotesi del nulla. L’ultima parte ripropone il poemetto “la spira” che, affrontando una tematica industriale, la sua crisi, pone il nucleo relativo alle disillusioni, alla caduta delle utopie coltivate da una generazione: “in questi giorni brevi fra due notti/ la spira sale dietro al cimitero/ e azzurra il cielo grigio/ salendo a pena per sfaldarsi in nulla”. Mauro Ferrari in questo suo lavoro riavvolge le segnature contratte che si materializzano in versi posti a ridestare una matura e partecipe presa di coscienza intima e civile, dura e avvertita, consapevole delle sconfitte ma non arresa alla dicitura della dispersione; piuttosto concentrata sulla consistenza delle ustioni e rivolta alla forza desiderante di un disgelo.

                                                                                Andrea Rompianesi





domenica 24 dicembre 2023

IL PRIMO STUDIO FOTOGRAFICO A VARESE


 Tutti i varesini, o quasi, conoscono i nomi dei più importanti fotografi professionisti di Varese del primo novecento. Cito fra loro i più famosi, quali il Fidanza che ottenne di divenire per La Prealpina illustrata il primo fotoreporter della città; l’Alfredo Morbelli, figlio del famoso pittore ottocentista Angelo, che aveva posto il suo laboratorio nel Convento delle clarisse a Bosto; il Colombo con la sua bottega in via San Martino, già collaboratore del Morbelli; l’Oprandi, già discepolo del Morbelli, che aveva il suo negozio a Biumo e che proseguirà la sua attività negli anni del secondo dopo guerra. Ma non tutti, credo, conoscono Angelo Pizzocri, il primo che ebbe il coraggio e l’intuizione di aprire uno studio fotografico a Varese.  

Angelo proveniva da Sant’Angelo Lodigiano e in verità la sua vera professione era quella del barbiere. In effetti aprì il suo negozio in via Verbano – era il 1880 – con l’insegna principale che diceva: “Parrucchiere e profumiere”, ma accanto a questa attività veniva sottolineato anche che in bottega si effettuavano fotografie e in aggiunta si vendevano pure fucili da caccia. 

Non era rado per quei tempi sommare diverse attività in un unico posto. Il fatto, ad esempio, di saper differenziare nella stessa location diverse attività ha spinto il parrucchiere fotografo a ragionare evidentemente a 360 gradi, nel senso di pensare che “se non vendo la farina, vendo il pane, e se non vendo il pane posso vendere la frutta o altro”. 

Certo è che finalmente anche a Varese si poteva trovare uno studio fotografico dove prenotarsi per foto commemorative o altro, senza dover attendere l’arrivo di qualche ambulante che giungeva settimanalmente a porre la propria attrezzatura in Piazza Porcari per la felicità di chi voleva farsi immortalare. 

Angelo per evitare che le proprie foto venissero sfocate o poco attendibili amava lavorare all’aperto, a ciel sereno e nelle belle giornate. Se il tempo era nuvoloso chi voleva farsi fare il ritratto doveva attendere perché il parrucchiere-fotografo pretendeva che le sue foto fossero perfette nella luce, nei toni, nelle sfumature. Del resto di sfumature se ne intendeva visto che erano la sua specialità come barbiere. Sviluppava in effetti le lastre in un catino che a seconda dei casi faceva d’uopo al suo lavoro. 

Ma il suo mestiere di fotografo non si limitava solo ai ritratti. Infatti si possono ammirare sue fotografie che riprendono avvenimenti, luoghi, personaggi. 

Una foto fra le più famose è quella che ritrae “un treno elettrico che fugge alla Stazione Mediterranea di Varese”,(1) inserita sulla Prealpina illustrata del febbraio 1905. Da notare quel “fugge” al posto del più usuale “deraglia”, come se il fotografo (o il commentatore della foto) volesse sdrammatizzare un pericoloso incidente attribuendo al treno una volontà umana: la fuga.  E si guardi pure a quella donna in basso a sinistra della foto che abbozza un sorriso (al fotografo?) forse dimentica della disgrazia che si andava celebrando. 

    
 


Si intuisce da questa straordinaria foto come Angelo Pizzocri non si attenesse solo a ritratti ma spaziasse la sua attività per catturare momenti, luoghi, spazi, curiosità della nostra Varese d’antan. Come si deduce dalle foto che accompagnano questo articolo, l’oggetto delle sue ricerche è alquanto variabile: da una parte uomini donne e bambini dai vestiti che segnano un’epoca (giacche lunghe, bluse sbuffanti, enormi papillon sotto il mento, gonne che toccano terra, cappelli e cappellini) dall’altra biciclette, carrozze, fiori, paesaggi e, come abbiano visto, treni che fuggono. 

Una molteplicità di interessi fotografici, dunque, ma anche una molteplicità di interessi tout-court. Va sottolineato che Angelo non fu solo parrucchiere, profumiere, armaiolo, fotografo, bensì musicista. 

Nella foto allegata lo si vede posare tra i componenti dell’orchestrina Lombardi, una piccola band varesina dell’epoca, in cui suonava il contrabbasso. In basso a sinistra si nota invece suo figlio Vittorio con il mandolino (ai tempi molto in voga a Varese). La foto è stata scattata il 24/25 gennaio 1910. 

Spirito poliedrico, versatile e ironico, come qualsiasi buon artista, Angelo non era capace di oziare. Con le mani in mano si annoiava tremendamente, soprattutto d’inverno. Così decideva di uscire di casa a far due passi. Prendeva il suo cappello e bastone, indossava cappotto, sciarpa, e guanti, e quando la moglie Laura gli chiedeva “Dùe te vétt?” rispondeva ironicamente: “A vó a vidé i camìtt a fümà”. Ma non era semplicemente un vedere, bensì un esplorare la città cercando di carpirne le atmosfere e le peculiarità.

