giovedì 25 agosto 2022

Dora Mauro, Vagando, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

Vagando è diviso in due parti: acque e sguardo. Nella prima sequenza (acque) Luca è il protagonista di un racconto scandito attraverso momenti topici che sono: preludio, primo movimento, intermezzo, secondo movimento, finale. La seconda sequenza (sguardo) è invece un coup d’oil molto attuale, generato dalla pandemia e da ciò che ci ha costretto e lasciato.

Se non ho male interpretato Acque, la connotazione che Dora Mauro vuole imprimere è una narrazione preoccupata di cogliere gli aspetti psicologici e i risvolti spesso ambigui della realtà quotidiana passata al vaglio con gli occhi del protagonista. Le situazioni in cui Luca si viene a trovare sono apparentemente semplici, offerte al lettore in maniera chiara e trasparente, organizzate per moti dei giorni e delle ore, acquisite senza sottrarsi ad eventuali ambiguità di sorta.

Nel preludio si intuisce che il protagonista affronta una vita lontano dal paese natale e ne confronta istante per istante modalità e abitudini differenti. I toni sono quelli di una nostalgica infanzia, mentre i paragoni sono stemperati in una sorta di ascetica quotidianità, quasi una asettica considerazione sull’uso del vivere in un paesino disperso del meridione in contrapposizione al vivere “straniero”. Infatti il winstub sembra, ma non è, l’osteria conosciuta prima dell’emigrazione. Niente però è scontato, nulla è acquisito. Così come il rimpianto, nonostante tutto, non prevarica o impingua il tessuto narrativo.

Forse quello che Dora Mauro vuole trasmetterci è la volontà, come sosteneva Aristotile, di conquistare la felicità attraverso una normale esistenza: sono queste le riflessioni di Luca che si ritrovano anche nella sua prossemica e a dire il vero lo fanno assomigliare a un bambino che vuole assolutamente essere libero e che così si comporta nel segreto della sua cameretta ben sapendo che oltre quelle mura ci sono i genitori pronti ad intervenire e a rimproverarlo.

Ecco allora delineate e ridisegnate le sfumature psicologiche più liminari e complesse del protagonista. Nel primo e secondo movimento Luca vaga di paese in paese, tra amori e tradimenti, osserva e incamera situazioni e volti, ma quasi sempre si astiene dai giudizi, o per lo meno, rimane consapevole che la vita ci conduce spesso dove non avremmo voluto andare. La scrittrice sembra utilizzare, come da un palco teatrale, un binocolo col quale osserva e studia movimenti e atteggiamenti, anche i più piccoli o insignificanti – come quello di prendere il caffè, chiudere le persiane, leggere i cartelli indicatori, osservare il treno, odorare il profumo dei tigli.

È in questo contesto che si delinea il carattere di Luca come insegnante, il suo essere docente e il rapporto con la scuola, gli alunni, il preside. Quel mondo rappresenta in sintesi una dimensione esistenziale che si affaccia come in una scacchiera prestabilita, in una geometria di mosse e contromosse che prefigurano l’avvicendarsi dei destini: quello di Luca in primo piano e successivamente quelli di coloro che lo circondano in quell’agone misterioso e avvincente che è la vita.

 

 

Enea Biumi

lunedì 22 agosto 2022

Rosario Aveni, Accade, Genesi Editrice, Torino, 2020


 

La cifra costante della raccolta “Accade” di Rosario Aveni è il presente. Nell’architettura dei suoi versi è infatti possibile leggere quanto di reale succede (accade, appunto) senza sbavature retoriche o vani rimpianti. Tanto è vero che “in questa stagione/ rimpianti sono petali di fiori/ recisi dal vento”, vale a dire qualcosa destinata a scomparire, qualcosa su cui è inutile soffermarsi: meglio guardare a ciò che è vigente perché c’è chi “nasce e muore/ nel suo stesso divenire/ come la vita/ l’amore/ una farfalla/ dalla sera all’alba.”

