venerdì 20 dicembre 2019

Gianfranco Galante, Il pensiero soffia ancora, TraccePerLaMeta Edizioni



C’è, in quest’ultima silloge poetica di Gianfranco Galante “Il pensiero soffia ancora”, una forza consapevole ed integra, accompagnata da una autorevole originale vitalità, che si dipana nell’armoniosità dei versi, tale da entrare immediatamente ed empaticamente in sintonia con il poeta stesso. La pienezza del pensiero fa sì che il lettore si renda partecipe di quel soffio che sprona l’autore alla scrittura e ne dilata il contenuto non più còlto in un ambito personale, unico e solo, bensì promotore d’un dialogo e interlocutore di un “altro”.

E passeggio solo,
per avere chi cammini
a fianco a me.
 
Il sentimento si eleva e si ravviva. Traspare e fluisce con un vocabolario classico ed elegante, nel quale si intravedono rime e ritmi scientemente travasati in ricchezza di stile e contenuto. Potrebbe sembrare bizzarro – ma già altri l’hanno utilizzato (non ultima la Patrizia Valduga) – il condurre la poesia attraverso un attento e preciso rimario, apparentemente rifiutato nel novecento, ma è proprio da questa scelta che si sviluppano e si integrano significato e significante.

Plasmare la lingua
modellare il pensiero,
levigare con penna
perché sembri vero.(…)
 
E’ marmo che tiene,
resiste scalfito,
l’opera emerge
d’un blocco a granito.
 
Il linguaggio così esposto ci conduce ad una dimensione di immagini sobrie ed efficaci afferenti in modo particolare il tema dell’amore.

Già labbra socchiuse
sfioran la pelle;
inebrio al profumo
e sento un vibrar di stelle.
 
Ma non solo amore. In effetti, Galante osserva la vita in tutte le sue fasi ed evoluzioni. Dove naturalmente l’amore prevale su tutto. 

Siamo ombra, siamo niente,
siamo sempre solo gente.

La ritmica - e la poesia deve essere musicale, altrimenti non la chiameremmo lirica - giocata  in massima parte su quinari, senari e settenari, facilita sulla pagina ciò che nella vita appare meno scontato e più duro, dilatando nel tempo e nello spazio elementi empirici e realistici estranei alla narrazione poetica in sé, così che descrizioni paesaggistiche e riflessioni personali diventano un tutt’uno, sulla scorta della lezione poetica tradizionale. Alla stregua di un idillio.

Dimmi, luna,
che sarà ‘l doman di me;
se lo sai, luna, dimmi tu.

Non altrimenti potrebbero leggersi queste quartine:

Spicchio di luna
che sorgi dal monte
annunci serena
la notte vicina.
 
Tornan le barche
accolte giù al molo
dov’offre rifugio
il suo porticciolo.


Queste strofe sono costruite su quinari che fanno scivolare il pensiero rapido e leggero al verso finale, contenente in nuce il senso della poesia stessa: “il cuor qui si lascia”. Vale a dire: il mio cuore, che è al centro di me stesso ma anche al centro della mia scrittura, si trova qui, e qui si installa: deciso a non abbandonare niente e nessuno. Alla fine, il pessimismo della ragione, che ci perseguita dai secoli del razionalismo, si tramuta in senso religioso, in imprescindibile pragmatismo morale, che non è moralismo, ma capacità d’essere hic et nunc uomini eticamente corretti.


Il bene a fondo, sotto pelle,
mai non nuoce e dà calore;
ci ricorda sol che in vita
ciò che sempre ci conduce
non è chiasso e gran clamore,
ma profondo e caldo amore.


Enea  Biumi






venerdì 11 ottobre 2019

Maria Borio “Trasparenza” - Interlinea Edizioni, 2018




L’accenno riproduttivo e fecondo esegue una partitura dialettica dove tesi e antitesi sono il puro e l’impuro. Sintesi diviene la trasparenza, forse il grande vetro del mondo digitale che confonde e scambia le parti. E proprio “Trasparenza” è il titolo del libro di poesia proposto da Maria Borio. C’è, inizialmente, un tentativo di fuga dalla rigidità della forma a vantaggio di una materia che si pone come inalienabile confronto. La struttura testuale determina una successione strofica a costruzione compatta, volutamente ancorata ad una tecnica dicibile estremamente controllata, riportata ad una geometria nitida che si sente quasi costretta a rendere ragione di una partitura non limitata all’univocità della determinazione versificante, ma tale da confidare nella ricezione consapevole attuata in visibilità reiterata, attraverso una orchestrazione di messe a fuoco su elementi correlativi. Ci si affida alla responsabilità del lettore affinché osservi, nella determinata volontà di attenzione, le parole idonee all’umano. “L’attrito sempre quando capita una coincidenza”; d’altra parte, si sa, il tomismo ci ha insegnato che pensiero e linguaggio, poiché sono qualcosa, sono nell’essere; essere e linguaggio, in quanto pensati, sono nel pensiero; essere e pensiero, in quanto detti, sono nel linguaggio. Operare una sintesi è anche sezionare l’accortezza delle differenze, natura data e tecnologia imposta. La scrittura segna il limite esatto che traccia il cammino percorribile nella dinamicità cognitiva della scelta. Un tessuto prosastico accentua l’evoluzione del dettato stilistico, imprime alla tersa qualità della pagina la calibratura parsimoniosa della comunicazione. D’altra parte, il luogo ci abita; scrive Maria Borio: “Eri nel punto più alto della scogliera/ nel vento del nord affilato, lunare”. Un caleidoscopio di frammenti intende risuonare alto, quasi a confessare una composta critica del virtuale, un bisogno intimo di contatto con le cose in atto, con gli eventi...”-siamo una finestra senza imposte,/ il vetro su cui le storie aderiscono-“. Il procedimento logico, a volte, introduce sinapsi tra ambientazioni concettuali differenti, appellandosi ad una intenzione suggerita di oltrepassare la visibilità costituente l’accessibile, in uno struggente diramarsi filtrato; “Ma adesso alberi è una parola irreale” e molto sfugge alla gradualità della proposta, alla difficoltà del partecipare, a quella condizione che, per dirla con William Gaddis, porta all’agonia dell’agape. Le imperfezioni sono tagli esistenziali nella continuità di un confronto di elementi tra purezze e impurità, nella vocazione che si fa opzione di recupero in memoria di dialoghi perduti. Diafano il profilo femminile che dirime assunzioni materne nella vulnerabilità delle trasformazioni ancorate, da ipotesi di abbandono che funestano il dettato tecnologico quale motore acefalo, caravanserraglio sterile. Ma la risposta è nell’eco di tracce dove la parola conduce alla storia; ed allora sembra davvero che “luci/ magre ed elettriche” occhieggino Govoni, e le modalità trasparenti, Stevens. Maria Borio ci avverte: “Hai il petto spaccato, scrittura e lavoro/ sono immagini: l’acqua si apre a cerchi/ come il cadere continuo/ degli occhi sulla fontana...” poi, tratteremo altra modalità connotativa, diversa applicazione in lessico, rivolta poetica nei confronti di un’incombente assuefazione alla passività dei contenuti, mentre “ci siamo persi di notte su questa riva,/ le luci oscillano sopra le spalle”.
Andrea Rompianesi

giovedì 12 settembre 2019

Renata Morresi “Terzo paesaggio” (Nino Aragno Editore, 2019)