In fondo, pur provenendo da Sant’Angelo Lodigiano, il nostro parrucchiere-fotografo diede in maniera abbastanza determinante un certo imprinting alla Varese del tempo e tra i varesini lui si percepisce ben presente e ben trainante. 

Oltretutto la sua spinta indagatrice e la sua passione per il nuovo andò oltre se stesso passandola in eredità: il suo carattere esplorativo e inventivo arrivò al figlio che tra l’altro progettò vari brevetti, senza però mai registrarli. A quei tempi era più facile cederli ad altri e prendere immediatamente il dovuto. 

Come armaiolo il figlio Vittorio introdusse diverse modifiche, che divennero oggetto di brevetto per la Pietro Beretta in Val Trompia. Negli anni a venire l’armeria Pizzocri, trasferitasi in seguito in Via Vittorio Veneto (dove ora sorge il COIN) con il subentro del figlio Vittorio e successivamente del nipote Angelo, divenne il riferimento per molti appassionati sia della caccia che del tiro al piattello, al punto che il negozio veniva affettuosamente chiamato “l’Università della caccia”. Tale passione fu tramandata ai nipoti e al pronipote.

A Varese, dunque, la famiglia Pizzocri era ben inserita e ben conosciuta. Tanto è vero che la moglie dello Speri della Chiesa e lo stesso poeta avevano nei loro confronti, e soprattutto verso sua figlia Anna, una profonda stima ed amicizia. Lo testimonia una dedica (controfirmata dallo stesso poeta) che la moglie di Speri, Alma, scrive su “I nostri buoni villici”. (2) 

L’occasione per scambiare quattro parole amiche tra un the, dei pasticcini o un caffè, era il ritrovo al caffè Bosisio dove spesso le due mogli si incontravano. L’incontro era facilitato dal fatto che Anna Pizzocri gestiva un negozio di moda proprio davanti al Bosisio. Non è dato saperlo con certezza, ma si può supporre che la particolare propensione del poeta varesino verso la fotografia, oltre naturalmente la poesia, fosse dovuta anche alla presenza nella sua vita del parrucchiere-fotografo così ben stimato e apprezzato, e a qualche stimolo fatto forse rocambolescamente scivolare nell’animo di Speri. 

D’altra parte poesia e fotografia vanno spesso a braccetto: l’una complementare all’altra. La poesia infatti non è lontana da quei ritratti, non solo paesaggistici, che Angelo Pizzocri andava componendo tra fine ottocento e inizio novecento, pioniere di quella che diventerà in seguito una vera e propria arte.(3)

Enea Biumi

Note

1) Bruno Belli su FB (Gruppo: La Varese nascosta) ci offre questa testimonianza: “Il primo treno (un convoglio di servizio) giunse a Varese il 9 agosto 1865. L’inaugurazione del primo trasporto per il pubblico fu il 26 settembre dello stesso anno” “L’esercizio della strada ferrata fu affidato alla Società per le «Ferrovie dell'Alta Italia» che si impegnò nella conduzione anche dopo la guerra del 1866. Con la Convenzione del 1885, la linea entrò nella «Rete Mediterranea» e quindi fu amministrata dalla «Società per le Strade Ferrate del Mediterraneo» (con brevità fu chiamata «la Mediterranea»)”.

2) La dedica così recita: “Alla signora Anna Pizzocri per un ricordo del nostro paese per augurio di felicità nella sua nuova residenza, per ringraziamento e saluto cordiale” (10-8-1922).

3) Le notizie riguardanti Angelo Pizzocri, insieme con le foto che corredano l’articolo, mi sono state date direttamente dall’omonimo pronipote. Altre informazioni le ho dedotte da un articolo apparso in seconda pagina sulla Prealpina del 19 ottobre 1956, senza firma, dal titolo: “Parrucchiere profumiere e armaiolo”, col catenaccio che mette in evidenza la nuova professione “il primo fotografo cittadino” e con l’occhiello che recita “È nuvolo, sa, niente da fare”.




lunedì 18 dicembre 2023

Fernando Grignola: il poeta di Agno e non solo


 “Som óm da tèra e da lâgh / cressüt sótt ar ciel dar piân d’Agn / cur miracol da gént e natüra dar Malcantón, ai spall.” "Sono uomo di terra e di lago / cresciuto sotto il cielo della piana d’Agno / col miracolo della gente e della natura del Malcantone, alle spalle.”

      Non si può parlare di cultura dialettale dell’Insubria(1) senza ricordare il poeta Fernando Grignola. Il poeta di Agno merita senz’altro un posto d’onore, sia per la sua attività intrapresa negli studi della RSI, sia per le sue raccolte poetiche, in maggior parte dialettali, sia per le sue ricerche ed approfondimenti delle radici e delle tradizioni della sua terra malcantonese.

    Chiaramente in questo contesto mi preme esaminare in maniera prevalente la sua scrittura dialettale attraverso la lettura ed il commento alla sua produzione poetica. E inizio dalla prima raccolta risalente al 1965 “Ur fiadaa dra mè gent”.

    Il titolo stesso denota la vicinanza del poeta al suo popolo, ma si noti quel “fiadaa”, cioè quel respiro che sorte dalle persone e che il poeta definisce “sue”. Vicinanza e affiatamento con una comunità e con le sue tradizioni. Un tutt’uno insomma che permette a Grignola una comunione di intenti e di sentimenti, sensazioni e aspirazioni, in cui quel “mè gent” non definisce possesso ma partecipazione, immersione completa in esperienze totalizzanti e comunitarie, quasi come un timbro particolare da presentare e presentarsi in armonia ed empatia.

