Enea Biumi
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
Enea Biumi
Questo poemetto di Gianfranco Galante ha il sapore dei ricordi dell’infanzia. Tutte le estati l’autore ritornava ai luoghi natii, attraversando da nord a sud l’Italia, in un viaggio complicato ma allo stesso tempo leggero. Complicato perché i treni in quei tempi non procedevano a 300 all’ora come avviene oggi, e leggero perché c’era la speranza di un incontro con gli amati nonni.
E in quel tragitto ne avvenivano di cose! Si
presentavano, infatti, mano a mano sul treno tanti e tali personaggi di varia
natura che, a ben osservarli, partorivano graziosi e simpatici aneddoti.
Il libro è scorrevole come il viaggio che viene
raccontato e descritto, colmo di emozioni
ed episodi unici nel loro genere. Si tratta in fondo di una specie di reisebilder
che narra l’ansia dell’arrivo e l’appagamento di un ritorno felice. Naturalmente
il percorso non è totalmente privo di piccole traversie che rivelano l’amore
per la terra che lo ha visto nascere e crescere in quel turbinio di esistenza
fanciullesca ed adolescenziale.
Si rimembrano luoghi, profumi, rumori, umori, sentimenti, sguardi
e aspettative raccolti in versi teneri e gioiosi nell’attesa di incontri con vecchi
amici e nella speranza di nuove e intense emozioni.
A volte il linguaggio è forse un po’ troppo aulico, o per meglio dire poco attuale e meno vicino alla parlata comune, ma si tratta comunque di una peculiarità di Galante, già nota in altre poesie, e che non stona affatto nel complesso dell’opera, anzi la vivacizza, così come è vivace il ritmo impresso, pagina dopo pagina.
I versi, in tal modo arieggiati, appaiono,
alla fine, la metafora del viaggio, nonché di un ritorno all’infanzia
spensierata e felice di un tempo ormai passato e che si vorrebbe recuperare,
per lo meno nella memoria.
Enea Biumi
I
poeti e gli scrittori qui rappresentati sono colti nei loro passaggi più
squisitamente indicativi in concomitanza con gli avvenimenti della loro vita.
Buffoni indaga lo spirito, talvolta inespresso, che ha indotto alcuni letterati
ad assumere determinati atteggiamenti e precise prese di posizione. Non per
nulla l’Editore nella Prefazione parla di poetica. Una poetica certo che
si concretizza nella vita degli autori stessi, una poetica rivisitata tramite
gli scrittori rappresentati, una poetica sicuramente specchio e riflesso di
quella di Franco Buffoni.
Si
tratta di una importante operazione culturale che l’autore ci offre in maniera
piana, spesso ironica, a volte sarcastica, in una ripresa di storiche invettive
e distopie (o cacotopie) che vanno ad aggiungersi alle informazioni che, a
livello scolastico, già sono presenti nel lettore medio. È un approfondimento
necessario, e direi dovuto, per meglio comprendere il mondo della letteratura
sviluppatosi in occidente e allo stesso tempo è un ritratto dell’uomo che con
la sua malvagia ignoranza uccide l’arte o la deturpa in nome di arcaiche e
inconsce sottomissioni a fedi, religioni, superstizioni e gestioni
scandalosamente incompetenti. La storia, ci rivela Buffoni, abbonda di tutto
ciò. Numerose sono le ingiustizie dovute a classificazioni razziste, misogine e
omofobe degenerate in roghi, carcerazioni, deportazioni, a causa di pregiudizi
sociali, religiosi, politici. Il primo capitolo (Su Dante, Cecco, Marsilio.
E Lorenzo) ne è una testimonianza esplicita.
Cecco
d’Ascoli, ovvero Francesco Stabili, arso vivo nel 1327 a Firenze per le sue
opere, aveva osato criticare, o lanciare invettive - per stare al titolo del
libro - contro Dante, reo di non aver usato la Ragione, bensì la pietas.
La diatriba nata nel lontano Medioevo permette a Buffoni di parlare dell’oggi,
e di quel clima culturale che ha imposto nelle scuole ideologicamente Dante e
Manzoni generando “Padre Pio nel portafoglio e il Gratta e vinci in mano”.