“da un nulla di torba, argon, catrame/ canta me, besame mucho, diastema/.../ il nulla che muovo como si fuera/ esta noche/ la/ voz”... come suono in plurilinguismo asimmetrico, come inserzione di sintagmi in apertura, i rimandi evidenti suonano nell’accorta tessitura del dettaglio. E’ “Terzo paesaggio” di Renata Morresi, autrice e traduttrice di letteratura anglo-americana. Quel paesaggio terzo che corrisponde a tutti quei luoghi abbandonati dall’uomo, intende porsi a scenario di scomposto approdo per obliqui e ironici affondi. Uno dei primi temi trattati, essendo l’autrice di Recanati, è il dramma del terremoto che nel 2016 ha colpito le Marche. Renata Morresi intende denunciare, attraverso un approccio stilistico originale, la deriva retorica dimostrata dalla banalizzazione dei toni nel sistema dei media. I tronconi dei versi sembrano figurare resti e relitti, geometrie abitative divelte e nello stesso tempo, le colpevoli negligenze velate da progettualità vendute come risolutive e salvifiche. L’amarezza destina il processo alla sonorità allitterante contesa da una volontà attinente alla prosecuzione narrativa, alla contrastiva opportunità di composizioni a versi ridotti in unità sillabiche, oltre a spasimi estesi e dilatati in versi lunghi e prosastici. Figurazioni opposte che si alternano sulla pagina. Una qualche assonanza intercetta il flusso contenuto all’interno di un dire che contempla duro le patologie di uno stato civile che ha perduto le sue vere prerogative; la sindrome depressiva di un contesto generale impregnato di precarietà, deriva economica, delirio digitale. Vi è poi una sezione, “Car wash”, dedicata alla memoria del padre, definito dall’autrice “uomo di natura e di macchine”; il verso qui compone adulto il tratto reiterante che designa l’articolata e alterna posizione spaziale nella vocazione sospensiva della “solo attesa” nel travaglio indocile de “la percezione libera”. Ci sono interventi linguistici di particolare riproduzione elaborativa che ricordano esperienze poetiche tecnicamente legate alla rappresentazione dei meccanismi come, solo per citarne un esempio tra i più riusciti, “Distribuzione” di Alberto Mori, nel quale l’uso espressivo riproduce la modalità della sigla nella sua accezione semiotica in rigore modernistico: “ ne 1 pista aspirazione 2 pista aspira 3 s spi azio  4 sta razion 5 pi spi ne”. L’incastro movimentato non estingue il dolore e attende un moto la possibile consolazione ritradotta in smarrimento fluido, la stessa diversa grandezza, a volte, dei caratteri tipografici, lo svelante ritmo conoscitivo in potenza memorabile nella “pianura di noi espansa, bianca/ che non viene separata dalla notte”. D’altra parte già prima, molto prima, si erano svolte ondulazioni sussistenti che operavano riconoscimenti istintivi e dislocati in procedure mobili, ipotizzando “le cose che vedremmo andando in bicicletta/ sulla battigia”. Poi tutto diventa imbarazzo sillabico, volutamente spezzato, quasi infranto, come una procedura linguistica che rivela interruzioni inesplicabili, ingorghi indicibili, frantumati messaggi occupanti lo spazio web. Ci salverà forse la possibilità di una pista; quella riproposta da Franco Fortini: “Noi ci troviamo in questo momento in corsa/ in una lunghissima curva della pista”. Renata Morresi ci parla di una vocazione intessuta di elaborazione linguistica e abilitata a commuoversi “per quel tacere delle cose”.

                                                                      Andrea Rompianesi

mercoledì 17 luglio 2019

Flavio Ermini “Edeniche” (Moretti e Vitali Editori, 2019)




E’ sapienziale il tono di Flavio Ermini in “Edeniche”; la poesia sviluppa un verso prosastico a contenuto filosofico dove si assiste ad una evocazione del “darsi iniziale” di un’età in cui il tempo riposava nell’essere. Il moto aurorale dell’esistenza richiama la nostra osservazione vigile prima della cosa, all’esatto processo di appartenenza come enti, nella consapevolezza di una separazione degli esseri dalla sostanza, verso un destino di conflitti e contrasti. Recuperare un’acquisizione perduta, dunque, s’impone come progetto ampiamente trattato nella consistenza saggistica della riflessione poetante. Ermini è autore profondo e inquieto di fronte al destino degli uomini; ha vissuto stagioni accorate di meditazione sul compito terreno dei mortali, sulla sofferta determinazione nel cogliere un tratto che auspichi consapevolezza primigenia, mutamento arcaico, forse quell’indefinito che era principio degli esseri per Anassimandro. Qualcuno potrebbe affermare giustamente che se è vero che non c’è inizio senza fine, non può nemmeno esserci allora fine senza inizio. E ben oltre andava la riflessione di Heidegger, così spesso volutamente frainteso su basi ideologiche, nel recupero di un concetto di essere collocabile all’inizio di una tradizione da reinterpretare alla luce di un esito che richiede il significato della nostra temporalità, ponendolo come irrisolto quesito. Ma, continuava Heidegger, proprio “l’indefinibilità dell’essere non esenta dalla domanda circa il suo senso, al contrario la provoca”. Da qui, la necessità ribadita, dunque, di un significato. Si parla quindi di principio, dolore, sostanza, essere per la morte ma, contemporaneamente, in lineare continuità, di sogno e azzurrità, di stelle e ultima terra, di luce originaria, del divino. Ermini ci presenta una forma di cacciata dall’Eden, di una condanna all’esilio. In realtà il tema biblico, nella sua accezione più esegetica che si fonda sui generi letterari, vede la libera scelta dell’uomo che proprio della sua libertà si fa vanto, disconoscendo un rapporto di filiazione in una volontaria espressione di superbia. Voler contare solo sui mezzi umani mette a confronto immediato con le capacità ma anche con i limiti. Ci sono accenni tra i versi che evocano il movimento e mutamento di afflato inesorabilmente tomistico, così come la suggestione di una “trasformatio mundi”. Il verso lungo pianifica l’attribuzione dei passaggi che, implacabili, determinano l’assuefazione ad una pratica di lettura dilatata alla vocazione assertiva. Una dizione linguisticamente lenitiva, quasi progettata su moduli di respirazione interiore, nella peculiarità conoscitiva rivolta all’origine, apre aree di approfondimento ancorato al nostro domandare. “Sotto uno spazio definito da stelle inerti e tenebre/ prelude all’incontro con la morte l’atto di cadere”, e proprio la filosofia, sosteneva Emanuele Severino, nasce come risposta di fronte alla domanda che la morte stessa ci suscita. Emerge, ad un certo punto, il tema specifico della discordia tra gli umani; quella radicale lotta che conduce al contrasto estremo, alla guerra. Si apre uno scenario di rovine da terra desolata all’interno del quale il poeta disegna le indicative configurazioni del principio. C’è una ricerca del sentire che determina acquisizione di fratture, intenti di progetto. Scriveva Schelling: “Il limite che Fichte poneva fuori dell’Io, fu posto così da me nell’Io stesso, e il processo divenne un processo puramente immanente, nel quale l’Io si occupa solamente di se stesso, della contraddizione sua propria, posta in lui stesso, di essere cioè insieme soggetto e oggetto, finito come coscienza e infinito in quanto Principio produttore dell’universo”. E, al di là del persistente riflettere, adombra la prospettiva dell’esilio, la sua determinata osservanza; infatti “ha voci ovunque il cantiere dell’uomo/ nel richiamare alla mente la casa natale/ che spinge l’esule a uno stato di sconforto/ in quanto elemento destinato alla fine”. Precarietà e senso del dissolvimento incombono nella poesia di Ermini, ma proprio questa identità che si pone di fronte come destino fa sì che, paradossalmente, il destino stesso acquisisca il suo più profondo significato ontologico.
 