Esiste allora un disegno, una specie di afflusso sensoriale, capace e determinato che riverbera l’attualità trasformandola in poesia. Rosario Aveni riesce a tessere versi in uno spazio temporale e geografico che coniuga fisicità e spiritualità in un ordine compatto e naturale, dove il pensiero si abbandona a punti pertinaci di riflessione – che Gros-Pietro chiama “moto perpetuo di una storia infinita” – come fossero sassi buttati nel lago atti a creare concentrici cerchi di emozioni.

Qui si abbandonano, dunque, le smagliature dell’anima, gli inganni del tempo, le reiterazioni di quesiti senza risposta, per ritornare ad ascoltare il peso dei propri passi, per non confondersi nell’irrazionale, attenendosi al rigore del quotidiano, l’unico in grado ancora di suggestioni poetiche al di là di mere fantasie o profezie.

“Il parco si svuota/ la gente torna a casa/ Resto seduto/ su questa panchina/ a contemplare / un tramonto radioso”.

Si tratta quindi di un percorso poetico che insiste su spunti, lacerti, agnizioni, trame, visioni che, come in un mosaico, si intrecciano, attraverso anche ad una serie di correlativi oggettivi, e dialogano tra loro offrendo al lettore abbrivii di forte impatto emotivo. Non altrimenti si comprenderebbero quelle “onde anomale di pensieri” o quel suo erigere “un muro/ fra me e il mondo/ convinto / che il mio spazio vitale / fosse illuminato dal buio/ In una notte senza stelle/ ritrovai/ l’aquilone e l’anima”. Allo stesso modo “tutto / appare più vero/al calar della sera”, e non sembri una contraddizione (il buio in effetti dovrebbe rendere tutto più incerto e misterioso). Contrariamente, invece, la sera rende più comprensibile il mondo, gli uomini, nonché “il cuore (che) pulsa/ effimeri attimi d’amore”.

In questo contesto non manca il desiderio dell’assoluto “anelo che ritorni/ l’angelo dell’alba/ per riprendere il volo/ raggiungere insieme/ il paradiso perduto/ sospeso nel buio”. Infatti, la contemplazione della natura o il ricordo che si fa vivo e pressante (“l’inevitabile avvenne/ senza rimorsi/ senza che alcuno/ lo venisse a sapere”) rimangono un passe-partout per segnalare, o in alcuni casi mimetizzare, il proprio ego (“ma gli occhi/ non mentono/ Riflettono la luce/ di chi sono”)

È necessario e opportuno, alla fine, segnalare il ritmo dei versi, adottato in forme brevi, senza punteggiatura, dove l’enjambement rientra come un intercalare espressionistico, in un modello stilistico musicalmente sciolto e convincente che fa da cartina di tornasole all’elaborazione e all’approfondimento contenutistico che rievoca transiti umani tra sofferenze e riflessioni, slanci e abbandoni, realtà e fantasia.

 

Enea Biumi

 

venerdì 19 agosto 2022

Walter Chiappelli, Sì, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

La dinamica musicale contenuta nelle liriche di Walter Chiappelli fa sì che le sue liriche approdino ad un racconto che abbraccia la totalità dell’esistenza. Lo dimostra quel “Sì” che dà vita e senso all’intera raccolta. Siamo di fronte ad un’architettura volta non solo a costruire metaforicamente una meditazione ed una riflessione, laica o religiosa poco importa, bensì a delineare una ritmica attraverso assonanze e consonanze atte ad esprimere un respiro del verso e la sua profondità.

È come quando si ascolta una perfetta partitura che il direttore d’orchestra calibra e dirige attraverso pause, forti e piani, improvvise accelerate di tempo, virtuosi silenzi. Davanti a queste forme il contenuto diventa ipso facto comprensibilmente chiaro, adamantino. Ed allora, come in un susseguirsi di aforismi, riappare la forza della poesia.