Mi
permetto, a questo punto, (non me ne voglia l’autore) una mia personale
esperienza nel mondo scolastico, avendo io stesso assistito ad uno svenimento
culturale – simbolico naturalmente – di un Preside quando, da insegnante di
italiano alle Superiori, ho osato proporre l’abbandono dei Promessi sposi
sostituendolo con Il nome della rosa.
Ecco
la distopia, già rilevata da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis
in cui insegnava “che la codificazione delle religioni rivelate, con i loro
dogmi, era strumentale alla necessità di controllare, attraverso le coscienze,
i comportamenti da mettere in atto nella vita civile, tenendo menti e coscienze
in soggezione”.
Mi
sovvengono, a tal proposito, madonne pellegrine e politici col rosario
in mano. Ma rimaniamo nel contesto del libro e ai vari esempi che l’autore
imposta sul binario delle invettive e delle distopie.
Riconducendosi
storicamente al significato etimologico di distopia, Buffoni richiama John
Stuart Mill, che usò questo termine al parlamento di Westimster, e ricorda
Tommaso Moro che aveva coniato il vocabolo utopia (in nessun luogo ovvero
luogo inesistente). L’accenno gli serve per spiegare quale sia il “tratto
distintivo profondo tra una narrazione utopica
e una narrazione distopica” che consiste principalmente, per quanto
riguarda il testo utopico, in una forma saggistica dispiegantesi “su un
amplissimo arco cronologico (appunto dalla Repubblica di Platone a Thomas More,
Campanella, Bacone)”, mentre quello distopico “tende ad essere
narrativo, pure fiction, ed è concentrato nell’Ottocento-Novecento, post
rivoluzione industriale fino ai totalitarismi e alle scoperte scientifiche
lette in chiave disumanizzante e fantascientifica”.
Ogni
capitolo di questo saggio è un alternarsi tra elementi che fungono da invettiva
e tratti di conclamata distopia.
Interessante,
a questo proposito, è sicuramente il raffronto tra Parini e a Leopardi. Il trait
d’union che li lega è una talare. Sappiamo tutti il perché della vocazione
sacerdotale dell’aio lombardo e il rifiuto categorico del buon Giacomino di
farsi prete disubbidendo alla volontà paterna. La talare diventa così il
pretesto per raccontare la Milano aristocratica settecentesca e la sua originale
e sontuosa architettura, come quella del Palazzo Castiglioni, o di casa Rasini
e di casa Fontana Silvestri. Nello stesso tempo la talare induce l’autore a
soffermarsi sugli amori tra Leopardi e Ranieri, nonché sulla viltà di
quest’ultimo che finge di non sapere “la ragione per cui Leopardi cercava
uomini giovani e scugnizzi che poi compensava con avarissime mance.”
Non
mancano, tra l’altro, approfondimenti di autori stranieri tra i quali possiamo
annoverare Ada Augusta Lovelace, figlia di Byron, la cui scrittura, afferma
Buffoni, è dotata di una “brillantezza di stile: accattivante, acuto,
intelligente.” La presentazione della figura di Ada Augusta Lovelace dà
occasione all’autore di raccontare la particolare passione di Byron verso
ragazzi e giovani uomini, passione, si direbbe oggi liaison gay, velata
da un matrimonio di convenienza. Per questo i Journals, in cui Byron raccontava
senza reticenza la sua vita privata, vennero distrutti. “Il risultato” –
commenta Buffoni – “fu un vero e proprio crimine commesso nei confronti
della letteratura”.
Tuttavia
le invettive non riguardano solo il mondo letterario. O meglio, analizzare il
mondo letterario non significa isolarlo in una campana di vetro. Il letterato,
l’artista, il poeta vivono in tempi e luoghi ben precisi entro i quali si battono
e dibattono. Ecco allora che la scrittrice Mary Ann Evans è costretta, a causa
di un’imperante misoginia, ad assumere uno pseudonimo maschile: George Eliot.
La sua opera fu anche una battaglia contro la ristrettezza morale e l’ipocrisia
della nobiltà agricola inglese. Dopo la sua morte il movimento di emancipazione
femminile si rafforzò fino a sfociare nel 1897 nel National Union of Women’s
Suffrage. Si tratta di una interessante annotazione storica che ci
riconduce alla nascita delle cosiddette suffragette.