    Ho parlaa tüta la vita in dialètt / par mia strasciàa regórd / e mia desmentegà paròll cun l’uduu / d’una manéra da stà al mund / barundinàda, sbatüda in dal rüd /dai mè gent ch’a strepa radìs.(2)

    Ed è lo stesso poeta che in un’intervista, rilasciata a Giuseppe Zois sulla “Rivista di Lugano” nel 2021, confessa la sua scelta dialettale e l’amore per la sua terra: “La folgorazione con il dialetto ci fu con un concorso a premi del “Cantonetto”, grazie al quale entrai in contatto con Sergio Maspoli e con l’avvocato Pino Bernasconi, che considero un mio maestro, anche per la stringatezza che mi insegnò. Un editore locale, Elmo Bernasconi, nel 1965 mi tenne a battesimo con il dialetto, pubblicandomi “Ur fiadaa dra mè gént”. 

    Già qui emerge nitido il legame con il mio Malcantone, il lago, le sagre, la convivialità.”(3)

    Da sottolineare, dal punto di vista stilistico, pure il rotacismo linguistico che è recupero e mantenimento di una tradizione dialettale vetusta. Lo indica in modo inequivocabile, in una nota introduttiva alla raccolta “Ciel da paròll”, Franco Brevini, cultore di dialettologia, scrivendo: “L’orgoglio municipale si spinge fino all’adozione dell’antica varietà malcantonese di Agno, con il suo caratteristico rotacismo: una scelta arcaizzante, che si propone di celebrare fino dal piano linguistico i valori di un microcosmo, sia pure dalla prospettiva feriale dell’Alltagsleben.” (4) (5)

    Importante per la sua carriera poetica fu anche l’amicizia con Pino Bernasconi, grande conoscitore e interprete della letteratura del primo novecento italiano (in primis: Ungaretti, Quasimodo, Pavese). “Aveva lo studio in Ca’ Brenna, a Lugano. - spiega Grignola nella succitata intervista - Gli portavo le mie poesie che erano sempre troppo lunghe. Lui, sigaretta Turmac in una mano e matita nell’altra, spesso giù a un tavolo del bar Argentino, mi tirava su una riga e con due parole ricavava una sintesi che gli invidiavo. A volte mi leggeva poesie che scriveva sul retro di quelle scatole bianche di sigarette. Me le leggeva declamandole e poi me le spiegava. Un vero maestro di essenzialità”.

    Ed è evidente che una tale essenzialità è stata di grande aiuto all’opera del Nostro. Infatti si possono trovare nella sua poesia prodromi pastorali (riferiti a Pavese) ed ermetici sicuramente rilevabili dal verseggiare breve, dall’uso di una sintassi nominale, da una punteggiatura vigile e mai sovrabbondante, dalla ricerca di musicalità particolari secondo il dettato ungarettiano per cui “la parola ha valore come suono”.

    Certo non era facile in quel periodo far uscire un volume in vernacolo. L’ostracismo nei confronti della produzione dialettale rimaneva alto nonostante le prove di un Noventa, di un Tonino Guerra, di un Albino Pierro, dello stesso Pasolini. L’opera dialettale era considerata di serie b, o per lo meno periferica, borderline si direbbe oggi, troppo intrisa di nostalgia per il passato, non al passo coi tempi. Non si era compreso, o non si voleva comprendere, che la forza del dialetto stava proprio nel sapersi svincolare da ogni formula accademica e d’élite, senza per altro dimenticare il presente e l’attualità. Forse l’essere o sentirsi ai margini della letteratura ha permesso a Grignola un primo notevole risultato poetico condotto entro i binari di una sensibilità che guarda e descrive ma che non giudica e non sentenzia. (6)

    Se ripercorriamo questi suoi primi versi notiamo essenzialmente una capacità di scrittura che cattura il lettore conducendolo fra la natura attorno ad Agno, le strade del Paese, le persone ancora semplici e dipinte all’interno di un paradigma incancellabile. 

    "Un lampion / un tombin / cünett, triföi, slavazz, / risciàda che sbadagia / ra noia da sta’ arm und (7) "

    "Un bagai coi öcc lüsent / l’ha già truvat ‘na pozza / par faa ciff-ciaff…(8)"

    Tuttavia sarebbe stata riduttiva la poesia di Grignola se si fosse fermato solo ad una rappresentazione nostalgica di un mondo che andava scomparendo. Il Nostro, abbiamo costatato, rielabora il suo vernacolo immettendolo in una tradizione che non dimentica il percorso della poesia novecentesca italiana. Ma non solo.

    In verità, nonostante questi suoi riferimenti all’esperienza ermetica Grignola non tralascia l’aspetto sociale. Il poeta non può essere un’isola senza correlazioni. La realtà che gli si presenta è sintomo di fatiche, di rinunce, di ingiustizie. Del resto alla fine degli anni sessanta, in Europa, si andavano affermando movimenti che avrebbero voluto cambiare modi e stili di vita. E già in poeti come Pasolini, Buttitta, Baldassari, Masala, Loi, la sottolineatura sociale si faceva strada sfociando a volte, e in alcuni scrittori, in vera e propria rivolta.(9)

     Ma se in questa prima raccolta il sociale si presenta quasi timido e in soggezione rispetto ad altri temi, nella silloge seguente dal titolo “La sonada senza nom” l’aspetto civico ed etico si amplia mostrando capacità di letture del mondo sicuramente non convenzionali, soprattutto se si pensa a quel nucleo coeso di etnia ticinese che si trincerava dietro fenomeni xenofobi e di palese chiusura.(10)

    Chiarificatrice è la lirica Ra mè puesìa, in cui il poeta accanto all’esaltazione della Natura, offre una riflessione politico-sociale per nulla scontata.