Andrea Rompianesi

lunedì 8 luglio 2019

Carlo Zanzi, Nudo di uomo, Macchione editore, Varese, 2019




È un inno all’Amore questo “Nudo di uomo” di Carlo Zanzi, rivelato anche dalle citazioni iniziali (Dante, San Giovanni) e dall’esergo “a quanti si amano follemente”. Nel contempo, però, siamo di fronte a un inno, o, ancor meglio, al trionfo della Morte. Il binomio Amore-Morte, tanto caro alla letteratura romantica, viene qui riproposto in termini e in situazioni del tutto contemporanei il cui nucleo essenziale si manifesta in un costante e inappagante autodafè dei protagonisti. Danilo, Massimo, Rosa, Maria, Alessandra  – ma anche altri personaggi meno presenti – si interrogano in continuazione sul loro ruolo, sullo scopo della loro esistenza, sulla verità delle loro azioni. Il lettore si trova davanti, pagina dopo pagina, a delle coscienze che scavano nei propri anfratti più nascosti e segreti perché hanno desiderio di autoconoscersi, verificando maniacalmente, secondo dopo secondo, ogni istante della propria esistenza. Non era facile affrontare un tema così complesso e dalle varie sfaccettature, ma Zanzi vi è riuscito attraverso un linguaggio scorrevole ed una scrittura chiara – ma non semplicistica – che rende agevole la lettura e incuriosisce. Così come sono curiosi, ma di se stessi, i protagonisti del romanzo, che vogliono rendere visibile e cosciente quello che è determinato dal subcosciente. Frequenti, ad esempio, sono i sogni, tipici momenti – e topici – dell’introspezione freudiana. Ecco allora disvelata l’accezione iponimica di quel “nudo”. È   un po’ come mettersi dinanzi allo specchio ed esaminarsi millimetro per millimetro. Ma l’analisi è tutta interiore. Il nudo che appare è dentro di sé. È lo svelamento di un dire e di un non dire, di un farsi e non farsi, a volte per giustificarsi, a volte per condannarsi. Analessi e prolessi si alternano in un flusso esasperato di domande che spesso non hanno risposte. È un procedere che sembra non avere pause, un ritmo che non si ferma, nemmeno nel sonno. Anzi, è proprio il sonno che fa pulsare maggiormente l’amore, che lo innalza alla clarità platonica o che lo declassa a semplice gioco erotico. E dopo il sogno ricompare la vita, con le sue affezioni, con i suoi tormenti.  Amicizie, primi amori, tradimenti, incomprensioni, religiosità, lavoro, ricordi, desideri. Ma emerge, nella sua brutalità, anche la morte. Tutti ne hanno paura. La temono. Massimo, addirittura, fugge dal capezzale della moglie morente. Non ne vuole cogliere il dramma. Solo a posteriori intende che il momento della morte è un supremo atto d’amore. In Dio, per chi è credente. Allo stesso modo Danilo arriva in ritardo alla morte della madre. È il caso? Può darsi. Il fatto è che il destino gioca brutti scherzi. Non sto a raccontare il finale per non togliere al lettore la sorpresa di un racconto acceso e intrigante. Dirò solo che Amore e Morte si incrociano inesorabilmente in un ibrido di fatalità e di nemesi individuale. La fine si ricollega idealmente, ma non solo, all’inizio del romanzo. Ripete quello che è il destino dell’uomo. Rivela la sua nudità. La sua debolezza. Rimane, unica consolatrice, la preghiera. E il pianto.

Enea Biumi
 

giovedì 4 luglio 2019

Adelio Fusé “Tempo ventriloquo” (Book Editore, 2019)



Il “tu” a cui si rivolge il poeta è un Doppio anche critico, un “detective di nomadismi”, nel continuo andare attraverso l’espressione canterina di un tempo in duplice accezione: tempo universale e tempo individuale. Quasi una presocratica necessità di conciliare ragione ed esperienza dopo l’ancoraggio eleatico all’essere. Ma c’è anche tutto il vissuto e il pensato che antepone al gesto la responsabilità di una scelta. “Mi uso dunque esisto:/ e consento ad altri l’uso/ voi compresi”. dice Adelio Fusé in questo suo sempre coinvolgente esito poetico dal titolo “Tempo ventriloquo”. Nel passo sicuro di differenti combinazioni strofiche si amalgama l’evolvente richiamo alla cedevole penalità attesa e, nello stesso tempo, osservata come dicibile, narrabile dialogo tra l’affermazione  in evento e l’inestricabile suono delle sillabe congedate. Fusè sollecita il verso, in questa occasione, verso un più aperto intento comunicativo, nell’urgenza di allontanarsi dal quantificabile in costruzione assidua ma divelta dalla preoccupazione semantica. Il tempo che concede il tu proponibile riabilita avventure solo apparentemente nugaci, impone gravido l’utilità dialettica delle tesi. Rari ritorni fonetici in assenza d’insistenza rivelano accorti e assaporanti quasi un pullulare di emersi tratteggi, l’impatto della vita e il perdurare paziente nella superficie. E davvero Fusé insegue, in questo testo, il suono notturno di contemporanee sirene inavvistabili; l’emotiva domanda che reinterpreta sensualmente l’empatia travolta dei desideri, lo scorrimento che non è misura ma stato di veglia (e mi ricollego al precedente titolo poetico dell’autore “La veglia del sonnambulo”). Come allora ondeggiare sui detriti e le insidie, nella testimonianza dei versi...”si è mai là dove si vorrebbe/ soprattutto nei giorni di pioggia/ quella sghemba e sottile/ intermittente con la battente”; oltre l’apertura verso sviluppi inattesi e indocili. “Diremo più tardi quello che deve essere detto”, scriveva Franco Fortini in “Paesaggio con serpente”, “Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,/ i lampi della magnolia”; e il guardare di Fusé è un imprimersi le sequenze, alla cadenza di un tempo musicale e mistico. Il ritmo accondiscende a strutture eclatanti di esiti linguisticamente felici: “la pioggia s’impioggia s’impiovasca/ ma questa è pioggerella/ non l’acquazzonesco”, ed allora coniuga la strofa nella sua collocazione visuale il passo desto e deciso della ricerca consapevole e critica. C’è una costante necessità di domande urbane, empatici silenzi, tempi ricorrenti ma impalpabili; la soglia invita ad un passo arduo, spesso incerto, che obbliga ad un quotidiano, minimo coraggio. La stessa implorazione, la sua possibilità, è già determinato sollievo, mobilità interpretabile nelle cromie del flusso quale il verso lungo: “fino al mare porto arso di un salpare al plurale”. Sembra quasi un desiderio d’incontri imprevisti capaci di superare i limiti del definibile e dell’imponibile (tema toccato da Fusé nel suo volume in prosa “L’astrazione non è la mia passione principale”); un senso di coltivato smarrimento in potenzialità di stimoli eversivi. Potente l’immagine della cenere a testimonianza di un respiro dall’individuale all’universale, nella traduzione di un ben altro impulso rispetto a quello di un semplice calcolo temporale asettico. Ci appare, quindi, un Adelio Fusé in viaggio, desideroso di conciliare gli estremi del presente con le propaggini dell’infinito, rimarcando una saggezza ironica: “se ti affretti all’osteria sul canale/ avremo un giro di bicchieri”.
                                                                                                                                  Andrea Rompianesi