La
storia, questa volta italiana, ritorna tra le pagine del libro con i poeti Elizabeth
Barret Browning e Robert Browning, giunti in Toscana dalla nebbiosa Albione. Viene
descritta la passione di Elizabeth per la libertà e conseguentemente la sua
adozione delle problematiche risorgimentali italiane (dalla guerra
d’indipendenza, alla morte di Anita Garibaldi e del Conte Camillo Benso di
Cavour). Rilevante è pure l’annotazione riguardante il suo amore verso il
marito, a dispetto di un padre arcigno ed egoista: “un amore totale,
concreto assoluto, per il giovane marito, con l’espressione della più pura
astrazione romantica”.
Come
si nota facilmente lo sguardo che Buffoni rivolge ai poeti non è mai a se
stante, distolto cioè da problematiche apparentemente lontane dalla
letteratura. La vita letteraria è indissolubilmente intrecciata con la realtà,
che l’autore indaga ed analizza utilizzando anche alcuni momenti personali da
lui dedicati a conferenze, interviste, amicizie.
Nel
capitolo consacrato al confronto tra Ibsen e Osborne, ad esempio, dove si narra
di un incontro tenuto con i maturandi gallaratesi, ci viene offerto uno
spaccato della società italiana che solo nel 1975 ha raggiunto la parità tra
uomo e donna, ancora purtroppo non completamente accettata visto i numerosi
femminicidi che si susseguono a regolarità impressionante. Mi sovviene a tal
proposito l’amore tra Coppi e la Dama bianca, l’uno tranquillamente libero e
applaudito, l’altra reclusa e dileggiata al pari di una prostituta.
Naturalmente
la conoscenza che l’autore ha della letteratura anglosassone e nord europea,
nonché la sua attiva presenza nel mondo della traduzione, lo conduce ad un
ampio panorama di nomi: fra questi possiamo ricordare Virginia Woolf, Osborne,
Ibsen, Yeats, Forster, Seamus Heaney, Pound, tra i più rappresentativi. E in
questa rassegna diventa notevole il lavoro riguardante la collocazione storico
geografica degli stessi. Degna di nota, in questa prospettiva, è la ricostruzione
dell’iter faticoso e tortuoso che si è avuto nell’Inghilterra, dal settecento ad
oggi, a proposito delle leggi sull’omosessualità (definita primariamente con
grande dispregio sodomia).
Nello
stesso tempo Buffoni non dimentica gli artisti italiani che hanno contribuito a
sprovincializzare la nostra letteratura. Fra i loro nomi non possiamo
dimenticare Fernanda Pivano, Pasolini, De Mauro. E accanto a questi personaggi noti,
l’autore registra poeti dimenticati o misconosciuti, come il palermitano Lucio
Piccolo, cugino del più famoso Tomasi di Lampedusa. A lui, e ad altri poeti
suoi conterranei, come Sinisgalli, Bodini, Matacotta, Lorenzo Calogero, mancò
un critico, sottolinea Buffoni, come l’Anceschi che “li catalogasse e
antologizzasse già negli anni cinquanta”, vale a dire “un accorto
sistematizzatore, un filosofo dell’estetica in grado di definirli”. Tra
loro Piccolo fu il più fortunato perché incontrò l’ammirazione di Montale, “ma
gli altri sono rimasti quasi sistematicamente nell’ombra”.
Molto
avvincenti sono le pagine in cui l’autore si espone maggiormente come persona
più che come studioso letterato. Mi riferisco in particolare al capitolo “Sereni
e mio padre” che parte subito da una confessione: “in lui (in
Sereni) vedo mio padre.” Forse per questo il poeta di Luino è stato per
Buffoni un maestro, colui che ha inciso maggiormente il suo percorso poetico. E
ancora una volta l’opera poetica non viene scissa dalla vita. Sereni, tenente
di fanteria, che si trova ad affrontare una guerra sbagliata dalla parte
sbagliata, fatto prigioniero in Nord Africa, racconta in versi il dramma di un
uomo a disagio col proprio tempo, umiliato e distrutto. Non si tratta solo di
una recensione all’opera del poeta luinese, bensì di una dichiarazione d’amore
e di stima, così come deve essere il rapporto fra padre e figlio: un
riconoscimento dovuto, un omaggio agli insegnamenti ricevuti.