“…snebbiare snebbiare/ verso dopo verso varie poesie / vagamente ermetiche / e sperare di scorgere raggi d’amore/ le ali della gioia a pieno volo”

Amore, gioia, speranza: ecco i pali sui quali viene consolidata la parola poetica che serve da faro per proseguire il viaggio, sebbene in alcuni momenti il dolore ed il male abbiano la capacità di sopraffare il bene e la felicità. Ed ecco a questo punto affacciarsi l’alchimia della fede che disgela e cicatrizza la vita.

Sono i testi di Chiappelli volutamente personali, ma nello stesso tempo trascendono il sé e si fanno portatori di testimonianze. Non c’è ambiguità, ma riflessione autentica. Non c’è retorica, ma capacità persuasiva.

“Il fuoco non incenerisce la luce/ né l’acqua può affogarla/ il dio sole raggia la sua verità/ sa che nessuna potenza palpitante / può spengerla o mutarla in menzogna”

Oltre alla gradevolezza e alla bellezza insite in queste liriche, dobbiamo notare anche il desiderio di ricerca della verità: non quella assoluta, filosofica, ma quella del quotidiano, dell’hinc et nunc, dell’attimo fuggente. Non a caso in una sua poesia l’autore dirà: “Fra 18 anni avrò cent’anni/ bel bersaglio se riesco a centrarlo…/ ma occorre che qualcuno/ con arco teso e con gran cura / lanci spero con gentilezza/ uhi, senza innervosire il dolore/ ch’è sempre all’erta e mai sazio”

Le domande e le constatazioni sono quindi all’ordine del giorno. Si susseguono ininterrottamente come un fiume in piena. Ci si chiede che cosa sia l’amicizia, la lealtà, l’amore (erotico o platonico), l’odio, che valore abbia il denaro: quesiti che spesso si risolvono in altri quesiti e paiono a volte come sequenze di pascoliana o leopardiana memoria, rivalutando ora le piccole cose nella consapevolezza della loro grandezza, ora le incognite esistenziali sul tempo e sul mistero.

Non mancano nemmeno nei testi di Chiappelli gli istanti propedeutici della natura che ci accompagna notte e giorno, che ci culla e ci ammansisce. Né viene meno il ricordo di tempi in cui povertà e inconsapevolezza non distruggevano affatto la serenità del vivere. Anzi la rinvigorivano e ne illuminavano il prosieguo.

 

Enea Biumi           

 

Adelfo Maurizio Forni, “Quel giorno” – “Kintsugi”, Genesi Editrice, Torino, 2021 – 2022


 

 

 

Il tempo è l’elemento che unisce e racchiude gli episodi di questi due pregevoli volumetti di racconti. Ma non il tempo tradizionale, come lo intendiamo noi principalmente (un prima, un adesso e un dopo), bensì un tempo del tutto soggettivo e intimo. A ben vedere si tratta di un cammino interiore orchestrato su situazioni esterne al limite del doloroso, della ricerca del meglio o dell’indifferenza sostanzialmente priva di una qualsiasi meta. Ciò che ne risulta è uno schizzo di concreta umanità trasmessa attraverso l’esperienza personale e diretta dell’autore, il quale ama però celarsi quasi sempre dietro un volto, un nome, un avvenimento. I vari riferimenti diventano quindi il teatro che investe il lettore e lo conduce come dietro le quinte alla visione di uno spettacolo in fieri facendolo spesso sentire partecipe e attore lui stesso su quel palcoscenico che è la vita.

In tal modo prendono vita e si distinguono i vari racconti in una specie di eidophor in cui si avvicendano i personaggi o, per meglio dire, i diversi tipi con una loro intrinseca peculiarità. I tanti quadri che si dipano, non in successioni strettamente temporali, appaiono simili a commensali che discutono e dissertano acronicamente in un eterogeneo simposium, ubbidendo solo al caso o per meglio dire alla fantasia e alla penna dell’autore che ne traccia i profili.

