(dalla prefazione di Carlo Alfieri)
L’EVENTO di
presentazione ufficiale del libro si terrà il 1 dicembre alle 20.45 a
Gallarate, nella SALA IMPERO, in via Ugo Foscolo, organizzato dalla Piattaforma
Culturale LA SCINTILLA.
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
(dalla prefazione di Carlo Alfieri)
L’EVENTO di
presentazione ufficiale del libro si terrà il 1 dicembre alle 20.45 a
Gallarate, nella SALA IMPERO, in via Ugo Foscolo, organizzato dalla Piattaforma
Culturale LA SCINTILLA.
“Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura”. Così leggiamo nel celeberrimo L’infinito di Leopardi. La mente si spinge oltre la siepe, che non è ostacolo invalicabile, ma solo confine naturale, e naturalmente sormontabile, tra il qui e ora della tangibile realtà e l’impalpabile altro che il pensiero immagina pur non vedendolo. Immaginario che la nostra immaginazione (si scusi l’inevitabile gioco di parole) partorisce: un immaginario che è in un altrove ma nello stesso tempo nel nostro pensiero, perché gli “interminati spazi” si allargano e allocano all’interno della mente. Se, per dirla con il Sartre de L’immaginaire, la percezione implica l’osservazione, l’immaginazione è invece totale. Così, nell’immensità si annega il pensiero per Leopardi, che si fa eterno e infinito. L’immaginazione – l’immaginario – è un trasumanare umano, troppo umano. E in questo immaginare, secondo Sartre – per tornare a lui – siamo “ontologicamente liberi”. Per quanto questa libertà possa fare leopardianamente paura.
La poesia
di Isabella Michela Affinito dà voce poetica alla celebre opera delle
Grazie di Antonio Canova, perché «anche la pietra di cui sono fatte si muove
perché s’abbracciano, come cinto è il triade pensiero che giungerà agli
artisti». Lo sguardo magico della sua visionarietà creativa incanta e inchioda
l’immaginario al fluido vitale dell’Altro, in una morsa stringente di bellezza
estatica. La poesia sedimenta, per accumulo, questo scenario dell’alterità e
il verso diventa il collante privilegiato di questa interazione straordinaria.
La ricerca dell’Altro e l’impulso alla disappartenenza calamita lo sguardo
attento del poeta in questi versi di straordinaria bellezza; fievole e leggero
è il tono della poesia di Sebastiano Aglieco, che, nel suo immaginario,
indulge a un ricordo dolce, ma inquietante. Le tracce mnestiche delineano
un focus irradiante di una visionarietà creativa, coinvolgente ed
empatica. L’immagine di questa nostalgica memoria è ferma nella mente del
poeta con i suoi risvolti perturbanti, creando “uno spazio dilatato fino ai
confini del cuore”. La poesia di Sauro Albisani è un acuto scandaglio
del suo io “disajutato”; leggero come una piuma è il suo verso nella
trasfusione di alcune immagini, che colgono la genuinità sorgiva del suo
fantasma interiore, sospeso tra l’essere e la necessità, in un
rapporto di reciprocità interattiva di una sabiana “parola onesta”. Delicata è
l’espansione dell’io poetico di Sandro Angelucci, in un dettato
lirico proteso verso l’altrove. Mediato da un’immagine pura, delimita
limpidamente il suo afflato, proiettandolo in una “dimensione indefinibile”. La
risonanza dell’illimite è in questi versi, disincantati e calamitanti, che
trascinano in un’aura di un’agnizione celestiale. Immagini icastiche di un
sobrio impulso poetico costellano il dettato lirico di Claudia Azzola,
assediato da un “arcano ricordo”. La poesia diventa per lei un’oasi
pacificatrice e liberatoria dal “pensiero dominante” e da un mondo “algido,
alieno dai sogni” di “una strana condizione del vivere”. Il dettato poetico
di Fabia Baldi è condensato nel fluido vitale del sentimento amoroso,
costruito su un climax di notevole spessore elegiaco. La sua
tenerezza è una proiezione di straordinaria radialità dell’immaginario,
restituita alla ricerca dell’Altro e al suo sguardo magico. “L’inquieto
sentire” viene placato nel rifugio dell’“amato Bene” nella “dolcezza del
crepuscolo” e nella “seduzione dell’alba”. Il rapporto inesausto con il Tu procede
per improvvise folgorazioni e per scatti improvvisi di straripante bellezza, il
cui centro d’irradiazione parte dagli occhi e porta direttamente al cuore.
Carezzevoli sono le immagini, che delineano la poesia di Enea Biumi. Pura
e sincera è l’ispirazione, collocata in una dimensione alta, nel tempo
preterito della memoria. Nel ritessere la trama dei ricordi, il poeta accende i
sinistri bagliori del cuore, alimentando la fiamma della nostalgia. I nuclei
fondativi della poesia di Corrado Calabrò, nell’acuto respiro poematico
del dettato di Roaming, sono visti attraverso la sfera celeste, nel
bagliore tenue delle costellazioni, nell’evoluzione espansiva
dell’inappartenenza, nell’insondabile mistero della condizione umana. Siamo
oltre i limiti dell’infinito, sedotti dal tocco magico di questi versi alati. È
lo stato di grazia di chi coglie lo spazio dell’infinito multidimensionale, nel
teatro dell’io, dietro il milieu metaforico della poesia. La straordinaria
radialità dello scenario onirico e la genialità espressiva diventano il segno
della sua eccellenza poetica. Immagini deliziose e accattivanti sono
materia dell’empito poetico di Franco Campegiani, quando crea poeticamente
l’intreccio della storia di Pinocchio e di Alice. Sulle ali della fantasia il
coagulo della sua poesia è costruito, in modo mirabile, su un immaginario, la
cui radialità è proiettata verso un oltre, irraggiungibile e misterioso.