Un
altro aspetto sicuramente importante è il pensiero di Buffoni a proposito del
tradurre. La traduzione, d’accordo, fa parte della sua professionalità, ma sono
sicuramente da non trascurare al riguardo le tante annotazioni sistematiche che
disvelano la puntigliosità e la fatica del suo operare. Ci sono capitoli
considerevoli che riportano pareri e confronti, come ad esempio le pagine che
parlano di Luciano Bianciardi dove viene sottolineato che “per tradurre da
una ex lingua di Chaucer e di Shakespeare nella ex lingua di Petrarca e Tasso
(…) occorrono l’incontro poietico e la concezione del movimento della lingua
nel tempo; e soprattutto occorre avere costantemente presente il concetto di
stratificazione del linguaggio.” Naturalmente il riferimento a Bianciardi è
un momento tra i tanti in cui l’autore esprime il proprio parere e la propria
poetica. Non posso in questa sintesi riportare tutto, ma una segnalazione su
due punti altrettanto necessari mi è d’obbligo. Uno è il richiamo al pensiero
di Céline, sempre riguardante la traduzione, l’altro ad una personale
riflessione sulla propria “ritraduzione” di Seamus Heaney con
l’avvertenza finale che chiosa: “L’importante è che – complessivamente – la
traduzione che in quel particolare giorno si è compiuta sia coerente, risponda
a un ritmo autentico, possegga una intonazione profonda.”
Quanto
specificato corrisponde pienamente anche alla poetica di Buffoni che trova
ampie spiegazioni nel capitolo “Pasolini e Byron: questioni di poetica”
nonché in “Piero Chiara: per una questione di poetica” dove ricompare la
figura di Anceschi, che con la collaborazione di Chiara ed Erba mette in piedi
una Antologia “Quarta generazione” riguardante giovani poeti di allora quali,
tra gli altri, Zanzotto, Spaziani, Cattafi, Merini. In queste pagine si
registra – almeno io la sento così, e mi scuso se interpreto male – una sottile
polemica da parte dell’autore nei confronti di Piero Chiara che pare avere una
certa “commiserazione” per i poeti contemporanei, perché in sostanza le
attenzioni del romanziere di Luino erano tutte rivolte alla narrativa e non tanto
alla poesia. Ciò è dimostrato dal fatto che lo scrittore del Piatto piange, quando
fu invitato a presiedere il Premio Tirinnanzi privilegiò l’anonimato e la
singola poesia, piuttosto che la silloge con nome e cognome. Aveva abbandonato
in tal modo le indicazioni del dedicatario del futuro premio, che prevedevano
invece una scelta tra i migliori libri di poesia editi nell’annata,
contraddicendo pure la poetica anceschiana che affermava che un poeta doveva
essere valutato nel suo complesso e non su una singola poesia.
In
definitiva, le tante pagine, che non ho ricordato per motivi di spazio, le
tante osservazioni, i tanti modelli critici di poeti, romanzieri, saggisti, i
tanti avvenimenti citati e presenti in Invettive e distopie aprono un
mondo e un modo di fare letteratura che possiede potenzialità da non
sottovalutare. Si tratta, in sostanza, di un’amplissima gamma con cui
confrontarsi e da confrontare in un fondamentale passaggio storico-culturale,
tutto da assaporare e rimeditare in continuazione per un arricchimento dello
spirito, laicamente inteso.
Enea
Biumi
Il profilo del Rosa è un viaggio nel tempo, un reisebilder a ritroso, in cui l’autore rievoca luoghi e situazioni del suo vissuto, senza però abbandonarsi a sterili ed inutili sentimentalismi. Anzi. I versi non sono altro che un racconto introspettivo della propria esperienza di crescita e di maturità. Nulla di nostalgico. Niente rimpianti. Nessuna lamentela sul passato. Solo un percorso che richiama luoghi frequentati e particolari situazioni.
E
io che vivo da ottant’anni quasi
È
stata vita dico alzando le braccia,
Sotto
di me e sotto la mia barca
Le
trote oscillano guizzano tra i cardi
Discendono
allo scafo azzurro capovolto,
Verso
già capofitto il mio contrario
A
due tre metri.