             Ra mè puesìa la gh’a indòss / i odùu selvàdig dra tèra / che ma ‘ncrusiava gobb / da fioròtt / a regalzà fòss da carlon / e patati in temp da guèra. / (Ra tèra, / a vèss bon da scultàla, / la marmogna / la parla / la spantéga i stagion da l’om / la fa grand un pòpol / o la ciama aiut.) // Cuscienza che da là ‘sta mè tèra /  freguia d’un nagot, / sa slarga cultura d’altra gént / e civiltà ch’a fai ur mund d’incoo. // (Ancha tanti infèrni d’innucént / da sempru sterminat a miglion / pa’l diu di guèr e di danée. / Ganassà infingard da cunfeérenz / tàia e medéga.)(11)

      La novità di questa seconda silloge non consiste solo nei contenuti tematici, bensì nello stile più attento all’uso “moderno” del dialetto, dove rientrano termini anche stranieri e dove l’autore abbandona, anzi ripudia con forza, l’uso della parlata vernacolare in direzione esclusivamente comica.(12) Sulla stessa linea si porranno altri autori dialettali, come Tolmino Baldassari o Nino Pedretti, che rivendicheranno il valore del vernacolo come forza e propulsione di denuncia, nonché di filosofia di vita.(13)

    Grazie a questa particolare visione o linea ispiratrice, Grignola non dimentica il lirismo, anzi lo esalta, e le sue composizioni assumono il valore di un espressionismo linguistico non indifferente. Così la pennellata poetica richiama le pennellate reali di grandi artisti e l’effetto, direi, è parallelo alla pittura. Si chiuda gli occhi e si ascolti questa breve lirica tutta incentrata sui colori.

    D’estat i carlonèr su’r mè Pian / i s’ciòpa in d’una vampàda / de sang ross / viòla e brunz aranzon / ch’i pizza l’orizzunt // Pussée ‘n su, ra spianàda / sota ‘l suu turmentat di girasuu / la ‘ncoca i öcc da giàld viv / e lus preputént. // …Vegn a gala l’òr e i suu pizzat / dar spatolat disperat / dar Van Gogh e dar nòss Corty.(14)

    Dopo tredici anni di silenzio, forse dettato dalla freddezza con cui l’ultima sua opera è stata accolta, esce nel 1983 “La mamm granda da tücc” (La nonna di tutti) in cui Grignola riprende le tematiche sociali degli anni settanta rivitalizzandoli e mettendoli in rapporto con la terra (la mamm granda) che diventa sacra e venerabile, che va rispettata e non calpestata. In caso contrario saremmo noi ad essere calpestati e a morire, perché rimaniamo senza riferimenti, orfani, costretti all’esilio, indifesi davanti al nuovo che avanza e che ci fa sentire “biott”.(15)

    Quand i ma ciama pueta / ma par de vèss un péss / fora da l’acqua. / Voi miga passà pa ‘n blagon / ch’a roba tesor / a r’umiltà dar mund. // Mila lavarìn sur s’ciopàa / di arnìsc ar lagh / i canta invéce dumà da l’om / che sa sculta denta da luu // par sentì i fracasséri dar Silenziu, / i Altri, ur Mund: tutt quel / c’ha pénsum Grand sura da num. (16)

     In culture diverse e distanti anni luce, come quella Incas e Andina, esiste il medesimo sentire nei confronti della terra, venerata e rispettata, chiamata “Pachamama” (La madre terra), perché la terra è la Gemeinschaft, comunità vivente, è quella che produce cibo ed esistenza, quella che

    fiada coi ort / pena vangaa, coi fòss / da la vigna ch’a rebütta / e sgonfia i firàgn. (17)

    Non c’è chi non veda una universalità di giudizio, una filosofia che attraversa secoli e popoli e che si rifà all’umanità insita in ciascuno di noi. La verità è che dobbiamo essere in grado di ragionare, di non lasciarci sedurre dal progresso che “intossega l’aqua, l’aria”, che contamina perfino “ul noss dialett”, dobbiamo fare attenzione e non lasciarci sedurre dal nuovo, dalla tv, dal lusso senza senso, perché

     coi danéé / em cambiaa i penséé, la manera da viv / e da guardass in di öcc. Sem pü nüm.(18)

     Grignola insiste su questo concetto. Non come rimpianto ma come lucida presa di coscienza della realtà. Confronto, questo, che avviene “tra la lucida coscienza razionale imperante, la superficiale logica del profitto, e il bisogno, sia pure impercettibile, del senso religioso dettatoci dall’ignoto che confusamente avvertiamo dentro fuori di noi. – così confesserà il poeta nella postfazione alla silloge “Lüs” –In certi momenti dell'esistenza, posti dì fronte interrogativi profondi,   il perché del nostro  stesso  nascere, vivere e morire. O mistero del creato.”

    Nel 1987, con un’introduzione a cura di Franco Loi, esce “La pagina striàda” che prosegue il precedente discorso sulla cosiddetta civiltà moderna in un modo, forse, più amaro e sconsolato. In effetti il poeta si dice impossibilitato a riabilitare l’uomo perché la poesia è debole e fragile e il male è più forte. Anche la storia diviene oggetto di contestazione per il fatto di essere incapace di risolvere le ingiustizie e diventa addirittura “pelanda” e come una prostituta si ripete in continuazione e inesorabilmente tanto che noi diventiamo “scendra ch’a smòrza l’alegrìa”.

