lunedì 22 aprile 2024

Annitta Di Mineo, Del tempo disumano, Montabone Editore, Milano, 2023


Ci sono momenti della storia – e della vita – in cui il Poeta non può starsene appartato, abbarbicato a se stesso, solitario e pensoso in un suo eremo edulcorato. “Odio gli indifferenti” scriveva Antonio Gramsci su La città futura l’11 febbraio 1917. E proseguiva: “L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.” Ciò che valeva allora è ancor più importante adesso in cui il mondo sembra andare a catafascio per una serie di problemi mai risolti. Ed è ancor più dove­roso per chi ha il compito, per vocazione o per scelta, di essere portavoce o antesignano di valori morali e universali. Questo tempo, apostrofato dalla Poetessa disumano, costringe l’intellettuale a posizio­narsi, o ad essere come diceva lo stesso Gramsci “partigiano”, perché “chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. Ecco allora il Poeta affacciarsi al balcone della storia, scendere nelle piazze, affiancarsi ai cortei e pronunciare parole nuove, parole di cambiamento e di speranza. Alcuni possono vederci tanta utopia in ciò, ma non sempre l’utopia è un male. Anzi. Sem­mai il male sta nel nascondersi dietro a qualche colonna per non apparire, per non essere parte, per non ascoltare o addirittura disdegnare l’ascolto degli altri, ignorando le grida di chi chiede e sup­plica un aiuto. Tali brevi riflessioni mi sono venute spontanee alla lettura di questa silloge poetica – con presentazione di Vincenzo Guarracino e postfazione di Alberto Mori – che ha meritato di essere candidata al Premio Strega del 2024. Vediamone insieme i contenuti.



Il libro si presenta in sei parti così definite: Pace, Vittime di mafia, Migrazione, Voci di donne, Natura, Shoah. Ciò che lega queste pagine, il leitmotiv o file rouge è il male. Non quello metafisico di pasco­liana memoria, ma quello presente hinc et nunc, che ci perseguita e ci travolge e che, sebbene uomini di buona volontà, non riusciamo ad estirpare completamente. La prima sezione – Pace – è un j’accuse contro i potenti. Sembra di risentire i versi del Poeta latino Tibullo quando si chiedeva: “quis fuit horrendos primus qui protulit enses?”. E la constatazione è amara: “giochi di guerra divertono politici folli”. La pace non esiste, è al di là da venire. “Perché uccidersi?” si chiede la poetessa insieme con le parole ed il ricordo del padre “giovane combattente”. Domande che non hanno risposta, quesiti che rimangono tali e che trovano “un mondo” che li “sta a guardare”. Ecco dove si nasconde “la grande vergogna // Nessun Nobel pe i supereroi volontari”. La guerra non ha età. I versi che Annitta Di Mineo costruisce rievocano la prima guerra mondiale, la seconda, la guerra di liberazione partigiana e quella attuale in medio oriente. È una “tragedia antica”, ma una tragedia riconoscibile in ogni epoca e in ogni stagione, perché ha un proprio specifico “odore”: “l’odore di morte”.

Non meno potente la parte dedicata alle vittime di mafia. La poetessa, siciliana di nascita, si scaglia con veemenza verso chi in nome del dio denaro “compra e uccide”, derubando la libertà della sua terra e delle sue genti. E sono proprio le sue genti, vittime di mafia, che Di Mineo commemora, ricorda, e piange. Vittime, a volte dimenticate, come don Costantino Stella, Franca Viola, Rita Atria. Vittime alle quali la poetessa innalza supremi inni d’amore. Come in quella lirica alla memoria di Felicia e Peppino Impastato in cui si riflette un coro da tragedia greca che rimbalza accanto all’inno di Iacopone da Todi per il pianto della Vergine Maria sotto la croce del figlio. “Figlio, le mie giornate sono piene di te / Tra le lacrime confondo il dì e la notte. // Madre, non struggerti / la mia morte non sarà vana”.

Lo sguardo della poetessa poi cade sugli immigrati. Altro dramma, altra tragedia. Anche in questo caso il male è dettato dall’indifferenza. “Indifferenza e paura / annegano popoli / in cerca di coste-rifugio”. E coloro che più ci rimettono, perché inconsapevoli e innocenti, sono i bambini. “Bambino risucchiato da onde / restituito tra la schiuma / indigna sponde europee / sfama nababbi”. Non c’è pietà, nemmeno per i più piccoli. Queste persone in fuga diventano numeri alla mercè dei trafficanti. “Accordi su accordi e le cifre / muovono finte gare d’appalti / I colori non si fanno la guerra / si dividono i profughi”.

Nella quarta sezione Annitta Di Mineo ascolta la “Voce delle donne”, dove “corpi sacrificati giacciono a terra.” Perché le donne non hanno voce. Sono vittime sacrificali e sacrificate alla violenza, come lo fu Cristo: “Anch’io crocifissa / con corona di spine / assunta in cielo/ mi salvo dal dolore”. Qui il pessimismo della poetessa si fa più intenso. Sente su di sé il dolore delle donne. Ne coglie il lutto, il sacrificio. Denuncia l’ipocrisia, la sopraffazione nell’ambito della stessa famiglia. “Lontano da mio padre / ricomincio a danzare la vita”. Non mancano in questa parte, oltre al ricordo, le dediche personali: una a Carolina Picchio, le altre a Mahsa Amini, alle donne iraniane, alle donne ammalate alle quali di tanto in tanto Annitta dona i propri capelli lunghi, alle raccoglitrici di tè, affinché “sul mondo sfinito” possa nuovamente rinascere il fiore: cioè la donna.