Premesso ciò, è
chiaro che la silloge diventa un’interessante fotografia entro la quale il
poeta si riflette e si rivede, bambino, adolescente, adulto attraverso anfratti
di paesaggi, dettagli domestici, echi letterari. Di per sé è una panoramica di
vita che sancisce le caratteristiche di un esame e che ripropone, in chiave
poetica, un mondo che sta a metà tra l’immagine della grandezza della natura –
evidente in questo caso la metafora del Rosa – e l’esistenza quotidiana
dominata da oggetti che ricorrendosi e rincorrendosi nel tempo assumono
connotati differenti. I versi inziali
offrono l’incipit di quello che avverrà poi.
Una radice ha
rotto il vaso
Nell’atrio della
casa riaperta
La pianta è sempre
stata bagnata
Dal vetro rotto
dal vento.
Nel ritornare
all’antica abitazione il poeta scopre che qualcosa si è rotto (il participio
del verbo rompere è presente due volte in soli quattro versi), ma non
completamente, perché la pianta è sempre stata bagnata, quindi la vita
nonostante le intemperie è potuta proseguire, sia pure con affanno.
Il viaggio, si sa,
(reale o fittizio che sia) è un topos letterario (dall’Ulisse di Omero
alla strada di Kerouac) e ha l’attrattiva di una crescita e di una presa di
coscienza mano a mano che si avanza e in relazione con chi si incontra e con
chi ci si confronta.
Nelle religioni
misteriche antiche si otteneva salvezza, e quindi consapevolezza, dopo aver
percorso le vie più impervie e pericolose cha annullavano la personalità del
neofita. Era necessario conoscere il male per poi rinascere nel bene. Ne
abbiamo un esempio significativo nella Commedia di Dante, o ancora nella più
divertente novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia che per capire la
realtà deve prima cadere dal chiassetto per poi precipitare nel pozzo e
rimanere chiuso in un sepolcro.
Ma dove sta il
male in questo profilo del Rosa che apparentemente non ha nulla a che
spartire con le cadute e l’annientamento di se stessi prima di una definitiva
risurrezione? Bisogna leggere questi versi come un incatenarsi di tanti
rimandi, una serie di metonimie o metafore che collegano il luogo al
sentimento. Se Montale utilizzava il correlativo oggettivo per spiegare (o
meglio per tentare di spiegare) il male di vivere, Buffoni impiega
parametri di implicita diairesi.
Me ne
nutro, ci sguazzo in questa faccia
Ancora
da ragazzo che mi vedono, e agglutino
Nel
sacco insieme a un cane e a un gallo,
Senza
vipera e serpente.
Non
ho ucciso niente.
Certo è che il
viaggio non è lineare o senza ostacoli. Non lo fu quello di Odisseo né quello
di Sal Paradise. Ma non di meno gli ostacoli che si frappongono contribuiscono
a sviluppare una presa d’atto: rinsaldano radici, rafforzano la consapevolezza
dell’io, l’immagine del sé nei confronti dell’altro.
E
comincio a riconoscere stagioni
Dalle
vene dei mobili, i rumori
Che
fanno assestandosi di notte
La
temperatura delle ossa
Questione
di coperte e di verande.
Si tratta in
sostanza di un Bildungsroman in versi, che si snoda attraverso rivelazioni sapientemente
correlate ad avvenimenti quotidiani che diventano ipso facto testimoni
del vissuto del poeta. Sembra un incontro con un armonicista in grado di
accordare strumenti diversi per intonarli all’unisono in uno spettacolare
assolo esemplare.
La sinfonia che ne
sorte ha l’andamento simile al poema musicale Eine Alpensifonie di
Richard Straus: un inizio quasi in sordina che si avvia poco a poco, e senza
che noi ce ne accorgiamo, ad esaltarci con la sua potenza e maestosità. La
maestosità delle Alpi, per l’appunto – o del Rosa nel nostro caso – e in
generale della natura.
Il desiderio di
orchestrare i ricordi diventa allora come un polittico che si apre e si chiude
a seconda delle occasioni e che fa intravedere alcune specificità, disvelando
chiari e scuri, che racchiudono ricchezze da esplorare o commentare.