 

venerdì 21 giugno 2019

"Fratello cattivo" di Sandro Gros-Pietro, Neos Edizioni, Torino, 2018



Vari sono gli aspetti che si possono individuare e sottolineare nel nuovo romanzo di Sandro Gros-Pietro “Fratello cattivo” (Neos Edizioni, Torino, 2018). Tra i tanti ne vorrei privilegiare uno, che è poi dettato anche dal titolo: fratello cattivo. Dove il termine fratello non è certamente inteso in senso cristiano né tanto meno laicamente massonico. L’espressione fratello si coniuga come una specie di diade, come un alter ego ingombrante e spesso alienante o alienabile. Ed anche l’aggettivo cattivo assume nel contesto del romanzo una ambivalenza di fondo: è un fratello che apostrofa l’altro fratello con questo epiteto, ma allo stesso tempo gli avvenimenti che si susseguono fanno intendere che il cattivo sia chi imputa all’altro la cattiveria. In questo mare di malvagità reciproca e rinfacciata si gioca l’esistenza di entrambi i fratelli e si assiste al dramma di un fratricidio. Nella tradizione ebraica Caino è generato dal serpente del giardino dell’Eden (il Male) e come εκ του πονηρου (il Maligno) è il primo peccatore della storia, l’archetipo del fratricidio. Il tycoon Harvey Russell, protagonista di “Fratello cattivo”, ben incarna questo prototipo malvagio. Ma anche il male può possedere un suo fascino. Ed una sua grandezza. Così il Re del Mondo, il demonio per eccellenza, si impossessa dell’anima di Harvey che diviene ipso facto un legittimo fuori legge, o, meglio, superiore alle leggi stesse: a lui, che è il Gran Monarca della cattiveria, nessuno chiederà conto delle sue azioni malvage, per paura, per sottomissione, per negligenza. Nemmeno la sua coscienza è in grado di condannarlo per la sua spietata crudeltà. Se resiste qualche dubbio, qualche resipiscenza minima, ecco che subito viene cancellata, perché Harvey è un cittadino al di sopra di ogni sospetto. L’occasione per riflettere sulla condizione della propria esistenza è data dal regalo che la moglie Shanti gli porge: il messalino della sua prima comunione. Dono benefico o malefico? Ingenuo o intrigante? Consapevolmente studiato o casuale e innocente? Sta al lettore scoprirlo man mano che procede il racconto. Certo è che è Shanti, e non il fratello Gerald, la vera antagonista di Harvey. L’unica in grado di far nascere nel marito quell’analisi introspettiva che proseguirà lungo tutto il romanzo, costruito in una sola giornata, quasi a voler rispettare da una parte quelle regole classiche di unità di tempo, di luogo e d’azione che tanto hanno fatto discutere i nostri letterati, e dall’altra ad omaggiare il più intrigante e criptico romanzo del diciannovesimo secolo che è stato l’Ulisse di Joyce. E’ chiaro che aver optato per una simile unità ha obbligato lo scrittore a evadere con flash back che piacevolmente catturano per la loro immediatezza e sincronicità. Il flusso della coscienza non è un monologo interiore, come nel capolavoro joyssiano, ma una frequente analessi che spiega e si piega al carattere del protagonista. In effetti Harvey viaggia in continuazione all’interno di una diadi – sua ed altrui – che lo vedrà al centro di tante situazioni ed esperienze in netto contrasto e opposte tra loro. In tal modo conosciamo il protagonista attraverso i suoi rapporti con i terroristi, con i servizi segreti, con le commissioni parlamentari, con il mondo della compravendita delle armi, con i palinsesti televisivi, con tutto quello in fondo che gli dà potere e ricchezza. Il tycoon Harvey Russel padroneggia banche, mass media, finanza e politica, e non si fa scrupolo di ostentarlo in ogni occasione e con chiunque, perché questa è esattamente la sua religione, sintetizzata in quei dieci comandamenti laici che sono l’esatto opposto di quelli cristiano giudaici. Già il sottotitolo “le confessioni di un onesto peccatore” rivela l’ossimoro linguistico che diverrà a suo tempo ossimoro dell’esistenza. Harvey è padrone incontrastato dei propri simili. Li domina e li sovrasta. Ma pur nel suo solipsismo anaffettivo non è certo di dominare anche se stesso. Né tanto meno la moglie. La sua cattiveria trova davanti a sé uno specchio nel quale riflettersi e ritrovarsi, con la sua religione fatta di ricchezze accumulate sulla pelle degli altri – mors tua vita mea, sembra suggerire – e tuttavia ciò non basta. Ecco, allora che il Caino emerge nella sua triste realtà. Quel comandamento biblico – il quinto: non uccidere – che si era ripromesso – l’unico – di rispettare, lo accusa. Sembra quasi di risentire le parole famose che il Signore rivolge all’assassino: “Dov’è Abele, tuo fratello?” e la sua risposta: “Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?”. Era il primo omicidio della storia. E il vocabolo “fratricidio” è rimasto ad indicare lo snaturamento di un sentimento che sarebbe dovuto essere d’amore. Ma in “Fratello cattivo” l’amore non esiste. È un mondo che ruota attorno all’egocentrismo di un uomo d’affari proiettato e concentrato tutto sulla bellezza, sulla ricchezza, sull’eros e sul divertimento: le sue virtù cardinali. Fin da giovane, infatti, aveva stilato il suo programma. Come Dio aveva consegnato le tavole a Mosè, Harvey si autoconsegna i propri dieci comandamenti che sono l’antitesi di quelli giudaico cristiani: tranne uno: non uccidere. La disanima della propria esistenza – complice la moglie Shanti – nell’ottantesimo giorno del suo compleanno si convertirà in un’autoassoluzione. Shanti tuttavia non può credergli, né potrà cedere nelle proprie convinzioni. Infatti lo incolperà del fratricidio: “Tu sei un peccatore sacrilego – gli rinfaccerà – e un accanito mentitore. Tu sei l’assassino di tuo fratello Gerald. Confessa il tuo delitto e subisci la tua condanna. Ti attende l’inferno. Tu sei maledetto”. Ecco da dove sgorga l’antagonismo della moglie e il desiderio di Harvey di ridurne il valore e le qualità. Perché Shanti, oltre che demone, è pure angelo. E l’angelo non ama né malvagità né menzogna. Sebbene fra le ultime battute del romanzo si intraveda come uno spiraglio di confessione, l’autodafè, che ne consegue, viene però immediatamente eliminata, perché i fatti devono per forza essere subordinati alla rama dei Russel. Pur tuttavia, quelle parole della moglie, nonostante si scontrino con la boria connaturata di Harvey – un lascito degli insegnamenti del padre Kristopher – lo sconvolgono momentaneamente, lo fanno scivolare in un subitaneo delirio, dal quale comunque uscirà ancora una volta vittorioso e “puro”. Shanti, apparsagli come un mostro diabolico, una specie di arcangelo Gabriele interprete della potenza di Dio, ritornerà ad essere una pedina nelle sue mani, una delle tante, da spostare sulla scacchiera della vita a favore del nipote Reginald, probabile vero erede della sua filosofia edonistica. Giunto al suo ottantesimo compleanno, con l’introspezione finale causata da una serie di circostanze che lo assillano lungo il corso della giornata, la sua coscienza lo tormenta fino a renderlo quasi folle. Vaneggia. E in un climax di crescente delirio viaggia nuovamente a ritroso nel tempo. Ricorda di essersi sentito insidiato nella propria primogenitura dalla nascita del fratello Gerald. “Tutto è successo a seguito della morte di mamma Adelaide. La vecchia ha lasciato un testamento in mano a Gerald. Ah, cazzo: in mano a Gerald, e non in mano sua, per dio! Ma chi è il figlio maggiore? Lui o quel mentecatto di Gerald? (…) Un affronto inaccettabile.” Eppure non è solo questione di primogenitura. Harvey deve primeggiare in tutto. E’ questo il suo supremo comandamento. Tutto deve stare ai suoi piedi, ai suoi comandi. D’accordo, Gerald non è l’innocente Abele, ma come Abele è un potenziale rivale. E soprattutto è l’erede preferito. Dio aveva scelto Abele, mamma Adelaide ha preferito Gerald. Così in un conflitto a fuoco durante un’azione terroristica “Harvey si volta di scatto e inizia a sparare. C’è suo fratello sulla linea di fuoco. La cascata di proiettili lo raggiunge in pieno. Harvey vede gli schizzi del sangue del fratello, i brandelli delle vesti, la carne strappata (…) Oh, mio dio che ho fatto! Mio dio che ho fatto! Harvey si impone di bruciare la memoria del suo fratricidio. Come il dermatologo cauterizza la pelle, lui si brucia l’anima (…)”  Si autoconvince di non essere come Caino. Gerald è morto per disgrazia. Cerca di autoassolversi. Si proclama onesto peccatore. Lui è il sacerdote della ricchezza. E solo questa ha seguìto, secondo la dottrina del padre Kristopher, che sapeva parlare con gli angeli e coi demoni e che Harvey trasmetterà al nipote Reginald, il quale, se dimostrerà di sapere adorare la ricchezza, potrà parlare con gli angeli e coi demoni, “come è nella rama dei Russel.” Così termina il romanzo. La vicenda di questo tycoon, non nuovo ai nostri occhi e che potrebbe incarnare volti e nomi conosciuti, getta in uno sprazzo finale di prolessi l’accento su quello che è il suo testamento e quella che sarà la sua eredità: la continuazione del male sul bene, della prepotenza sull’umiltà, del possesso sulla povertà. La cattiveria ha partorito se stessa e Caino si ergerà beffardo ripetendo “non sono certo io il custode di mio fratello”. Quello cattivo, naturalmente.