In questa silloge la poetessa non si dimentica della Natura, non intesa in senso leopardiano, bensì come elemento da accudire amorevolmente nella consapevolezza che se lei perirà anche noi moriremmo con lei. Purtroppo però “i soldi valgono più dell’aria che respiriamo”. Ma non possiamo rassegnarci per cui un richiamo va fatto: “Uomo / non piangere dei mali del mondo / se vuoi la tua specie salvare / prima di marcire / e morire / educa i tuoi figli ad amare la Natura”. Solo così si riuscirà a salvare il mondo, difendendo la Natura e non offendendola. Solo così la Natura saprà ricambiare l’affetto apportatole. “All’alba di un’altra normalità / la mia orchidea sfacciatamente fiorisce”. E in tale rinascita la poetessa ritorna al passato, quando ancora giocava sulle spiagge della sua Sicilia, quando respirava a “pieni polmoni” l’aria ancora pulita inspirando “l’intenso profumo di resina”, mentre veniva cullata dallo sciabordio delle onde.

L’ultima sezione riguarda la Shoah. La prima lirica, dedicata a Liliana Segre, parla di un incontro avuto con lei, la commozione provata, la forza di vita ritrovata. Di Mineo si fa interprete dei sentimenti e delle emozioni di chi, non per propria colpa, ma per spregiudicate politiche, veniva deportato in campi di concentramento. Si immagina deportata tra deportati “Qui fra voi / sento l’erba sussultare e i fiori sbocciare”. Sente sopra di sé il dolore e gli affanni di un popolo costretto all’annientamento. Coglie l’asprezza di momenti vissuti con la morte sempre al proprio fianco e ne descrive il dramma mai sopito, mai dimenticato nemmeno da chi, più fortunato, è sopravvissuto. L’ultima lirica della raccolta, anch’essa dedicata a Liliana Segre, si intitola “Treno di sola andata” ed è stata tradotta in ebraico, francese, albanese, russo, tedesco, inglese, ucraino, spagnolo.

Grazie a questa silloge spero che gli indifferenti riescano a riabilitarsi. È necessario che l’umanità raccolga questa sfida che la poetessa ci offre affinché il mondo migliori, affinché non si ripetano più gli errori e gli orrori del passato, affinché cessino le sopraffazioni e le umiliazioni. Forse – ribadisco – è utopia. Ma è utopia in cui il j’accuse ha un senso reale. Un ritorno agli ideali, ormai derisi e messi da parte, di quando si gridava cantando “Siate felici”, perché solo così guerre, ingiustizie, soprusi possono essere sconfitti e banditi per sempre.



Enea Biumi



Sandro Gros-Pietro, L'abbaglio del Comandante, Genesi Editrice, Torino, 2024



«Si Deus est unde malum? Et si non est, unde bonum?» Così Boezio nel suo “De consolatione philosophiae”.

È quello che mi è venuto in mente ad una prima lettura di questo intrigante e nuovo romanzo di Sandro Gros-Pietro. Da una parte il male aleggia nella mente del protagonista, il Comandante Guglielmo Picasso, e dall’altra un bisogno ontologico di bene (riflesso nel sentimento d’amore) lo insegue fino alla fine. Una dualità che induce costantemente il lettore a una revisione di ciò che ha letto e leggerà.

E non è certo una novità per lo scrittore torinese la riflessione su tale dicotomia. In effetti, se andiamo alla sua produzione precedente, potremmo inserire questo nuovo romanzo come fosse una continuazione di “Fratello cattivo” e di “Le farfalle di Paciolo”. Ma proprio perché ne “L’abbaglio del Comandante” sono ineriti altri messaggi in diversificati contesti è necessario superare il conflitto fra Male e Bene, per ricondurci a contrasti ossimorici come quello tra Amore e Morte, oppure Ricchezza e Povertà, o ancora Libero arbitrio e Predestinazione. Tutti temi presenti nel romanzo e affrontati con dovizie di immagini ed esempi.

La narrazione inizia con un aforisma: “Non si è mai vittime senza avere colpe sulla coscienza”. E da subito veniamo catapultati in una profonda e seria considerazione filosofica alla quale fa seguito la simbologia di un “naufrago” che si inabissa in un “gorgo”. Ma la riflessione dura poco. Viene spazzata via dalla realtà del protagonista, il Comandante Guglio Picasso, e immediatamente si intuisce come il reale non sia nient’altro che una dimostrazione del pensiero, ovvero una specie di exemplum atto a rendere visibile e concreto ciò che è astratto.

Il romanzo prosegue in questo clima di esame di coscienza serale, ovvero di una laica analisi di se stesso. Guglio Picasso racconta la propria vita, i propri desideri, le vittorie e le sconfitte in un clima di atemporalità. È la riflessione interiore ad avere il sopravvento. E si sa che la riflessione non ha diacronia, un prima e un dopo, ma un nunc et hora. L’ieri e il domani ristanno nell’oggi in una successione non programmata né programmabile, con una casualità quasi sconcertante. L’abilità dell’autore sta nel saper attrarre a sé il lettore in una specie di abbraccio amichevole che è in fondo una mossa avvincente e sapiente all’interno di momenti apparentemente lontani o sconnessi ma debitamente uniti e intelligibili.