Come
un polittico che si apre
E
dentro c’è la storia
Ma
si apre ogni tanto
Solo
nelle occasioni,
Fuori
invece è monocromo
Grigio
per tutti i giorni,
(…)
In
definitiva il polittico assume il valore della metafora della vita: una sorta
di finestra donde guardare avvenimenti e persone, ed esplicitare sentimenti,
desideri, angosce, dubbi, storicizzando come in un diario intimo i momenti
salienti che ci hanno permesso di crescere e maturare.
Enea Biumi
Forse davvero l’assenza torna
presenza come negli spiragli delle citazioni; “Capita a volte/ in un agosto come questo/ con il
cielo azzurro/ corpi clandestini...”, forse ancora intaglia la percezione di
una strategia che l’afflato civile denuncia nel ritmo volutamente franto,
spezzato. E’ il segno della condivisione operante lo smottamento linguistico
nell’esito poetico “Conversazioni sull’Orizzonte” di Antonella Doria.
L’epicentro è nel tratto abilitato alla costruzione del verso, nella traccia
che concede lo spazio bianco di pausa all’interno stesso del passo, nella
deriva dell’interpunzione aderente ad una sillabazione materica, nei tratti
d’interposti elementi a segnale d’interscambi fra detriti e corrispettivi
stralci di dolore. E’ diceria di Luna che suona a condono e congedo, a
insenatura talmente scolpita da risiedere in vento, in golfo, dove
l’acquisizione della struttura nominale attende l’intervento dicibile del
taglio a corrente, a flusso instabile, come “silenzio d’una polvere/ oro inquieta frantuma/ pensieri l’ora che dura/ nel passo nel pianto”. Allora la danza è notturna;
Antonella Doria compone le passioni operose, le tramature interroganti, gli
slanci reiterati, attraverso la domanda cosmica a contatto con le arditezze del
coraggio. Di nuovo l’iterazione si fa paziente e sapiente riverbero ritmico in
contrazione di verso, in ritmo infranto sulla soglia di una dicitura esatta,
compiuta e nello stesso tempo aurorale. Nel prima di tutto o nel dopo tutto le
trabeazioni linguistiche accennano ad una compostezza raggiunta nell’equilibrio
dei tempi, nell’esegesi dei rimandi, degli omaggi ai tanti autori, agli artisti
che hanno sperimentato esili e travagli. E il corpo a corpo è intimo,
intagliato nelle protuberanze formose della condizione terrena, nel viatico
accenno alla esclusione, alle soffocate dimensioni del bisogno, della
persecuzione. Il ritrovarsi è specchio di un umanesimo desto, percosso ma
reattivo, episodico trauma adibito a scenario dove quella vita intestina
rimuove filtri e ancoraggi, giungendo alla fonte del mito, alla quotidianità
del passaggio. Comporta attenzioni empatiche il fondersi di parole qualora acuisca
il segno l’evidenza dello slancio al rimando, alla evocazione nel riferirsi, ad
esempio, ai destini di poeti come Mandel’stam e Achmatova, di artisti come van
Gogh. L’osservazione sulla terra natale, costante riferimento dell’autrice,
quello spasimo di Palermo, per citare Vincenzo Consolo, quella “materia
corporea fiumana/ viva inerme (bocche aperte/ al grido) né l’aria nera
stretta/ pure corse oscura di
bocca/ in bocca la freccia la paura”;
così la fiumara, i pendii, le fiamme mugghianti, l’acquachiara, l’appiglio, il
ritmo e il rito. E’ un comprimersi linguistico d’inventiva strutturale ove due
versi concedono quasi la fonetica solida di una sintassi segnaletica
“pinimarittimieplumelie/ eucaliptipalmeoleandri”, nominazioni componibili in
alternarsi di variabili. Anche le volumetrie vogliono evocare la possibilità,
l’opzione di pagine mai scritte che si traduce in rilievi amari: “Destinazioni
d’Uso/ Servizi non conteggiati/ ma
anche...pungoli/ Desideri assilli
persuasi/ Prestiti a fondo perso/
(Indifferenze metropolitane)”. C’è,
nella poesia di Antonella Doria, quasi un desiderio mimetico, una capacità
d’inserirsi nello stesso dettato della composizione linguistica, un rapporto
intimo con le parole, come giustamente ha osservato Giulia Niccolai. Il testo
si dice e ci dice la volontà dell’autrice: “cerco fra
massimi sistemi/ qualcosa
proprio rasoterra/ uno sfogatoio
una turca o/ latrina una udienza pubblica/ una lingua
arcaica forse”. Se poi avevamo avuto come
uno dei massimi esempi della poesia del secondo Novecento un “Paesaggio con
serpente” di Franco Fortini, Doria ci propone ora un “Paesaggio con Figure”,
un’architettura dove la dilatazione utilizza ancora l’interpunzione per
assecondare cadenze nel significante, quando si racconta, quando la
partecipazione emotiva si traduce “Per certi versi... ...meravigliosi/ gigli...