Enea Biumi

lunedì 17 giugno 2019

"La taverna di Yannis" di Adelfo Maurizio Forni, Genesi Editrice, Torino, 2019




Di primo acchito ho definito “La taverna di Yannis” di Adelfo Maurizio Forni un romanzo emozionante e che emoziona. Più analiticamente vedo in queste pagine la trama di un destino che accomuna e coinvolge uomini e avvenimenti apparentemente lontani e diversi ma uniti nella conquista del Bene. Ho volutamente scritto con la lettera maiuscola il Bene, perché nella mente dei protagonisti – e dell’Autore immagino – il Bene è qualcosa di superiore, di trascendente, che va oltre l’appagamento materiale hic et nunc. Anche la Storia, quella destinata ad essere letta e studiata sui testi scolastici, pur nelle sue brutture e bestialità, tra guerre, tradimenti, violenze e massacri, è destinata alla fine a ricomporsi, a reinquadrarsi in una visione direi quasi manzoniana dove anche il male è permesso per uno scopo decisamente positivo. Certo, Manzoni parlava di Provvidenza. Laicamente pensando, la storia, almeno per chi vi crede, è un viaggio verso un progresso, verso un mondo indubbiamente migliore. Per alcuni è pure magistra vitae. “La taverna di Yannis” testimonia questo assioma. Il racconto nasce dall’incontro casuale tra una coppia italiana ed una greca, alla taverna di Yannis, appunto, e il flashback che ne consegue è la ricostruzione di un periodo che va dagli anni quaranta del secolo scorso ai nostri giorni. Vi si legge l’invasione della Grecia da parte dell’esercito italiano, la lotta partigiana del popolo greco e del popolo italiano, le miserie e le distruzioni della guerra, la ricostruzione difficile e faticosa, il sessantotto, la dittatura dei colonnelli, il boom economico. Il tutto attraverso l’occhio di tre generazioni intente a costruirsi il proprio futuro di certezze e solidità. Lo sfondo naturale è in prevalenza quello della Grecia con le sue isole, il suo mare, il verde dei suoi pascoli, ma non mancano accenni al paesaggio brianzol lombardo, nonché alla vastità del cielo stellato, spesso ricorrente nei momenti clou del racconto. Lo sfondo invece storico, come detto, è la seconda guerra mondiale con l’occupazione italiana di Samos e la successiva venuta delle truppe tedesche. Dopo l’8 settembre del ‘43, così narra la storia ufficiale, le cose si complicano per l’esercito italiano in Grecia. Chi non vuole sottomettersi al comando tedesco verrà ucciso o deportato. Non resta che fuggire, se possibile, o nascondersi, o entrare nei gruppi partigiani locali. Ma l’altra storia, quella ufficiosa, quella della gente comune, racconta che un sergente italiano (Giorgio) ebbe salva la vita grazia ad una ragazzina (Eleni) che, a sua volta, quando ancora l’esercito italiano era l’invasore, fu aiutata dallo stesso militare. Due esistenze, così differenti e lontane, direi quasi opposte, si incrociano in una specie di diafora spirituale riproducendo in nuce il destino di un mondo, oppresso dalla guerra, che si attorcigliava inesorabilmente su se stesso senza via d’uscita. Ma quelle due vite, incrociatesi quasi per caso e fortunatamente simpatetiche l’una con l’altra, furono l’inizio del prevalere del Bene sul male. Non sto a raccontare gli avvenimenti successivi per non togliere al lettore il gusto della lettura. Mi piace invece sottolineare l’atmosfera emotiva che dà l’abbrivio alla narrazione. Siamo trasportati come davanti ad uno schermo cinematografico – ed è lo stesso Forni che ci suggerisce la chiave interpretativa – dove a “fare” la storia non sono solo i potenti ma, Manzoni docet, gli umili e gli anti eroi. Si tratta di una sceneggiatura in cui le cose nella loro successione diacronica e, in special modo all’inizio, convulsa e frenetica, ci disvelano scenograficamente che la bellezza dell’uomo non è quella esteriore, bensì interiore. I personaggi del romanzo, al di là della loro collocazione geografica od economica, possono essere i nostri nonni o i nostri padri, i nostri vicini di casa o i compagni di lavoro. Non fa differenza. Quello che conta sono i loro valori di pace e solidarietà coi quali hanno convissuto e per i quali si sono sacrificati, pur nelle mille contraddizioni che la vita, o il destino, ha procurato loro. Nella certezza che nulla è stato fatto invano e che tutto, alla fine, sarà ricomposto in un unico e grande abbraccio fraterno, perché “il cuore è la cosa più importante”. Da non dimenticare.