Dal secolo scorso, con l’Ulisse di Joice e con la narrativa sveviana, ci siamo abituati a seguire il flusso della coscienza, per cui l’acronia, dettata da continui ed improvvisi flash back (analessi e prolessi) che spezzano la sacralità del racconto, rompendo di fatto il filo della trama, vale a dire la cosiddetta fabula, non disturba, anzi rende più interessante la vicenda che si incentra soprattutto sull’autoriflessione interiore del protagonista. È da questa incessante analisi che il lettore comprende e rinsalda la diacronia delle vicende e il loro apparire nel tempo.

Nelle elucubrazioni del Comandante emerge la sua voglia di primeggiare che nasce, sembra di intuire, dal bisogno di riscatto della propria famiglia, un tempo famosa e ricca dinastia genovese di armatori ed ora decaduta e quasi del tutto dimenticata. Dimentica non certo dal figlio che conserva la casa avita come un Mausoleo, in cui lui stesso ama rifugiarsi per sopravvivere alle incongruenze della vita e alle sue numerose fatiche, fisiche e psicologiche.

Tuttavia il desiderio d’essere il primus (non certo inter pares), è pure il frutto di una mentalità, caratterizzante il fine novecento, giunta a noi tramite l’edonismo reaganiano e il berlusconismo tutto italiano. Di fatto Guglio Picasso riesce a “redimere” socialmente ed economicamente la sua famiglia: diventa armatore ricco, e forse anche stimato, dopo essersi vendicato, con un espediente, non molto nobile per la verità, delle ingiustizie subite da un altro armatore, Angelo Lupi, effettivamente mafioso e fuori legge. Tutto ciò però non gli permette tranquillità e serenità. I conflitti sono sempre in agguato, soprattutto quelli amorosi e famigliari. Nonché i rimorsi.

“È un veleno intossicante, che ramifica in formazioni sempre più estese e asfissianti” esclama a un certo punto della sua riflessione a proposito dell’ex armatore e rivale “Stringe d’assedio l’erbetta verde, la soffoca, la fa deperire. Col passare del tempo, l’alacre e discreto prato verde, morbido come velluto, sopperisce all’invasione della sterpaglia desertica e gialliccia.” Quel prato verde infestato da erbacce è la metafora della sua coscienza sporca e tormentata. Sporca per aver commesso atti illeciti e fuori legge, tormentata peri continui assalti di dubbi, incertezze e ambiguità esistenziali.

Infatti, complessi fattori psicologici ed emotivi, nonché avvenimenti contrastanti, conducono il protagonista, una volta realizzata la sua vendetta, a dover scegliere tra l’Amore e la Morte. Non si tratta tuttavia di reminiscenze romantiche riscontrabili in romanzi novecenteschi o in drammi classici, né di semplicistica trama telenovellistica. Per comprenderlo è sufficiente un breve accenno ad alcuni avvenimenti.

Dopo aver vendicato l’amico Gigi, che pure gli aveva rubato la moglie, e che era stato ucciso da quel tale Angelo Lupi, usurpatore della propria ricchezza famigliare, e suo rivale, l’amore diventa vitale in un incontro casuale con un’infermiera etiope. L’amerà con tutto se stesso, incondizionatamente. L’amerà fino ad aiutare lei ed i suoi in una emancipazione totale dalla miseria. Da lì si dipartiranno altre azioni, altre elucubrazioni, altri sentimenti. Sulla stessa linea sarà il comportamento del Comandante Picasso, ormai anziano, quando verrà a conoscenza d’aver generato con un’altra donna un figlio, attualmente perseguitato dal regime putiniano. Lo riconoscerà, prima di tutto, e in seguito lo salverà attraverso stratagemmi e soprattutto attraverso la sua potenza economica e la notorietà del proprio nome.

Ora non è il caso di spoilerare ulteriormente il romanzo. Vanno però sottolineate ancora tre cose.

La prima riguarda il titolo e la dicotomia presente costantemente in quest’opera di Sandro Gros-Pietro. Infatti, il termine “abbaglio” ha un duplice intendimento: da una parte sta a significare “lampo”, “illuminazione”, dall’altra “errore” (il lettore lo scoprirà solo nell’ultima pagina del romanzo, che disvelerà in una sorta di epifanica illuminazione il vero scopo delle azioni di Guglio Picasso). L’autore mette quindi a disposizione del lettore un ossimoro, (come lo sono la Vita e la Morte, il Male e il Bene, l’Amore e l’Odio) atto a delineare e comprendere l’esistenza stessa del protagonista.