nascono crescono da/ amori carnali
carni impastate”. Antonella Doria imprime allora al verso la direzione
maieutica di una vera dichiarazione di poetica: “Per certi versi...
...pensieri/ nella notte
(zampettine.../ d’albanella pallida alla spiaggia/ al mattino) quasi scrittura serve/ una traiettoria a seminare indizi”. Quegli indizi che
portano alla esatta dimensione del poetare.
Andrea
Rompianesi
Andrea Rompianesi
La storia della Regina di Saba viene narrata in tre libri diversi che rimarcano sostanzialmente un’unica vicenda: l’incontro della Regina con Re Salomone. Sia nella Bibbia, che nel Corano e nel Kebra Nagast, al leitmotiv dell’ammirazione della Regina per Re Salomone, si aggiungono la smisurata ricchezza del regno di Saba donata al Re e velatamente, per il Corano e la Bibbia, esplicitamente per il Kebra Nagast, l’amore tra i due regnanti. Gli studiosi hanno tentato di storicizzare l’avvenimento, ma rimangono dubbi e la distanza fra religione, leggenda e storia sembra non essere colmata.
Tuttavia, ciò che non riesce agli studiosi viene raggiunto dai
versi di Angelo Manitta che, in un unicum coinvolgente, attraversa storia,
leggenda, religione, offrendoci un ritratto che va ben al di là del dato
contingente per trasformarsi in qualcosa di immateriale, universale e senza
tempo. La poesia ha questa capacità illuminante e trasformatrice, sa uscire dal
marcescibile e donarci l’ebbrezza dell’assoluto.
In questo contesto il lettore affronta lo stesso viaggio regale della regina di Saba e si ritrova immerso in un mondo favoloso, al limite della magia e del surreale. È, tale, la funzione dell’incipit che ci introduce in una meravigliosa luminosità (“Sgranano grappoli di luce le alcansie / lanciate nell’aria da rotondi universi”) e il deserto diviene motivo di curiosità e di racconti ancestrali dove si misurano donne impaurite dai serpenti e bimbi incuriositi, dove le carovane attraversano esotiche dune e la sensualità si scontra con demoni tentatori. Siamo davanti ad una sorta di prefazione che serve ad introdurci nel munifico mondo d’una regina, che non solo offre al re stupende e innominabili ricchezze, non solo fa richiesta di strani e variegati quesiti, come se volesse testare la sapienza di Salomone, ma si concede in toto ad un amore sublime, materiale e spirituale allo stesso tempo.
Ecco allora che lo scandire delle azioni segnano il destino
degli amanti e le voci che si susseguono hanno la complicità e la varietà di un
andare musicale che accompagna gesti e pensieri. “Le mie parole volano in
eccelsi pinnacoli / e lì restano appiccicate in muti frontoni”. Ma non
esistono solo parole “che inseguono parole”. Esiste l’incombenza del
viaggio, l’anelito dell’incontro. La regina è circondata dal desiderio, immersa
in “tentazioni di stelle / flagellate dai tramonti (…) giochi d’amore / che
risvegliano fantasie di Eros nella bellezza / d’un maschio, sesso innocente di
piaceri.” Però il cammino sembra incedere lento, mentre “scie di
carovane (…) attraversano la pianura, solcano / il deserto”. E l’aspettazione
diventa bramosia d’amore. “Il sangue giovanile /delle sue passioni scorre in
fantasticherie / erotiche d’un giovane re che la violenti”.