 Enea Biumi

lunedì 10 giugno 2019

Stairbook Chapter 10 – Rosa fresca aulentissima, di Enea Biumi

Sandro Gros-Pietro intervista Emilio Coveri e Marco Longhi sul tema: "Eutanasia"


Massimo Scrignòli “Lupa a Gennaio” (Book Editore, 2019)




E’ René Char ad aprire il tracciato in epigrafe di un suono che accosta amore e poesia. Nuova stagione è poi davvero quella che Massimo Scrignòli inaugura con un volume di prose poetiche temperate dalla robustezza dell’afflato metafisico, “Lupa a Gennaio”. Muove il testo, deflagra l’improvviso; domina l’assenso un indicibile riemerso quasi fosse un libro dell’inquietudine. Anche noi, così, scendiamo in apparente rilascio, là dove frammenti di tuono aprono scenari di amori inattesi, perturbanti. Da subito risuonano, nei testi di Scrignòli, i rimandi agli autori frequentati e interpretati: Char e Pound, Celan e Kafka, ma anche Dante. Le tracce notturne sono enucleate quasi a ridosso di una prosa in brevi quadri sospesa, raffigurata in intagli di raffinatissima perizia. Che conforto, a fronte di una miriade di proposte vacillanti e anoressiche catalogate come estri del dicibile, scorrere una traccia letteraria fieramente capace di dirsi concettuale, profonda ma mai oscura, filosofica, propriamente ontologica. Gli elementi materici, le cose, gli enti accolgono il lettore in una purezza d’intendimenti che non può però escludere la precisa consapevolezza che l’essere dell’ente non è un altro ente. “L’eclissi ha qualche cosa che riguarda il bosco: è l’ingresso docile degli occhi nella neve oscura”; riguarda il nostro senso estremo per la sensualità degli elementi, la percettibilità delle variazioni e degli indugi. Una fisicità astratta ricompone il divenire interpretabile non contraddittorio ma problematico; così come problema è il mutare all’interno di un’esattezza nominata in quanto colore che si fa nome. Un infrascritto ereo, quasi contenitore arcaico sprigionante domande abissali e ansiti costieri. E ancora la tonalità cromatica del blu si accosta ad ombre e presenze “là dove il cielo non è più cielo”, e così la parola sa discernere nel non morire. Il depistaggio è complice, l’erranza fattuale attraverso la duplicità del testimone, sensibile scolta di uno svago adulto, di una consistenza intellettuale. Massimo Scrignòli proviene da linee del fuoco e libri d’acqua; osa la dicitura compatta del brano che nella visibilità breve distende lo spazio adeguato della prosa d’arte, della nominale intenzione diretta al nucleo fondante del reale. Le acque della Senna, nelle quali Paul Celan si gettò in una notte d’aprile del 1970, assumono il senso sacrale del sacrificio devastante; si fanno, appunto, “ammutolite” ma, nello stesso tempo, ritornanti, le stesse “per concessione suprema di Eraclito”. Indicibile l’afflato panico riemergente dai vessilli di ciò che non deturpa il ripetibile, l’avamposto decifrato dal lessico ermeneutico. L’evento e il rimedio significano le cose. Davvero ritroviamo nell’opera di Massimo Scrignòli ciò che disse in passato lo stesso Char: “Possiamo vivere solo sul semiaperto, esattamente sulla linea ermetica di spartizione tra l’ombra e la luce. Ma siamo irresistibilmente proiettati in avanti”.
                                                                                                                                                                                           Andrea Rompianesi
 
 

giovedì 16 maggio 2019

Emilio Rentocchini “44 Ottave” (Book Editore, 2019)


 

 



Un pigro pomeriggio della primavera 1988. La rilettura frenetica dell’Orlando Furioso conquista definitivamente Emilio Rentocchini all’uso dell’ottava. L’endecasillabo ariostesco cattura attenzione e passione verso una forma metrica che conferma poi l’uso del vernacolo sassolese quale rifugio atemporale e mitico. Una riprova è “44 Ottave”, proposto nella collana curata da Nina Nasilli. Testo originale, quindi, nella lingua di Sassuolo e corrispondente variante, come detto in passato da Giovanni Giudici, in una più libera forma d’italiano. L’esito è una rigorosa e preziosa tessitura stilistica di magistrale sapore, seducente e fluttuante in una originaria naturalezza orale che abita la struttura corposa di una fonetica echeggiante e ammaliante, espansa nella temporalità suggerente la significatività inalienabile del contrasto indotto dall’istante. Tra le due lingue, fecondazioni e sviluppi imprevisti generano conduzioni di monadi in partitura a segni sfociante nell’ottava doppia. Allitterazioni assorbono echi su approfondimenti dinamici e ribattuti rimandi attraverso suggestioni di viatico costituente implicazioni materiche e significanti sonorità. Si liberano così pensieri che ricalibrano i suggerimenti di una percezione scampata allo smarrimento, ritrovando i punti di contatto con l’essenzialità degli enti che non eludono quell’apparente “nulla inesprimibile” contaminato dal segreto di ungarettiana memoria. Gli abissi della solitudine sanno diventare cenacoli di preghiera e inducono alla percezione più acuta delle delicate premesse che accompagnano l’osservazione e l’ascolto, la minima convergenza della cerniera. I dissidi sembrano placati dalla paziente opera dell’artigiano trasformato in fine dicitore di una profondità essenziale e incisa nella composizione del sensibile. In una società volutamente privata di effettivi valori umanistici, Emilio Rentocchini recupera e ricrea un linguaggio poetico che pone i cardini di una autenticità quasi rivelata ed immediatamente solidificata nel dettato stilistico. E allora il tempo è fuori dal tempo e coniuga una scansione intrecciata alla ricerca; così “an a tor sò na léngua a la deriva” (“anni a raccattare una lingua alla deriva”), come fosse una forma esplicitata di emozione acustica, di veleggiata saggezza.