La seconda è la molteplicità delle lenti che si possono utilizzare nell’analizzare il romanzo, ricondotte per semplicità a tre fondamentali: quella morale, psicologica e sociale. L’etica, ad esempio, è ripetutamente ignorata dal protagonista che si sente sempre super partes. Questo desiderio che può derivare da una varietà di motivazioni, tra cui la ricerca di autostima, il bisogno di riconoscimento sociale, la competizione, conduce Guglio Picasso in una eterna lotta con il mondo e con se stesso. La lente psicologica è quella che traspare nel romanzo attraverso elementi e istanti che accompagnano le innumerevoli riflessioni del protagonista, mentre l’aspetto sociologico lo si nota dagli avvenimenti che compongono il quadro storico generale in cui operano i vari personaggi. Se da una parte una delle caratteristiche della società attuale, modellata su standard trumpiani o, per rimanere in Italia, berlusconiani, è una ricerca smodata di successo, dall’altra rimane un quadro abbastanza sconsolante di un impatto negativo sul senso di comunità. Si va cioè a sostituire il bene sociale col proprio bene, minando in questo modo la solidarietà per perpetuare, in una mortale competizione, disuguaglianze e sopraffazioni. Sembra quasi di ritornare all’antico detto “homo homini lupus”.

La terza ed ultima questione è di natura filosofica-letteraria. Ho citato inizialmente Boezio, ma la vexata quaestio tra Bene e Male travalica il tempo e le ere e porta inevitabilmente con sé altri e non meno leciti interrogativi. Come in un fuori programma, vengono a galla nel romanzo confronti, asserzioni e citazioni. Andando in ordine (di pagine e non di tempo) si leggono alcune frasi che a mio avviso sono mattoni importanti nella decostruzione del racconto. E sono quelle sottolineature che ti danno il “la” e ti fanno comprendere, o per lo meno intuire, che il mondo di Guglio Picasso è il “nostro” mondo, che la sua filosofia e i suoi ideali, se non stiamo attenti a non farci ingannare e sopraffare dai luoghi comuni, potrebbero essere la “nostra” filosofia e i nostri ideali.

A tale proposito, riporto una frase che più mi ha affascinato e sulla quale forse si può costruire tutta la trama del romanzo. Eccola: “Plaisir d’amour, mister Guglio, ne dure qu’un moment; chagrin d’amour dure toute la vie”. Un aforisma sull’amore, oltre tutto in bocca al mafioso armatore Angelo Lupi, che però decifra e disvela la natura dell’animo del protagonista. Su questo aforisma si innesteranno azioni nonché interessi dello stesso. Se sostituiamo Plaisir con il Bene e Chagrin con il Male, abbiamo la cartina di tornasole di tutto l’intreccio del romanzo.

Ecco allora che l’abbaglio del Comandante porta in sé notevoli interrogativi esistenziali. Ci obbliga ad uscire dalla metafora per addentrarci nel vivo della realtà quotidiana, a meno che non si voglia rimanere indifferenti a ciò che oggi accade intorno a noi. Sebbene non sia del tutto corretto attribuire ad un romanzo o ad un autore un’impronta didattica, è pur evidente che la letteratura abbia implicitamente una sua validità morale: quella di farci riflettere.

Negli anni novanta del secolo scorso si è dato avvio a sistemi di vita e concezioni facilmente riconducibili al nostro Comandante Guglio Picasso. La televisione ha invaso le nostre menti condizionandone spesso le idee. La civiltà industriale avanzata ha creato una non-libertà più temibile di una dittatura. La globalizzazione, che di per sé può essere un bene, si è rivelata essere anche e soprattutto un male. L’uomo a una dimensione, di marcusiana memoria, è divenuto quel “pensiero unico”, in cui chi pensa o agisce diversamente è allontanato, deriso, sconfitto.

Riassumendo, dunque, viene spontanea una riflessione riguardante sì le azioni del Comandante, ma non solo. Si tratta cioè di rivedere e rileggere la carta d’identità di tutti i personaggi del romanzo per avere coscienza di tutto ciò che è di contorno. Allora scopriamo la falsità di alcune esistenze, la loro grandezza inutile, il loro potere, la smisurata rincorsa del denaro, la loro fragilità psicologica, la mancanza di ideali.

Forse anche Guglio Picasso ha rivisto la propria esistenza in tale direzione. Forse avrebbe persino voluto rimediare ai suoi errori. Questo non lo sapremo mai. Le sue ultime decisioni sono per la salvezza del figlio. Ormai ottuagenario porrà fine alla propria vita che si dissolverà con lui nella cella ecologica del suo transatlantico.

Ma è veramente sua la volontà che gli propina l’eutanasia o sono le circostanze che gli impongono l’autodistruzione? Dove sta il libero arbitrio, ci si può chiedere, se il Comandante è comunque obbligato ad agire in quel modo per salvare il figlio dalle grinfie putiniane? Può essere che Guglio Picasso sia stato predestinato ad una vita come quella da lui condotta fin dalla sua nascita? O no?

Non c’è risposta, perché non è questo lo scopo del romanzo. La piacevolezza di un racconto non sta in ciò che può più o meno insegnare. Ma nel suo intreccio. Lo sosteneva già Maritain. Tuttavia L’abbaglio del Comandante è uno di quei libri che aiutano, autorizzano e incoraggiano analisi nell’affronto di realtà quotidiane e nel confronto di un mondo contemporaneo spesso di difficile decifrazione.