Non dobbiamo meravigliarci quindi se, in questo modus vivendi e operandi, sussiste sempre un adynaton che si spiega solo se si è compiuto quel passo, ci si è attenuti a quel tale desiderio, si è espressa quella parola o quel giudizio. Da lì non si può più retrocedere. È il fato, o chi per esso, che lo vuole perché ormai le scelte sono state fatte e non si può scappare.

I due volumetti parlano appunto di una data fondamentale. “È proprio quel giorno in cui abbiamo preso una decisione, o abbiamo ascoltato qualcosa, quando siamo rimasti folgorati, quando abbiamo scelto consapevolmente o meno se andare a destra o a sinistra, quel momento in cui ci siamo ritrovati vestiti in un altro modo e incamminati in un percorso che ha cambiato la nostra esistenza.”

Significativo, a questo proposito, è anche il passo tratto da Enrico V di William Shakespeare che recita: “chi non morirà oggi e vivrà sino alla vecchiaia, ogni anno, la vigilia, conviterà i vicini (...) Felici noi, noi pochi, schiera di fratelli.” Il che evidenzia e giustifica, rafforzato da un punto di vista letterario,  il coinvolgimento in un possibile e ideale banchetto di amici e lettori.

La struttura dei due volumetti offre quindi una chiave di lettura asimmetrica: da una parte, in un crogiuolo di avvenimenti che seguono e inseguono la coscienza, ci stanno e vivono e amano e muoiono i personaggi, dall’altra in un arco di tempo ben delineato si innestano le storie dei protagonisti. Già questa esposizione, a double face, si potrebbe dire, racconta che la realtà fattuale va introiettata e analizzata per segmenti, mai accettata per così com’è o come potrebbe apparire.

Ecco allora uscire come da un magico cilindro figure esemplari quali Freda, Peppino, Francesco, Anna, Oksana, Deo, Edoardo e via dicendo: tutti personaggi nati dall’esperienza di Forni e maturati in una specie di quaderno diaristico attento e scrupoloso. Lo stanno a dimostrare le varie date che l’autore inserisce all’inizio del racconto, nonché le note e le sottolineature in corso d’opera, che motivano la curiosità del lettore. Così inquadrate in una sorta di autoreferenzialità, le vicende dei protagonisti creano il substrato e l’humus che sono la ricchezza dei racconti.

In queste pagine siamo quindi portati a cogliere, insieme con gli attori principali, momenti di una vita problematica che si interroga sul proprio essere: momenti che sono al tempo stesso testimonianza e segno etico, ovvero schizzi di una umanità che si racconta attraverso un’esperienza propria e imprescindibile. Ascoltiamo vicissitudini che si intrecciano in volti   rintracciabili nella quotidianità: una grande partitura diretta e progettata dall’esperienza dell’autore, nel desiderio di trasmetterci momenti atti a renderci più sensibili e attenti, più riflessivi e savi, perché “chiusa una porta si apre un portone”.

Orgogliosamente Maurizio Adelfo Forni sottolinea che si tratta del suo nono libro. Romanticamente possiamo definirlo il suo nono figlio: una successione che non smentisce le sue capacità di scrittura, anzi le esalta e le affina. Lo scopo – sembra alla fine suggerire l’autore – almeno in questo scorcio di tempo, sicuramente non brillante né consolante, è quello di risorgere più “impreziositi”, insieme e in grazie dei racconti, secondo quell’arte che i giapponesi chiamano “kintsugi”, vale a dire abilità nel rimettere a posto i pezzi che possono essersi rotti o rovinati e farli rinascere a nuova e miglior vita.

                                                                                        Enea Biumi

             

Gianfranco Galante, Ti "racconto" perché, Circolo Scriptores, Varese, 2024

  Si potrebbe definire lo scritto di questo testo  “Ti racconto perché”  come un poema d’amore e sull’amore. Infatti, a mezzo tra una serie ...