 

Andrea Rompianesi

martedì 14 maggio 2019

FABIO DAINOTTI (a cura di) IL PENSIERO POETANTE – IL MITO – GENESI EDITRICE, TORINO, 2017, € 14,00


Il pensiero poetante è un’antologia tematica di poesia e teoria il cui ideatore e direttore è Fabio Dainotti, il codirettore Emanuele Occhipinti e i curatori del settore letterario e filosofico rispettivamente Carlo Di Lieto e Enzo Raga. I temi degli anni passati furono “Gli angeli”, “Il viaggio”, “L’enigma”. Quello attuale è “Il mito”.
Si tratta di un exursus che, attraverso la poesia, il disegno, la saggistica, mette in evidenza il valore del mito come momento fondante della nostra cultura: trait d’union fra il passato e il presente che illumina e accompagna buona parte della letteratura occidentale.
L’esergo ci riconduce a “Il mito dell’eterno ritorno” di Mircea Eliade del 1949 che giustifica lo studio del mito considerato “una vera metafisica” perché, una volta svelati, i miti rivelano, nelle civiltà arcaiche, il desiderio di scoprire la propria identità e la propria ubicazione all’interno dell’universo, mentre nelle civiltà moderne ed occidentali offrono uno spaccato del rapporto uomo-storia. Su posizioni diverse si pone Edgar Morin che comunque ribadisce in un saggio intitolato “Autocritica” l’importanza del mito, intrinseco elemento della “struttura umana”. Si viene in questo caso a giustificare, prendendo a pretesto sponde diverse, la scelta del tema e l’ineludibilità del confronto con il mito.
L’introduzione segna quindi il percorso dell’antologia che ci conduce, rigorosamente in ordine alfabetico, agli autori, poeti, saggisti, disegnatori, presenti con le loro opere significativamente improntate al mito, visto tramite scritti poetici o saggi filosofico letterari. Si tratta di una sintesi che didascalicamente incuriosisce il lettore e lo induce a confrontarsi con i vari testi riscoprendo o la bellezza attrattiva del verso  poetico o la riflessione critica letteraria e filosofica approfondita e sistemicamente strutturata.
Un’antologia da leggere con la lente euristica che vuole apprendere, avanzare, inoltrarsi nella
consapevolezza che la conoscenza acquisita non offre mai nulla di scontato.

ANTONIO MARCELLO VILLUCCI – PER PRODIGIO D’AMORE- GENESI EDITRICE, TORINO, 2017, € 8,50


La civiltà romana, ai suoi primordi, aveva espresso fra le sue più alte forme di religione e di cultura la venerazione per i propri famigliari: i cosiddetti “Penati”, che, affiancati ai tradizionali “Lari”, vegliavano sull’andamento domestico unendo in una sorta di “amorosi sensi” il passato, il presente ed il futuro. Sulla stessa linea gli Incas adoravano “Pachamama”, la Grande Madre, che vigilava sul buon andamento del desco permettendone lo sviluppo e la continuità attraverso i prodotti della terra. Era la dea che nel ciclo delle stagioni acconsentiva e dirigeva la vita. “Per Prodigio d’amore” richiama sotto un certo aspetto, e comunque in una visione del tutto contemporanea, entrambe le concezioni religiose appena sottolineate. Da una parte propone quella particolare devozione per la famiglia sotto le ali protettive di Dio (“Tu sei il Signore/ che segue i miei passi sulle strade”) e dall’altra presenta il ritmo del tempo imbrancato nel lavoro febbrile ma propizio e vitale dei campi (“Nei solchi tracciati dalla marra/ spuntano i primi frutti della terra”). Si può affermare che ogni pagina della silloge poetica di Antonio Marcello Villucci ripercorre un rapporto intimo, intenso e religioso fra l’autore e la propria famiglia, condotto nell’armonia generale del tempo e della natura. Il richiamo al passato offre lo spunto per una riflessione sul presente nella convinzione che sia quasi d’obbligo lasciare una traccia di sé, così come gli avi avevano dimostrato e proposto. Non è però un’eredità materiale quella che il poeta ha ricevuto e che a sua volta affiderà ai posteri, bensì spirituale e letteraria “per nuovi orizzonti/ lungo la sequenza degli anni”. E in un simile percorso “di libri nell’età/ che tende all’infinito” si distende e si amplia lo sguardo di Antonio Marcello Villucci tra “una capanna di paglia”, una “casa di povera gente”, “un dagherrotipo ingiallito”, alcune “dimore signorili” esaltate dalla “policromia dei marmi”, nella stessa Amatrice ferita “dalle faglie della Terra”, mentre ricalca le orme che il viaggio della sua vita gli ha concesso e che ora tende ad esaurirsi (“Ora erompe la vecchiaia/ spenta e dolente/ nell’opaco cielo invernale”). E non sono solo i ricordi che si affacciano serenamente con dolcezza e delicatezza amorevoli, ma anche le cose, gli oggetti (del quotidiano e non), la natura stessa che si ripete a distanza di anni (“Nelle sere fredde d’inverno/ m’era compagno mio padre”; “mentre la mamma sullo sporto della panca/ arredava di scarpe, corpetto e gonnella/ l’ultima nata in uscita per la festa”; “Il nonno in riposo sulla panca/ sogna le fatiche che l’attendono l’indomani”). Tutto ciò regola e regala i versi in un andante continuo, armonioso e ben strutturato, offrendo al lettore il ristorno di una convivenza a dir poco perfetta, sebbene spesso intrisa di dolore e nel dolore redenta, perché a supporto rimane la fede, la consapevolezza di un arrivederci al domani, nella dimenticanza della tristezza dell’oggi (“Incappai nel turbine del Nulla/ quasi a pelo d’acqua,/ quando un angelo o un dio/ mi fecero d’àncora soccorso”; “Due lastre in marmo sovrapposte/ avranno i nostri volti”). La natura, in questo quadro, fa da sfondo e supporta, in una visione che alcuni potrebbero definire panica, il poeta, invitandolo al raccoglimento e alla riflessione (“Sulle mie tracce s’adunano/ ninfe ed Oreadi in ascolto”; “Mi porto dentro il profumo dei fiori”; “Con l’alba l’anima lascia i tremori notturni”). E, attraverso la sublimazione della natura, soffuso nei versi si libra l’amore, che propone d’altra parte - e giustamente - il titolo dell’opera. E’ l’amore che l’autore devotamente rivolge al padre e alla madre in momenti che ne esaltano l’autorità e l’influenza per l’impegno terreno e per la consacrazione del “dopo-vita”; è l’amore per i nonni che ne rammenta i sacrifici e la lealtà, nonché la pervicacia educativa (“Giuseppa aveva tirato su i figli/ timorati di Dio ma anche cresciuti/ tra abbondanza e doveri/ mentre il suo sposo era su nave oltreoceano”); è l’amore per la moglie (“Sfioro in sogno il tuo volto”; “Ascoltavo la tua voce di fanciulla/ resa varia da un refolo di vento/ che mi rendeva la gioia/ d’altri chiari mattini”); è l’amore “Per la mia ultima nata” o per il nipote Lorenzo: in una parola è il prodigio. D’amore, appunto.