Enea Biumi

 

 

 

 

domenica 21 aprile 2024

Enea Biumi, La sumènza du la nòcc, Il seme della notte, Scrittura Creativa Edizioni, Borgomanero, 2014


 

Le semplici cose della vita nella poesia del primo Biumi

Una poesia, quella del primo Enea Biumi (nom de plume di Giuliano Mangano), più precisamente la poesia di una raccolta risalente a qualche tempo fa, Il seme della notte (Scrittura creativa edizioni, 2014), che presenta in primo piano le semplici cose della vita; una vita povera, ma autentica: le monachine del focolare, le lucciole, “la gazzosa”, il paiolo per la polenta, “il cortile dove si giocava con la palla”, la canna della bicicletta, dove il bimbo veniva trasportato dal padre.  La poesia si scarnifica, si riduce a una secca enumerazione, si fa oggettuale, fermandosi a un passo dal silenzio: (“il lampadario/ il tavolo/le sedie”).

Anche le similitudini sono prese dalla vita di ogni giorno; il tempo è “come un panno di bucato”.

Lo sfondo è dato dall’universo familiare, dall’ambiente paesano, dagli spettacoli naturali, che destano una meravigli attonita davanti al sensibile; si tratta a volte anche di notturni di placida bellezza, contemplati in solitudine, ma anche in una solitudine a due (p 15). Spettacoli che la natura offre gratis, perché tutte le cose che “valgono” sono gratuite. Una natura che ha qualcosa di sacro; e infatti l’abbattimento di un albero è qualcosa di esecrabile non solo da un punto di vista eco logico; la condanna però resta implicita, senza bisogno di alcun commento e perciò risulta più netta.

Già la prima lirica è una traduzione libera dalle Bucoliche virgiliane e quindi ci offre l’humus, la cornice da cui la sua poiesis muove.  L’ambiente campagnolo si respira quasi nella puzza “di letame”; perché la vera poesia interessa spesso tutti i sensi, non solo la vista. E quest’odore di letame è l’equivalente olfattivo di un senso terragno e corposo delle descrizioni, che il dialetto favorisce, come ben sanno i lettori di Carlo Porta. Senza contare che il dialetto conserva anche capacità allusive che la lingua della comunicazione ha cancellato. E perciò meritoria è l’opera dei poeti che proprio per questo usano quella che una volta era la lingua materna, così contribuendo anche a preservarne l’esistenza. Perché il libro di Biumi è scritto in dialetto, con traduzione, se così si può dire, a fianco

Spesso si tratta di un quadretto nitido, che ha la purezza di un idillio, con coda gnomica nell’explicit.

A volte la breve opposizione non è incrinata da alcun sentimento. Si presenta in un presente eterno, fissato in gesti quasi ieratici.

A volte il quadretto è incrinato dalla nostalgia e allora si ha l’uso dell’imperfetto, il tempo appunto della nostalgia, accompagnata da un desiderio di pace, per una coscienza “sempre in guerra”.

Non manca l’amore nelle corde del poeta ed è visto come “qualcosa che vale”, simbolizzato “nei due occhi neri”, in un “angelo. E infatti con una dichiarazione, anzi con una doppia dichiarazione  d’ amore termina il libro.

Il futuro appare a volte come un” “sentiero in mezzo a un bosco”, ma, sembra dirci Enea, bisogna andare avanti. L’inverno diventa Il correlativo oggettivo o, la metafora  della vecchiaia. La  morte aspetta tutti e ciascuno, come in una “gran piazza/ dove una mano sorteggia il tuo destino”. Allora sembra prevalere la paura,  il desiderio di fuga, ribadito in martellanti anafore. Ma la paura non riguarda il Matto, il diverso, che il poeta sente, simile in questo ad Hanno dei Buddenbrook, come amico, come fraterno, e rappresenta forse la poesia, l’alterità.

Della fine l’io lirico ha una coscienza acutissima, dolorosa, che lo porta, in un’atmosfera da Sera del dì di festa, a chiudersi, ascoltando “i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno e quasi prendere congedo anticipatamente dalle gioie effimere del vivere.

             Fabio Dainotti

 

mercoledì 10 aprile 2024

Paolo Di Paolo “Romanzo senza umani” (Feltrinelli Editore, 2023)


