Di primo acchito ho definito “La
taverna di Yannis” di Adelfo Maurizio Forni un romanzo emozionante e che
emoziona. Più analiticamente vedo in queste pagine la trama di un destino che
accomuna e coinvolge uomini e avvenimenti apparentemente lontani e diversi ma
uniti nella conquista del Bene. Ho volutamente scritto con la lettera maiuscola
il Bene, perché nella mente dei protagonisti – e dell’Autore immagino – il Bene
è qualcosa di superiore, di trascendente, che va oltre l’appagamento materiale
hic et nunc. Anche la Storia, quella destinata ad essere letta e studiata sui
testi scolastici, pur nelle sue brutture e bestialità, tra guerre, tradimenti,
violenze e massacri, è destinata alla fine a ricomporsi, a reinquadrarsi in una
visione direi quasi manzoniana dove anche il male è permesso per uno scopo
decisamente positivo. Certo, Manzoni parlava di Provvidenza. Laicamente
pensando, la storia, almeno per chi vi crede, è un viaggio verso un progresso,
verso un mondo indubbiamente migliore. Per alcuni è pure magistra vitae. “La
taverna di Yannis” testimonia questo assioma. Il racconto nasce dall’incontro
casuale tra una coppia italiana ed una greca, alla taverna di Yannis, appunto,
e il flashback che ne consegue è la ricostruzione di un periodo che va dagli
anni quaranta del secolo scorso ai nostri giorni. Vi si legge l’invasione della
Grecia da parte dell’esercito italiano, la lotta partigiana del popolo greco e
del popolo italiano, le miserie e le distruzioni della guerra, la ricostruzione
difficile e faticosa, il sessantotto, la dittatura dei colonnelli, il boom
economico. Il tutto attraverso l’occhio di tre generazioni intente a costruirsi
il proprio futuro di certezze e solidità. Lo sfondo naturale è in prevalenza quello
della Grecia con le sue isole, il suo mare, il verde dei suoi pascoli, ma non
mancano accenni al paesaggio brianzol lombardo, nonché alla vastità del cielo
stellato, spesso ricorrente nei momenti clou del racconto. Lo sfondo invece storico,
come detto, è la seconda guerra mondiale con l’occupazione italiana di Samos e
la successiva venuta delle truppe tedesche. Dopo l’8 settembre del ‘43, così narra
la storia ufficiale, le cose si complicano per l’esercito italiano in Grecia.
Chi non vuole sottomettersi al comando tedesco verrà ucciso o deportato. Non
resta che fuggire, se possibile, o nascondersi, o entrare nei gruppi partigiani
locali. Ma l’altra storia, quella ufficiosa, quella della gente comune,
racconta che un sergente italiano (Giorgio) ebbe salva la vita grazia ad una
ragazzina (Eleni) che, a sua volta, quando ancora l’esercito italiano era l’invasore,
fu aiutata dallo stesso militare. Due esistenze, così differenti e lontane,
direi quasi opposte, si incrociano in una specie di diafora spirituale riproducendo
in nuce il destino di un mondo, oppresso dalla guerra, che si attorcigliava
inesorabilmente su se stesso senza via d’uscita. Ma quelle due vite, incrociatesi
quasi per caso e fortunatamente simpatetiche l’una con l’altra, furono l’inizio
del prevalere del Bene sul male. Non sto a raccontare gli avvenimenti
successivi per non togliere al lettore il gusto della lettura. Mi piace invece
sottolineare l’atmosfera emotiva che dà l’abbrivio alla narrazione. Siamo
trasportati come davanti ad uno schermo cinematografico – ed è lo stesso Forni
che ci suggerisce la chiave interpretativa – dove a “fare” la storia non sono
solo i potenti ma, Manzoni docet, gli umili e gli anti eroi. Si tratta di una sceneggiatura
in cui le cose nella loro successione diacronica e, in special modo all’inizio,
convulsa e frenetica, ci disvelano scenograficamente che la bellezza dell’uomo
non è quella esteriore, bensì interiore. I personaggi del romanzo, al di là
della loro collocazione geografica od economica, possono essere i nostri nonni
o i nostri padri, i nostri vicini di casa o i compagni di lavoro. Non fa
differenza. Quello che conta sono i loro valori di pace e solidarietà coi quali
hanno convissuto e per i quali si sono sacrificati, pur nelle mille
contraddizioni che la vita, o il destino, ha procurato loro. Nella certezza che
nulla è stato fatto invano e che tutto, alla fine, sarà ricomposto in un unico
e grande abbraccio fraterno, perché “il cuore è la cosa più importante”. Da non
dimenticare.