LUCIA MONTAURO – L’ENIGMA DEI PENSIERI NASCOSTI – GENESI EDITRICE, TORINO, 2018, € 10,00


 
I termini “tempo” e “vita” sono forse i vocaboli che maggiormente ricorrono nella silloge poetica di Lucia Montauro “L’enigma dei pensieri nascosti”. E sembrano quasi essere un filo rosso sopra il quale la poetessa approda in punta di piedi, senza rumore od urla inconsulte, e che percorre con apparente leggerezza (leggerezza ritmico formale, non certo di contenuto), sorvolando quell’immenso e periglioso abisso che sta tra la vita che spazia nel tempo e la morte. Il titolo stesso dell’opera parrebbe indicare un mistero o qualcosa di indefinito ed indecifrabile cui però è necessario aggrapparsi per poter andare oltre: dove non si sa. Così l’enigma è tutto nei pensieri che la poetessa incorpora e traduce osservando il mondo circostante. La sua decifrazione sarà la presa d’atto dell’imponderabilità dell’esistenza la cui complessa e difficile imperscrutabilità rimanda ai classici della letteratura. In tal guisa i pensieri nascosti sembrano disvelarsi al lettore con un pudore e una delicatezza del tutto femminile, sebbene ad una più significativa lettura ciò si traduce in una voce formidabilmente forte e stentorea. I suoi versi richiamano ciò che noi siamo o che vorremmo essere, subiscono il fascino di una meditata epifania volta a scandagliare animi e volti, natura e metanatura. Così facendo la poetessa ci indirizza verso l’essenza stessa della sua scrittura che è raffinatezza del dire e del sentire, come giustamente annota Maria Luisa Spaziani.
Si apprende, purtroppo, dalla nota introduttiva di Giorgio Seropian che questa silloge è l’ultima fatica di Lucia Montauro, pubblicata postuma, ma da lei stessa preparata e raffinata poco prima del “compimento del suo destino terreno”. Grazie a questa precisazione iniziale alcune liriche assumono un significato epigrammaticamente tragico, sebbene la levità della scrittura trascenda e, per dir così, oltrepassi l’immanente drammaticità. In quei versi riecheggia, infatti, il respiro di un’anima che guarda oltre le cose perché ha in sé il senso dell’infinito: “un segnale profetico/ urlato dalla bocca di Eolo/ dio vanitoso del vento/ pianto di morte/ che la notte sovrasta e respinge.” Ecco allora che la realtà si frantuma in rivoli di memoria, in ricerca paziente di rimandi, di metafore nascoste, come i pensieri, che riemergono dal silenzio dove “l’attesa fa rifiorire più volte/ la vita”, dove “il giorno e la notte/ tingono il nostro cammino/ con chiaroscuri tappeti/ d’erba selvatica e nebbia”. Sta in questa sfida tra il possibile e il fattibile, tra la carnalità del vissuto e la spiritualità della preghiera che Lucia Montauro offre momenti di intensa liricità scoprendo  e rincorrendo “fantasmi felici”, “scenari aperti alla vita/ con distillati di succhi/ appaganti per l’anima”, perché il procedere si fa più responsabile, fra paesaggi idilliaci e passaggi “senza risposte ideali”, in cui i responsi appaiono inafferrabili e sembrano inseguire interrogativi ancestrali perché “viviamo paure incontrollate/ come conchiglie svuotate/ per mancanza di mare/ o alghe sinuose/ che accarezzano il corpo/ per non farci perdere/ nell’infinita nullità”.

Sandro Gros-Pietro intervista Chicca Morone

Augusto Zucchi presenta Sandro Gros-Pietro
Vivere è raccontare

"Il cavalieri, la contessa, il santo" di Roberto Lo Piano

"La taverna di Yannis" di Adelfo Maurizio Forni

"La maschera della grande Eugene" di Paola Grandi

"Intrigo nell'impero napoleonico" di Fabrizio Olivero

"Cara Mamma, ti prometto che tornerò presto" di Carlo Bosso e Liaqat Kasemi

martedì 12 marzo 2019

Fip . Parola nel Mondo

fip Parola nel Mondo
                          festival internazionale di poesia in/per ogni luogo!
 
XIII edizione - dal 1 al 30 maggio 2019
Vorto en la mondo, Palavra no mundo, Parola nel Mondo, Worte in der Welt,Rimayninchi llapan llaqtapi, Paràula in su Mundu, Cuvânt în Lume, Parole dans le Monde, Ordet i verden, Word in the world, Palabra no mundo, Ñe’ê arapýre, Paraula en el Món, Chuyma Aru, Koze nan lemond, Kelma fid-dinja, Milá baolam, Nagmapu che dungu, Tlajtoli ipan tlaltikpaktli, Vort in Velt, Dünyada kelime, lhamet ta íhi honhát,Titzaa Yeezii Loyuu, Dunyoda so’z, Слово в миреPallabra nel mundu, Hitza Munduan,T'aan yóok'ol kaab, Riječ u svijetu, Lo'il te osil balamil,  Parola tal mund, Kalma a Duniya, Nsema Ewo Ewiase, Minne Kaati Dunian, Lời Chúa trong thế giới, 世界, Λέξη στον κόσμο, Բառի աշխարհում, Orð í heimi, 界のことば, Slovo vo svete, Beseda v svetu, Riječ u svijetu, Реч у свету, Дэлхийн Үг, Omalch mat cham waatch
 
 
ConvocAzione
 
La poesia come azione universale per la pace
 
 
Perché crediamo che l’Uomo e Il Mondo sono amore, sono futuro e sono parola.
 
in poche righe:
Parola nel Mondo si costruisce con la partecipazione di tutti. L’idea di base è che ogni partecipante realizzi una o varie attività poetiche nella sua città. Chi lo riterrà opportuno potrà integrare con musica, teatro, arti plastiche, fotografia, danza, etc. 
La pubblicità legata all’evento deve avere per oggetto, in l’Italia:
 
XIII fip Parola nel Mondo
                                                                         festival internazionale di poesia in/per ogni luogo!
XIII edizione - dal 1 al 30 maggio 2019
 
Vorto en la mondo, Palavra no mundo, Parola nel Mondo, Worte in der Welt,Rimayninchi llapan llaqtapi, Paràula in su Mundu, Cuvânt în Lume, Parole dans le Monde, Ordet i verden, Word in the world, Palabra no mundo, Ñe’ê arapýre, Paraula en el Món, Chuyma Aru, Koze nan lemond, Kelma fid-dinja, Milá baolam, Nagmapu che dungu, Tlajtoli ipan tlaltikpaktli, Vort in Velt, Dünyada kelime, lhamet ta íhi honhát,Titzaa Yeezii Loyuu, Dunyoda so’z, Слово в миреPallabra nel mundu, Hitza Munduan,T'aan yóok'ol kaab, Riječ u svijetu, Lo'il te osil balamil,  Parola tal mund, Kalma a Duniya, Nsema Ewo Ewiase, Minne Kaati Dunian, Lời Chúa trong thế giới, 世界, Λέξη στον κόσμο, Բառի աշխարհում, Orð í heimi, 界のことば, Slovo vo svete, Beseda v svetu, Riječ u svijetu, Реч у свету, Дэлхийн Үг
 
La poesia
come azione universale
per la pace
 

Gianfranco Galante, Ti "racconto" perché, Circolo Scriptores, Varese, 2024

  Si potrebbe definire lo scritto di questo testo  “Ti racconto perché”  come un poema d’amore e sull’amore. Infatti, a mezzo tra una serie ...