Evidente il cursore che opprime, attende voce di un passato da interpretare, lo struggente redimere i fatti avvenuti o mancati attraverso un’ironia a volte cinica ma indifesa. Mauro Barbi è uno studioso solitario, ricercatore di storia moderna senza cattedra. Il lago di Costanza è luogo di una glaciazione avvenuta nel 1572. Al presente, l’uomo decide di recarsi sulle sue rive per ricostruire una successione di impressioni attraverso il concetto cardine di gelo e disgelo. Dal desiderio di recuperare qualcosa forse andato perduto. L’occasione che convince a rispondere a messaggi ignorati da anni. Il tutto converge verso una domanda esistenziale a cui non si sfugge: “che cosa ricordano, gli altri, di noi?”; da qui si sviluppa la prosa davvero, in questo caso, eccellente di Paolo Di Paolo nel suo “Romanzo senza umani”. Non conviene anticipare gli esiti di una narrazione attenta ma fermarsi anche arbitrariamente su qualcosa di talmente raro, in particolare sul fronte della grossa editoria commerciale, da evidenziarsi oltre i segnali delle storie, e cioè il vero e proprio, autentico, capace “esercizio di stile” sul piano specificamente narrativo. La scrittura incide su pagina l’equidistanza empatica tra aspettativa descrittiva sapientemente indirizzata verso la peculiarità di un’accensione cromatica e la riflessione sensibile ai precisi mutamenti delle stagioni climatiche ed anagrafiche quali specchio deformante il nostro stesso percepirci quali astanti nelle strade degli accadimenti e appartati protagonisti di azioni in atto, mai coerenti con lo sforzo previsto o adescati da interiezioni mobili. Il flusso narrativo disegna il senso della perdita, l’emergente connubio implicante la limitazione temporale che accenna alle volubilità delle epoche. La contraddittorietà propria di uno sguardo che si riconosce multiforme assiste passiva all’esuberante approccio scritturale dell’autore in uno scorrere che avvolge l’attenzione concessa al descrittivo profilo di una veggenza introversa, del non più “io è un altro” ma identità riconosciuta nel limite dell’altro; così come Di Paolo affonda il bisturi letterario nella personalità del limite proprio di ciascuno, enumerando l’aggettivazione calibrata sulla composta semantica delle articolazioni verbali. Questa volta diventa implicito, in questo “Romanzo senza umani”, riconoscere davvero la massima presenza invece degli umani stessi nel recitativo confronto delle parti, nella costruzione dell’immagine di sé che si vorrebbe oggetto del ricordo di coloro che abbiamo frequentato o anche solo sfiorato nei molteplici movimenti della nostra piccola storia. L’intransigenza dei rapporti interrotti, finiti, lasciati all’erosione di un tempo asettico, numericamente ridotto alla spoliazione del conto degli anni. Di Paolo, in questo suo esito, è fine psicologo, accurato biografo, prezioso distillatore di fascinosi paesaggi dove i colori sono vocaboli coltivati nella grazia inattesa di una tenda illuminata al neon, rigorosamente fuori da quei locali che abitano le memorie della nostra giovinezza. Il confrontarsi esigente con l’alternarsi della freddezza climatica, rievocata nello specifico evento storico, e di quella antropologica che ha ghiacciato i rapporti personali, è materia di una riflessione che imbarazza la nostra presunzione assertiva. Poniamoci allora di fronte alla evidenza del dato; scrive l’autore: “il vento insiste, squarcia lo strato basso di nubi e fa piovere quel poco di luce che ricolora di azzurro la superficie ghiacciata del lago. I cumuli di neve fresca brillano come piccole colline di sale”; mentre i capitoli si collegano in volo, fluendo da pagine aperte tra passato e presente, osservazione dell’ambiente e recupero delle voci. Ma la solitudine del protagonista è innesto di un esame di coscienza condotto dalla spinta degli appuntamenti mancati, di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Nel romanzo di Paolo Di Paolo soccorre l’ansito del significare possibile ma arduo nella condizione dell’offerta esprimibile ai mutamenti che caratterizzano il vissuto ma che, ad un certo punto, ci impongono le soste. Cosa realmente intende dirci il testo? Forse, sembra tra le righe di cogliere una risposta soltanto parziale con alcuni versi di Elio Pecora: “Quieti sediamo nell’ombra/ fra oggetti usati da tanto/ né conosciamo risposta,/ solo teniamo l’istante:/ il poco o niente che siamo”.

                              Andrea Rompianesi

 

 

lunedì 8 aprile 2024

Salvatore Smedile “La volontà dell’ovest” (Book Editore, 2024)


 

Ci sono sonni esposti ai mutamenti e veglie che intensificano lo sguardo. Oltre l’approccio del dire c’è un ritmo cadenzato che naviga in versi brevi assunti a struttura verticale, nella composta essenzialità dei rimedi. C’è un muoversi sul suolo non distratto che identifica una meta fisica da raggiungere attraverso il sentire della percezione. In questo caso la meta è Santiago di Compostela e il poeta/viandante Salvatore Smedile che con il suo “La volontà dell’ovest” ci accompagna attraverso le tappe di un procedere e, allo stesso tempo, riassumere l’esperienza rivolta a Finisterre, là dove l’orizzonte del mare comincia e la fatica della terra finisce. Certo “le ore cadranno dalle tasche/ piene di memorie/ che non si potranno/ raccogliere con una mano”; l’incontro scandisce il repertorio dei frammenti colti dal poeta nel caleidoscopio di figure, correnti, discese, soste, passaggi...”a volte tutto fugge/ senza lasciare tracce;/ a volte tutto rimane/ senza che si perda nulla”. L’autore sembra non voler limitare il suo dire alla necessità di un esito univoco ma, come nella migliore tradizione dello spirito del viaggio, in realtà il cammino stesso, osservante e pensoso, è già risposta e significato. Qui però sembra che un sottile strato d’inquietudine rivolga la sua attenzione alla presenza del timore; quello di confondere la caducità degli episodi con la frequenza insorgente della pulsione; la separazione implica sensibilità della cura, tremito operoso, dove le questioni dell’anima hanno estensioni impreviste, diciture incompiute, voci apprese che sono già echi. “Nelle orecchie una voce/ che cerca di svegliarmi/ da un oblio che dura/ da una vita” scrive il poeta “all’arrivo sarà/ più comprensibile/ questa opposizione”, ma è solo un auspicio che non inganna poiché l’arrivo è sempre e soltanto un nuovo inizio. Ad un certo punto, nel libro di Smedile, “il mare è nell’aria”: “Lo dicono le pietre/ i piedi, le scarpe/ i volti, i profumi/ i rumori”. L’elemento, la sua grandezza accoglie e sembra che davvero, come ha espresso in un suo titolo Giuseppe Conte, non si possa finire di scrivere sul mare. Non può mancare, comunque, l’ansia metafisica del “come tornare con la mente/ dove siamo stati con il corpo?/ Dove eravamo quando ancora/ non eravamo noi?”. Forse potremmo osare dire che eravamo negli occhi dei figli, i doni lungo il cammino sacrale, distaccato ed unito ai sussulti delle domande che nutrono la poesia. Ecco perché, scrive Salvatore Smedile, “E’ ora di andare/ di tornare da dove siamo/ partiti”, in un ciclo fertile che ci fa pensanti in tumulto, anche quando “sembra impossibile/ essere stati il cammino/ che non abbiamo deciso”.