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
lunedì 17 giugno 2019
giovedì 13 giugno 2019
martedì 11 giugno 2019
lunedì 10 giugno 2019
Massimo Scrignòli “Lupa a Gennaio” (Book Editore, 2019)
E’ René Char ad aprire il tracciato in epigrafe di un suono
che accosta amore e poesia. Nuova stagione è poi davvero quella che Massimo
Scrignòli inaugura con un volume di prose poetiche temperate dalla robustezza
dell’afflato metafisico, “Lupa a Gennaio”. Muove il testo, deflagra
l’improvviso; domina l’assenso un indicibile riemerso quasi fosse un libro
dell’inquietudine. Anche noi, così, scendiamo in apparente rilascio, là dove
frammenti di tuono aprono scenari di amori inattesi, perturbanti. Da subito
risuonano, nei testi di Scrignòli, i rimandi agli autori frequentati e
interpretati: Char e Pound, Celan e Kafka, ma anche Dante. Le tracce notturne
sono enucleate quasi a ridosso di una prosa in brevi quadri sospesa,
raffigurata in intagli di raffinatissima perizia. Che conforto, a fronte di una
miriade di proposte vacillanti e anoressiche catalogate come estri del
dicibile, scorrere una traccia letteraria fieramente capace di dirsi
concettuale, profonda ma mai oscura, filosofica, propriamente ontologica. Gli
elementi materici, le cose, gli enti accolgono il lettore in una purezza
d’intendimenti che non può però escludere la precisa consapevolezza che
l’essere dell’ente non è un altro ente. “L’eclissi ha qualche cosa che riguarda
il bosco: è l’ingresso docile degli occhi nella neve oscura”; riguarda il
nostro senso estremo per la sensualità degli elementi, la percettibilità delle
variazioni e degli indugi. Una fisicità astratta ricompone il divenire
interpretabile non contraddittorio ma problematico; così come problema è il
mutare all’interno di un’esattezza nominata in quanto colore che si fa nome. Un
infrascritto ereo, quasi contenitore arcaico sprigionante domande abissali e
ansiti costieri. E ancora la tonalità cromatica del blu si accosta ad ombre e
presenze “là dove il cielo non è più cielo”, e così la parola sa discernere nel
non morire. Il depistaggio è complice, l’erranza fattuale attraverso la
duplicità del testimone, sensibile scolta di uno svago adulto, di una
consistenza intellettuale. Massimo Scrignòli proviene da linee del fuoco e
libri d’acqua; osa la dicitura compatta del brano che nella visibilità breve
distende lo spazio adeguato della prosa d’arte, della nominale intenzione
diretta al nucleo fondante del reale. Le acque della Senna, nelle quali Paul
Celan si gettò in una notte d’aprile del 1970, assumono il senso sacrale del
sacrificio devastante; si fanno, appunto, “ammutolite” ma, nello stesso tempo,
ritornanti, le stesse “per concessione suprema di Eraclito”. Indicibile
l’afflato panico riemergente dai vessilli di ciò che non deturpa il ripetibile,
l’avamposto decifrato dal lessico ermeneutico. L’evento e il rimedio
significano le cose. Davvero ritroviamo nell’opera di Massimo Scrignòli ciò che
disse in passato lo stesso Char: “Possiamo vivere solo sul semiaperto,
esattamente sulla linea ermetica di spartizione tra l’ombra e la luce. Ma siamo
irresistibilmente proiettati in avanti”.
Andrea Rompianesi
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