La distanza geografica non si riduce ancora. Si fa sentire
nell’animo. Si traduce in similitudini evanescenti come sono evanescenti i
sogni e i desideri. “La strada è lunga, gli argini indefiniti” e non è
sufficiente l’oro di Ofir o le tazze di smalto o i tavoli d’argento. La regina sembra
impaziente, è impaziente: “spinge con gli occhi i saturi cammelli”, sebbene
nel frattempo “L’ansia dell’alba si è spenta nell’ombra / di un’oasi.” E
finalmente si annuncia lo sposo, in tutta la sua regalità di “nordico re”,
nella considerazione amorosa, nella dolcezza di una fantasia avveratasi nel
momento in cui “porge la mano ai datteri che pendono / dalla bocca di una
bianca imperatrice innamorata”.
L’incontro, a questo punto, palesa non solo la gioia
rasserenatrice della regina ma l’entusiasmo di un’intera popolazione, che si
vede come liberata da un incubo. “Mormora il passante tra le viuzze cupe, /
borbottano le voci entro le case buie. / Le maghe agli angoli fanno sortilegi,
// le puttane aprono le gambe agli avventori, / ignari dei turgidi sessi
abominevoli. / In filari, le porte, chiuse con spranghe / di legno, ondeggiano
al venticello delle colline, // e foreste di cedri, piantate sulle strade, /
come scheletri di abeti sognano ogni notte / giochi d’amore e coppe di vino /
innalzate al cielo per essere bevute.”
È facile notare, ora, che il seguito della regina (e ormai
anche del re) non è costituito solo da uomini, servi e liberi allo stesso tempo.
Il contorno che riempie lo spirito degli amanti è composto pure dalla natura
che segue, come in un tripudio magico, l’unione dei due protagonisti.
Dapprima la regina pone quesiti a Salomone che risponde in
maniera saggia e perfetta. “Gli occhi si incrociano in una sfida di sapienza:
/ enigmi proposti contro enigmi sciolti”. In un secondo momento,
abbandonate domande e sentenze, l’amore tra i due raggiunge il suo acme. Amore
sensuale e amore spirituale si intrecciano intersecandosi senza tregua. La descrizione
che ne sorte ha un che di sublime. Non c’è volgarità, sebbene le parole
mostrino tutta la carnalità dell’essere umano. Ciò che si sottolinea è la
felicità dei corpi e dell’animo: è la vita stessa che dona e si abbandona in un
viluppo di estremo edonismo, nel pieno piacere di ricevere ed elargire vicendevolmente
i propri corpi e la propria anima.
Il paragone col “Cantico dei Cantici”, attribuito come si sa
al re Salomone, viene, a questo punto, spontaneo. Sebbene, a mio avviso, al
testo di Manitta non posso ascrivere valori simbolici bensì filosofici. C’è
infatti un’iterazione di concetti che trascendono la semplice metafora. I termini
“ricchezza”, “onestà”, “felicità”, “bellezza” sono ripetuti, nel susseguissi
delle quartine, ben quattro volte ciascuno e all’inizio di ogni quartina, dando
risalto e valore a quello che di più prezioso l’uomo possiede. Qui il poeta
sembra voler uscire dalla narrazione e farci riflettere anche sull’attualità. Alla
fine, se è vero che la ricchezza è stata un fattore intrinseco alla visita
della regina di Saba, è pur vero che non è sufficiente, così come non sono
sufficienti la bellezza o la stessa onestà. È necessario amalgamare il tutto perché
solo in questo modo “la saggezza dell’uomo si misura nel vivere / distaccati
dal mondo e dalle emozioni” e “la saggezza d’una donna innamorata sta /
nel capire che tutto è finito”. Vale a dire è necessario possedere la
capacità di andare oltre la passione. Sembra quasi di ascoltare la filosofia di
Epicuro in questi ultimi versi che terminano con una descrizione disincantata, e
liricamente avvolgente, della natura.
“Canta / il vento una canzone triste alla partenza //
della carovana, piangono i cammelli e i cammellieri, / piange il suo cuore nell’ultimo
sospiro. / L’orizzonte che accoglie umidi albori / spegne nell’aria emozioni d’amore”.
Enea Biumi
La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...