 

                                                       Andrea Rompianesi

domenica 31 marzo 2024

Alessandro Assiri “Abitarmi stanca” (Puntoacapo Editrice, 2023)

 

                   


 “Una volta mi bastava poco, spostavo/ quattro mobili e credevo di aver compiuto una/ rivoluzione”; così si avvia la prima strofa, seguita poi da una seconda parte che si struttura formalmente quasi fosse un poemetto in prosa (in realtà tale ad una prosa poetica), di “Abitarmi stanca”, libro di Alessandro Assiri, “poeta di cose” come definito da Ivan Fedeli nella prefazione. Il senso effettivo della mobilità esausta, di una certa tensione alla rinuncia riscattata dalla immaginazione volitiva, comporta una visiva “occupazione della pagina” che rende molto stimolante lo sviluppo di una versificazione ibrida. Il verso che allunga il passo nella discorsività ritmica coniuga assonanza mite, ponderata, nella consapevole attenzione rivolta ai filtraggi di luce, ai chiaroscuri espressivi insediati nella tracciabilità delle imposte socchiuse, in una scolpita asimmetria dicibile perché pensata attraverso il rigore pervasivo dell’interpretazione capace di “significare” gli oggetti emersi. La quotidianità è altra e sospesa; di più, levigata nell’incisione scritturale, testata dalla modulazione pregnante dei termini nella loro solidità trattenuta, “da questa finestra che non si apre”. E’ certo esigibile l’oberato lavoro di spoliazione tra passi inseguiti e sensi di colpa accorpati in una vigilanza estrema, controllata, perché inerente al desiderio proposto di sollievo. Il “tu” è altro con diversa assenza; emerge una raffigurazione d’interni con gli elementi stessi posti a rievocare un vissuto, un pensato, in alterno susseguirsi dove le vicende sono granuli dispersi. Assiri contiene con una modulare esattezza l’involucro testuale in anticipo sul precluso, disposto agli accolti tratti levigati in spazi, in pause cognitive a dirsi opzioni per rielaborare il correlativo, l’attesa ciclica dell’ente fatto voce, condotto nella visibilità fruibile ma non esauribile. Azzarderei nel tracciato poetico una evocativa ontosofia laica diradata nelle flessioni di una quotidianità in frammenti dove l’episodio si fissa nella caratteristica percezione che si fa, appunto, sapienza delle cose. “Il mio azzurro ha una voce cruda non ha onde, è/ un reticolato/ un suono senza pace” scrive Alessandro Assiri “ E’ l’azzardo di uno scarto/ la terapia a scalare da un mezzo a un quarto”. Anche il verso lungo percepisce un richiamo prosastico ma, allo stesso tempo, si fa intriso di sospensioni a sua volta, non ammette prevedibilità di scansione. Il “tu” rivive negli enti, nei pensosi ancoraggi alla solidità esigua delle condizioni, negli anfratti percepiti e misurati dove, in diversi casi, scatta l’effetto sonoro della rima, sempre equilibrata. Poetare adulto, quello di Assiri, nella responsabilità del dire e del cogliere le fattezze misurabili di un esilio terreno. A volte l’intervento si fa estremamente contingente, quotidiano, volutamente concreto: “E’ così che tutto termina domenica come i divani/ senza nessuna certezza di esserci domani”. Certo la poesia va vista direttamente nello spazio della pagina per coglierne la sua natura anche grafica e visiva, il suo abitare attraverso lo specifico uso degli spazi, l’architettura dell’impianto testuale. Allora lo sviluppo porta davvero ad una dimora linguistica tangibile e dicibile, nell’acuta osservazione delle parti, nel retroscena attento del pensiero; comprendendo che il tentativo del poeta è di costruire, nell’evidenza dei particolari, un’autobiografia collettiva; così scrive : “Segno il tempo che manca in grovigli come nostalgie il corpo stanco di sbadigli dove davanti alle cose belle// ci si prende per mano”.