 Se per Ungaretti l’allegria era un naufragio, con tutto quello che il naufragio comportava, soprattutto in simbologia e metafore, in Grignola l’allegria diventa cenere dato che la redenzione è solo un sogno, un’utopia.(19)

    Paròl biott / innucént come tatorìn / ‘pena nassùt / i spaciuga ra geometria mata / di ghirigori slargat / e revoltada repeton / in stralusc infinìt d’ar // sterminada nuvola da sturéi / a ròsc ch’a scuriss ur ciel / par piombà giò negra / stralunàda / a posàss in dra nòcc / di cannétt. / / Ra me puesia chissà ‘nduva / la và a posàss.(20)

     Da questo insopprimibile pessimismo che accompagna l’impotenza del poeta a poter cambiare le cose nasce “Ciel da paroll”, dove ancora una volta assistiamo alla volontà di ripartire dalle origini, ai radiis, perché solo da lì trae linfa la vita. Ed è una specie di ritorno alla prima raccolta, ma con una consapevolezza maggiore. Si tratta di una elegia del passato che riemerge in continuazione e che permette a livello poetico di affrancare la metafora della vita sui due paralleli cari a Grignola: paese e dialetto. Non esiste il tempo se non nella fuga dell’oggi. Tuttavia non solo nel mondo contadino si ritrova l’eden, il principio e la fine dell’esistenza, il paradiso perduto.(21)

    La sua ispirazione da una parte rimane “l’uomo con tutta la vastità del suo sentire”, dall’altra sono le “meraviglie della natura con il prodigio conosciuto e sempre inedito delle stagioni, con fiori, piante, prati, pascoli, boschi, colline e animali. È un infinito che si spalanca davanti agli occhi e va dritto al cuore. Già aprire gli occhi al mattino, osservare l’alba, lo spuntare del sole, questo miracolo incantevole”.(22)

    Tra l’altro non va dimenticato che fin dagli anni settanta, Grignola intrattiene un’amicizia poetica con Biagio Marin, sia per identità di intenti che per spirito vernacolare. Questa amicizia porterà i due poeti ad uno scambio epistolare da cui si deduce non solo una riflessione su se stessi e sulla loro poesia, bensì anche un cercare di capire e carpire il segreto del far poesia e di ciò che ne resta. (23) (24)

    A “Ciel de paròll” seguiranno le raccolte “Radisa innamurada – Poesie 1957-1997” (1997), “Visìn luntàn” (1999), “Lüs” (201) e “Paròll biott” (2016). In queste ultime sillogi dialettali il poeta di Agno non farà che confermare quanto sottolineato in precedenza. È tuttavia interessante soffermarci anche sulla particolare visione religiosa, di ispirazione e aspirazione, che traspare nella silloge “Lüs”.

    Il poeta di Agno rivela l’esistenza di un qualcosa insito nella stessa umanità. L’uomo tende a Dio nella ricerca di ciò che percepisce come ignoto. È importante però che ciò non avvenga attraverso dogmi, ma attraverso una sincera ricerca, una “apertura cosmica nello stupore per i miracoli della natura e delle sue stagioni rapportati all’uomo-formica dell’universo.”(25)

            Par indüinàtt in dr’aria, Signur, / m’è tocât andà fora dar paés /  parchè par strada, in piazza e tra i cà /  i lampión ar neon i scancèla /  ogni altra Lüs.(26)

         E si noti il termine Lüs scritto maiuscolo: riferimento evidente alla Luce di Dio che trova menzione anche in altre liriche della stessa raccolta in cui si ravvisa una tensione particolare a cogliere l’immanente, un desiderio di infinito, un tuffarsi nel mistero della vita e della morte. Il poeta è costretto ad allontanarsi dalla civilizzazione (simboleggiata in quel neon – una luce nuova che al posto di illuminare oscura il cielo, cancella l’illuminazione naturale della luna e delle stelle, e fa da contrapposizione alla Luce vera di Dio)(27)

     Più esplicita ancora quest’altra lirica con ex ergum di Biagio Marin:(28)

     Ogni volta che fregüia incantàda / da lüs piena e silenziu / rimiri la cüpola celèsta /       immensità sür mè pian d’Agn /  magón d’anima bióta /  mi Ta respìri, Signúr.(29)

    Sintetizzando allora, a questo punto e a mo’ di conclusione, la poetica di Fernando Grignola, avvio una mia particolare riflessione in base a quello che ho potuto constatare durante la lettura dei testi del poeta di Agno. Mi rendo conto che, probabilmente, uscirò dalle righe attribuendogli intenzioni che forse non erano le sue. Ma la poesia possiede anche questo di magico: trasporta il lettore verso lidi inaspettati allo stesso autore.(30)

    Di primo acchito mi viene spontaneo riflettere come il dialetto abbia valore e dignità poetica non meno che la lingua. In dialetto si può scrivere anche di filosofia, di vita, di eternità, e non solo e sempre di comicità e bosinate. La lingua è l’identità di un popolo, così come identitarie lo sono le sue radici, le quali non vanno dimenticate, ma nemmeno ricordate con nostalgia o con rimpianto. Le tradizioni di un paese vanno allora vivificate e tramandate con forza e con dignità, senza dover gioco forza costituire una giustificazione alle divisioni e alle sopraffazioni, ricordando che il male dell’uomo deriva anche dalle barriere etnico-sociali inutilmente innalzate e diventano ipso facto ostacolo di felicità, non solo per chi le subisce ma pure per coloro che le costruiscono. Recuperare la parlata locale non significa chiudersi in una torre d’avorio, bensì condividere con altri, anche di lingue e tradizioni differenti, esperienze e sentimenti. Non per nulla lo stesso Grignola si farà interprete di poeti dialettofoni di altre regioni. Ne abbiamo una prova con l’amicizia pluriennale con il gradese Biagio Marin e la traduzione, ad esempio, dei versi dell’abruzzese Pietro Civitareale.(31)

    In questo contesto penso che la poesia non appartenga al singolo poeta, ma sia di tutti e tutti sono i protagonisti nella e della poesia. Il poeta non possiede ma partecipa, non esclude ma include. Il poeta a volte denuncia ma non risolve, né può rinunciare a mostrare le problematiche o gli errori per un falso sentirsi isolato dalla comunità. E in questa àgape tutta laica e terrena viene da sé che la Natura sia lo spazio adibito all’incontro con gli altri, diventando altresì luogo non tanto di contemplazione quanto di immedesimazione, al limite del panismo. Se la Natura è di tutti e tutti devono utilizzarla con responsabilità, sarà opportuno riconoscerne la venerabilità ed ubbidirle come fosse una madre. Violentare la natura è violentare se stessi togliendo parte del futuro ai nostri figli e nipoti che difficilmente ne potranno usufruire.