 

               Andrea Rompianesi

 

mercoledì 13 marzo 2024

Gianfranco Galante, Ti "racconto" perché, Circolo Scriptores, Varese, 2024

 



Si potrebbe definire lo scritto di questo testo “Ti racconto perché” come un poema d’amore e sull’amore. Infatti, a mezzo tra una serie di racconti, di poesie e di saggio, ci stanno una riflessione importante ed un invito. La riflessione è appunto quella riguardante l’amore in ogni sua forma e dimensione, l’invito riporta il lettore ad un esame di coscienza su di sé e sul mondo che lo circonda.

Ora, i racconti si potrebbero paragonare a degli exempla(1) che supportano considerazioni e valutazioni dell’autore, mentre le poesie traducono in sintesi le più svariate emozioni dovute a storie e accadimenti inerenti l’amore stesso.

Variegate sono le situazioni, ma una sola è la soluzione. Essa si traduce nella consapevolezza che l’uomo è un animale pensante, cosciente, dotato di una propria volontà e di un libero arbitrio che lo distinguono e lo fanno unico al mondo. Per questo ontologicamente si rende necessaria un’educazione all’altro, alla sua comprensione ed accettazione, e per questo basta una parola semplice che tutto racchiuda: amore. E non è la prima volta in cui Galante ci dà lezione, attraverso le sue opere, di moralità, civiltà e buon costume. Attenzione: moralità e non moralismo.

Si tratta allora di un trattato sull’amore? Certamente, ma non in senso filosofico sebbene poetico. Come ebbe a sottolineare Kant in un famoso detto: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.

Alcune riflessioni qui inserite erano già presenti nel De amore di Andrea Cappellano, come ad esempio: Nei piaceri d’amore non sopraffare la volontà dell’amante, oppure Conserva la castità per l’amante, ed anche Nel dare e nel ricevere piaceri d’amore mai deve mancare il senso del pudore. Ma Cappellano fu un autore medievale, con tutti i limiti che noi sappiamo e che non starò a sottolineare.

A tal proposito mi sovviene l’episodio dantesco di Paolo e Francesca, condannati non perché si amano ma per il fatto di essersi lasciati trascinare dall’irrazionalità della passione. Ed è una testimonianza, che l’amore è un elemento principale della condotta umana: da lì parte il tutto. Come lo dimostrano anche le parole di Cristo, o di Agostino d’Ippona che sostenne: “Ama e poi fa’ quello che vuoi”, perché era sicuro che l’amore conducesse solo al bene.

Dante attraverso quell’episodio del V Canto della Commedia condannava i romanzi cosiddetti d’amore che conducevano i lettori ad una pedissequa imitazione dei protagonisti.(2) Oggi non è più così. E non so quanti leggano ancora romanzi rosa, appassionanti e appassionati (lontane sono Liala, Delly, Mura, Guido da Verona, Pittigrilli). Oggi è la stagione degli influencer: questi sì, imitabili ed imitati e forse pericolosi, su alcuni aspetti, come lo fu, secondo l’Alighieri, Chrétien de Troyes con i suoi Lancillotto e Ginevra. Di per sé lo svenimento alla fine del Canto del Poeta dimostra come l’equilibrio amore-passione e razionale-irrazionale sia labile e il loro confine indefinito e indecifrabile, cui nemmeno Dante, soprattutto in età giovanile, poté sottrarsi(3).

Ma esistono purtroppo anche comportamenti inaccettabili tra amanti, meglio tra marito e moglie, ben sottolineati dall’autore e del tutto condivisibili. Non so se Galante abbia visto il film della Cortellesi “C’è ancora domani”, tanto giustamente celebrato. Di sicuro, però, il modo in cui in questo racconto-saggio viene descritto il rapporto uomo-donna è una chiara esaltazione di una unicità di legame paritario, attraverso la gentilezza, la comprensione, la non sopraffazione dell’uno sull’altra.

Nella seconda parte del testo, l’autore si sofferma sulla valorizzazione di altre culture, di altri saperi, di altri costumi. Ecco allora che da una prospettiva del singolo la visione offerta da Galante ci riconduce alla collettività. Un tempo, sostiene, gli emigranti eravamo noi italiani. Oggi noi siamo terra di immigrazione. Per questo dobbiamo saper accettare il diverso da noi.

Dalla “comprensione” empatica verso l’altro al discorso sulla guerra il passo è breve e naturale. La pace in fondo è un problema d’amore.

Così il libro diventa un vade mecum importante se non necessario da sistemare sul proprio comodino e sfogliare prima di addormentarsi, per un confronto con se stessi o per puro piacere intellettuale nella lettura di poesie e racconti come fossero favole o parabole divertenti oltre che esplicative e didascaliche.

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1)      Exemplum: racconto veridico a scopo didattico-religioso tipico della letteratura medievale, in cui il protagonista alla fine raggiunge la salvezza dell’anima. Nel corso dei secoli assunse un aspetto sempre più letterario, sino a confluire nella novella.

2)      “Quando leggemmo il disïato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante”.

3)      Si veda a tal proposito “La vita nova” in cui Dante tende a superare l’aspetto dolcestilnovista dell’amore cortese, portando l’amore a più elevata essenza e facendo della donna il tramite per raggiungere Dio.

   

Enea Biumi


Annitta Di Mineo, Del tempo disumano, Montabone Editore, Milano, 2023

Ci sono momenti della storia – e della vita – in cui il Poeta non può starsene appartato, abbarbicato a se stesso, solitario e pensoso in un...