    Ritornando, da ultimo, a considerazioni letterarie mi sembra importante non dimenticare la contemporaneità. Scrivere del nostro quotidiano, cioè di quello che la cultura tedesca chiama Alltagsleben, ha di pe sé un enorme valore. Senza di esso anche il passato verrebbe meno. Per cui è vitale rinnovare anche la parola, vernacolare e non, lasciando da parte il rifiuto di inserire nuovi e moderni vocaboli, anche di provenienza straniera, facendo sempre attenzione però che il loro utilizzo non diventi lo sfoggio inutile e superfluo di termini che possiamo trovare tranquillamente nella lingua madre.(32)

    Detto questo, lungi da me l’addossare consigli moralistici od etici a Fernando Grignola. La poesia ha dei binari tutti suoi. E come sosteneva Maritain la moralità dell’artista rimane nella sua opera, non in altro. Sta poi al lettore interpretare e cercare di capire. Il tutto logicamente in maniera soggettiva attraverso una propria esperienza personale.

 Enea Biumi

 

 Note

  1) A parte il folkloristico desiderio – mai sopito – di annettersi alla Svizzera italiana, c’è sicuramente un substrato culturale identitario – e nei costumi e nel linguaggio – che lega il Canton Ticino e l’Alto Varesotto. Non per nulla si parla di “regio insubrica”. Il Concorso che la Famiglia Bosina indice per l’acquisizione di Poeta bosino dell’anno ha visto la partecipazione di alcuni poeti ticinesi fra cui la poetessa Anna Maria Mion che si è aggiudicata nel 2009 il primo premio con la lirica “Fümm in d’un boff”. Nell’Antologia “I stràa d’ra Puesìa”, pubblicata nel 2010 dal Cenacolo dei Poeti e Prosatori varesini e varesotti, sono presenti autori ticinesi, come ad esempio il poeta Edo Figini. A Bellinzona esiste un “Centro di dialettologia ed etnografia” (l’attuale presidente è il dott. Paolo Ostinelli) la cui documentazione non si limita solo all’area ticinese bensì alla parte vernacolare italiana.

 2) "Ho parlato tutta la vita in dialetto / per non stracciare ricordi / e non dimenticare parole con l’odore / d’una maniera di stare al mondo / modellata, gettata nell’immondizia / dalle mie genti che strappano radici”

 3) Nella postfazione alla raccolta “Lüs” Grignola scrive: “Giunto alla soglia dei settanta, un’età non sospettabile di velleità ma piuttosto incline alla introspezione, sono soddisfatto di avere dedicato tutta la vita creativa a testimoniare la dignità del dialetto. Non soltanto come linguaggio della comunicazione nella quotidianità della mia gente, ma pure come congeniale espressione della personale ‘lingua della poesia’ di pari dignità, appunto, della poesia espressa in qualsiasi altra lingua del mondo.

 4) Cfr. F. Brevini, “Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo”, Einaudi, Torino, 1990.

5) In una lettera ad un amico Grignola esalta il rotacismo del dialetto proprio come recupero di valori linguistici antichi.

6) “In dialetto - come da sempre avviene nell’ambito della comune oralità discorsiva -  anche nel distillare la forma ‘alta’ della poesia, si possono esprimere emozioni, sentimenti e stati d’animo, estesi a1l'umanità di fronte agli accadimenti del mondo in cui viviamo. Quindi, ben al di là del nostalgico rimpianto passatista dello scontato orticello di casa della tradizione vernacolare all’ombra del campanile. (Postfazione a “Lüs”).

7)“Un lampione / un tombino / cunette, trifoglio, erbacce / acciottolato che sbadiglia / la noia di stare al mondo”

8) “Un bambino con gli occhi lucenti / ha già trovato una pozza / per fare ciff-ciaff…”

9)  Lo stesso poeta afferma che c’è un sentimento che prevale nelle sue composizioni ed è “la solidarietà e la compartecipazione per il mondo operaio, che ho conosciuto dal di dentro. Prima di essere assunto in Posta, mio padre mi mandò a lavorare in una piccola fabbrica di pipe. Lavoravo per ore a un tornio su blocchetti di radica da perforare. C’erano gli aspiratori, ma la polvere che si respirava e che rimaneva addosso, nei capelli, è inimmaginabile.”

10) “L’attitudine all’ispirazione ‘pensata’ sempre istintivamente nella lingua delle radici, il dialetto, mi offre qui l'occasione per ribadire come questa scelta sofferta, per me non sia mai stata dettata da presunzioni d'identità, o da assurde pretese di affermazione o distinzioni contro l'alterità di lingue ed etnie dell’odierna plurisocialità.” (Postfazione a “Lüs”).

11) “La mia poesia ha addosso/ gli odori selvatici della terra/ che mi ripiegava gobbo/ da ragazzotto/ a rincalzare solchi di granoturco/ e patate in tempo di guerra.// (La terra,/ a saperla ascoltare,/ sussurra/ ti parla/ sparpaglia le stagioni dell’uomo/ fa grande un popolo/ o supplica aiuto.) // Coscienza che oltre questa mia terra/ briciola d’un niente,/ si dilata cultura d’altri popoli/ e civiltà che hanno fatto il mondo contemporaneo.// (Anche tanti inferni di innocenti/ da sempre sterminati a milioni/ per il dio delle guerre  e dei soldi.// …Blablà d’ ipocrite conferenze.)”

12) “A scrivi sti puesii / perchè l’è mia vera / che in dialett / ul mund al sa veda / dumà in businàda.” (Scrivo queste poesie / perché non è vero / che in dialetto / il mondo si veda / solo nelle bosinate)

13) Nino Pedretti “Al vòusi” (Le voci); Tolino Baldassari “È pianofórt” (Il pianoforte)

14) “D’estate le distese di granoturco sul mio Piano / esplodono in una vampata / di sangue rosso / viola e bronzo arancioni / che accendono l’orizzonte. // Più in su, la spianata / sotto il sole tormentato dei girasoli / ubriaca gli occhi di giallo vivo / e luci prepotenti //…Vengon a galla l’oro e il sole accesi / dalle spatolate disperate / di Van Gogh e del nostro Corty.”

15) “E sem chi biott cumè furastéé / d’estaa a l’umbria di semafori / che ga tö ‘l fiaa.” (E siamo qui nudi come forestieri / d’estate all’ombra dei semafori / che gli tolgono il fiato)

16) “Quando mi chiamano poeta/ mi sembra d’essere un pesce/ fuori dall’acqua./ Non voglio passare per un borioso/ che ruba tesori/ all’umiltà del mondo.// Mille cardellini sull’esplodere/ delle acacie al lago/ cantano invece soltanto dell’uomo/ che si ascolta dentro// per sentire i frastuoni del Silenzio,/ gli Altri, il Mondo: tutto quello/ che pensiamo Grande sopra di noi.”

17) “Respira con gli orti / appena vangati, coi fossi / della vigna che fiorisce / e gonfia i filari.”

18) “Coi soldi / abbiamo cambiato i pensieri, il modo di vivere / e di guardarci negli occhi. Non siamo più noi.”

19) Si veda la prefazione a “La pagina striàda” di Franco Loi.

 20) “Parole nude / innocenti come pargoletti / appena nati / scarabocchiano la geometria pazza / dei ghirigori dilatati / e roteati di slancio / in infiniti balenii d’ali // smisurata nube di storni / a stormi che oscurano il cielo / per piombare nera / stralunata / a posarsi nella notte / dei canneti. // La mia poesia chissà dove / va a posarsi.”

 21) “L’impegno, con aperture fin dalla prima raccolta del 1965, è stato quello di sfatare l'errata convinzione, o prevenzione culturale, che in dialetto si può parlare (e scrivere) unicamente delle realtà confinate al mondo contadino, ai suoi ristretti orizzonti, e al linguaggio rurale adesso connesso di soli affetti, attrezzi, campi, stalle e cascine” (Postfazione a “Lüs”)

22) Dall’intervista di Giuseppe Zois più volte citata.

23) “Naturalmente la poesia deve essere atto creativo per restare poesia. […] Il linguaggio di tutti, di tutti i giorni, implica la meccanica ripetizione di parole e di frasi, e anche di contesti, che ha perduto ogni e qualsiasi originalità e perciò non può essere il linguaggio della poesia. […] Ogni poesia è una nuova lingua in creazione e che noi ricreiamo in noi” (Biagio Marin, Discorso sulla poesia, in Tra sera e note, Scheiwiller, Milano, 1968; e in Studi Mariniani, n. 4, 1995, a cura di Edda Serra).

24) Scriverà Grignola in una lettera a Biagio Marin che “la poesia vince la vita e la morte e ci fa immortali”

25) Flavio Medici, “La lacerazione del tempo in Grignola”, in GdP, Lugano, 4. 5. 2000).

26)  “Per indovinarti nell’aria, signore / sono andato fuori dal paese / perché per strada, in piazza e tra le case / i lampioni al neon cancellano / ogni altra Luce”

27) “Il mio legame con la natura, con le ‘radici’, alla mamm granda da tiicc: la terra, come doni divini, alimenta fortemente questo interiore e umile confronto con quanto mi è umanamente incomprensibile, o con la grazia della creazione che appena intuisco.” (Postfazione a “Lüs”)

28) “Preghiera a Dio no’ xe parola: / xe fioridura silensiosa in sielo…” (Preghiera a Dio non è parola / è fioritura silenziosa in cielo…)

29) “Ogni volta che briciola incantata / di luce piena e silenzio / ammiro la volta celeste / immensità sul mio pian d’Agno // commozione d’anima nuda / io Ti respiro, Signore.”

30) È un’affermazione di Romano Guardini che volentieri faccio mia.

31) Cfr. “Paròl biott (Parole nude)”, Ed. Ulivo, Balerna (CH), 2016

32) Se pensiamo che l’usatissimo termine italiano “ragazzo” sia di provenienza araba, ci rendiamo immediatamente conto come certi ostracismi lascino il tempo che trovano.


Biobibliografia

 Fernando Grignola nacque il 26 agosto 1932 ad Agnuzzo di Muzzano, ma crebbe ad Agno ed ivi morì il 22 agosto del 2022.  Visse, come ebbe a dire, in "tempi grami" e ben presto fu costretto ad imparare un mestiere, nonostante la maestra Maria Boschetti Alberti insistesse con i suoi genitori perché lo facessero continuare a studiare. Purtroppo le circostanze non gli permisero di seguire quelle sagge ed intuitive indicazioni, tanto è vero che per quindici anni, Grignola lavorò come postino a Caslano, trasferendosi in seguito presso una ditta dove nei ritagli di tempo poté dar vita alle sue capacità di scrittura, così come aveva intuito la maestra Maria Boschetti Alberti. Nel 1976 si diede alla scrittura di testi radiofonici per la trasmissione “La domenica popolare” con la guida dell’esperto Sergio Maspoli, di cui dal 1985 al 1994 raccolse il testimone. Svariate furono le sue commedie sia per la scena che per la radio. Per la scena ricordiamo Ul bosch dal dinosauro portato alla ribalta dalla Filodrammatica Santo Stefano di Tesserete, nel 1981, e riproposto nel 1986 dalla Filodrammatica Caritas di Gordola con la regia di Quirino Quirici: la pièce narra le peripezie attorno al ritrovamento di uno scheletro di dinosauro, inventato da una piccola comunità ticinese per aumentare l’attrattività turistica del proprio villaggio. Con la stessa commedia, rappresentata nel maggio del 1992 al Teatro Cittadella di Lugano dalla compagnia del Teatro dialettale alla RSI, Grignola esordì anche come regista teatrale. Sarà poi la Filodrammatica Santo Stefano ad allestire i successivi testi del Nostro: Füm in cà nel 1982; La cà dal runch  nel 1983; Brava gent, nel 1986, vicenda esilarante ruotante intorno a una balla di paglia rubata e a conigli amiantoattivi. Le tematiche che Fernando Grignola sviluppò nell’ambito scenico le ritroviamo, in parte, anche a livello poetico: si evince la nostalgia per il passato rurale che non dimentica però la realtà attuale, vale a dire l’Alltagsleben. Fu autore teatrale, certo, ma soprattutto anche poeta. Le sue opere di poesia hanno avuto prefazioni di Romano Broggini, Giorgio Bàrberi Squarotti, Fernando Zappa, Grytzko Mascioni, Franco Brevini, Franco Loi. Figura in antologie importanti sia in Svizzera che all'estero. Numerosi sono i critici che si occuparono dei suoi scritti. Tra loro possiamo citare i nomi di Mario Agliati, Dalmazio Ambrosioni, G. Bàrberi Squarotti, Silvio Bellezza, Giuseppe Biscossa, Franco Brevini, Luciana Caglio, Giovanna Ceccarelli, Pietro Civitareale, Giovanni Conti, Anna De Simoni, Gianfranco M. Fontana, Gabriele Ghiandoni, Franco Lanza, Mia Lecomte, Maria Grazia Lenisa, Franco Loi, Ottavio Lurati, Renato Martinoni, Flavio Medici, Giovanni Nadiani, Francesco Piga, Achille Serrao, Marco Tonacini, Andrea Zanzotto, Emilio Zucchi. La sua prima raccolta poetica Ur fiadàa dra gént fu tenuta a battesimo da Sergio Maspoli nel 1965 alla RSI. Fu amicissimo di Biagio Marin, col quale intrattenne un singolare rapporto d’affetto e di stima. Ne abbiamo testimonianza nella corrispondenza che il Maestro gli inviò da Grado (Si veda Radisa innamuràda, [Canzoniere poesia 1957-1997] Bioggio, 1997- 1998a). Sue poesie sono state tradotte in francese da Christian Viredaz, e in tedesco da Susanne Spahni, Choix de poésies - Gedichte aus vier Jahrzehnten, Solothurner Literaturtage, Soletta, 1998; in tedesco su Metaphorà, 3/4, 1998, a cura di Chasper Pult e Susanne Spahni, Lyrik und Prosa der lateinischen Schweiz, München; in francese su La revue de Belles-Lettres, 2/4, Genève, 1998, a cura di Christian Viredaz, Racine emplie d’amour, in Littérature de Suisse italienne. Grignola fu anche l’autore di Le radici ostinate, repertorio biobibliografico dei poeti dialettali della Svizzera italiana, del passato e contemporanei, Dadò, Locamo, 1995, segnalato al II Premio «Biagio Marin», Grado 1997, per la sezione Saggi sulla letteratura in dialetto di area italica. Le sue più recenti raccolte in vernacolo sono: La sonada senza nom, Agno, L.E.M.A., 1970; La mama granda da tücc, poesie e racconti, pref. Fernando Zappa, Pedrazzini, Locarno, 1983,1984a, Libro dell’anno della Fondazione Schìller; La pagina striàda, pref. Franco Loi, Pedrazzini, Locamo,1987, due ediz.; Ciel da paròll, pref. Franco Brevini, Bernasconi SA., Bioggio, 1991,1982a; Canzoniere 1957-1997, Radisa innamuràda, stesso Ed., 1997, 1998a, Premio Schiller 1998; Ur cör e la radísa, Lugano, Almanacco Malcantonese e Valle del Vedeggio, 1996; Visìn luntàn, pref. Franco Loi,  Mobydick, Faenza,1999;  Lüs, ill. di Silva Stegmüller-Grignola, Balerna, Ulivo, 2001; Paról biòtt - Parole nude, Balerna, Ulivo, 2016.  La produzione, poetica e non, in lingua ha i seguenti titoli: Solo la voce e altre poesie, Agno, L.E.M.A., 1963; La vicenda del vivere, Agno, L.E.M.A., 1967; Uomini e colline, Firenze, Club degli autori, 1975; Solo nel cuore abbiamo, prefazione di Grytzko Mascioni, Fossalta di Piave (Venezia), P.L. Rebellato, 1981; Radici di terra e di lago, Agno, MB Promotion SA, 2005; L'uomo che veniva dal mondo, Balerna, Ulivo, 2011; Nel tempo che scorre, Balerna, Ulivo, 2012; Là dove cantava l'usignolo, Balerna, Ulivo, 2014; Radici dell'oralità perduta, Pregassona-Lugano, Fontana, 2016.

 

Gianfranco Galante, Ti "racconto" perché, Circolo Scriptores, Varese, 2024

  Si potrebbe definire lo scritto di questo testo  “Ti racconto perché”  come un poema d’amore e sull’amore. Infatti, a mezzo tra una serie ...