Incantevole e soave è la densa poesia lirica di Marina Caracciolo, soffusa
di echi di “vaghe memorie” e adombrata da “ambigue presenze” dell’ignoto. Le
immagini si disegnano in modo netto ed eloquente, ritagliando spazi innocenti
di un’acuta visionarietà. L’illusoria avventura di Robinson Crusoe è
nell’immagine suadente di Tiberio Crivellaro, che ci restituisce un
sentimento di esulità e di solitudine essenziale. L’avventura e la sfida sono
in un mondo altro, vagheggiato da questa preziosa invenzione della
creatività del poeta.
Su una similitudine, protratta per l’intero spazio poetico, tra parto reale e metaforico (quello poetico) si gioca il testo di Edith De Hody Dzieduszycka, che anche mediante l’utilizzo di versicoli univerbici rappresenta iconicamente il “cordone” a cui è “allacciata” “la poesia nuova / desiderata bimba”. Leggiadra e liberatoria è l’immagine poetica di Francesco D’Episcopo, segnata da un sentimento forte di vena pascoliana e scandita da un convincente empito di straordinaria freschezza. Il poeta sogna, evitando gli scontri dell’inconsistenza umana, ma “sovra gli altri com’aquila vola”, ignorando gli effetti nefasti del disinganno e della caducità dell’Esserci. Nel candore dei versi di Carlo Di Legge c’è un’ansimante pulsione di morte, espressa attraverso immagini nitide, di un forte afflato poetico. Il tracciato emozionale è segnato dalla rete associativa della parola, che si correla all’immagine, nel disvelamento trasversale dello struggimento dell’Essere. Nell’ottica disarmonica del Fuori di Chiave, la pittura pirandelliana viene analizzata da Carlo Di Lieto, in funzione dell’immagine, sul versante dell’esegesi psicoanalitica. L’estraneità dell’io, fantasmatizzata, viene disvelata nel gioco ambiguo dei contrari e sul clinamen degli scenari dell’alterità. Il ritratto dell’Autore viene alla luce nelle risonanze simmetriche delle vibrazioni interiori, che dilatano il paesaggio della natura e quello della mente nei colori della sua pittura. Delirio e sogno sono accomunati dall’immagine, per perlustrare il fondo segreto delle latebre inconsce di Pirandello, nella diuturna dialettica di vita e opera. Tra l’apparenza e le meraviglie del sensibile e i “pensieri contrastanti” si dipana il testo di Annitta Di Mineo, in uno scenario dagli incerti “confini”, dove la sospensione della ragione dà il la al dilagare dell’immaginazione.
È un immaginario umanistico quello di Enrico Fagnano, oltre che “perfetto”, come recita il titolo del suo testo, una perfezione leibniziana ritenuta possibile al di là dell’imperfetto mondo attuale. Come qualcuno ha detto, un “ottimismo della volontà” per realizzare ciò che le idee riescono comunque a concepire. La dimensione comunitaria (“Uomini / che camminano / insieme / ad altri uomini”) trova però forza a partire da uno sguardo introspettivo (“Io sono / la mia memoria”, “Io sono / le mie domande”, “Io sono il mio respiro”) che però si proietta fuori di sé (“Io sono l’altro”) per realizzare una comune libertà. Per Paolo Fichera l’immaginario sembra essere ciò che è rimasto ancora sospeso tra l’evento non accaduto e ciò che appare invece dimenticato o non detto (“Quel che non accade resta / sovrano, eppure cade / tra i grani di una parola impronunciata / fedele alla stirpe d’Eleusi”; “Forse che dimenticata possa accadere?”), come se fosse necessaria un’iniziazione per addentrarvisi. La scrittura, elegante e levigata, si nutre di riferimenti cólti che vanno dal mondo della mitologia antica a quello delle arti figurative (Eleusi, Rodin, Renoir). Le immagini si susseguono con forza fantasmatica, laddove per fantasmatico s’intende sia il favoloso, sia l’inafferrabile (“Chicchi d’uva travalicano neve, / perde nel bianco la terra la fame / precisa, la fiamma nel giglio / leviga mani, guance, neve / inesauribile tra terra / in incanto: atroce terra”). Antonio Filippetti mette in discussione il valore salvifico dell’immaginazione; “immaginazione è il migliore / dei mondi possibili?” si chiede rovesciando la fiducia di Leibniz e spezzando con un enjambement e un rientro del verso successivo la stessa espressione del filosofo tedesco lasciando “migliore” a pencolare monco nel verso precedente e isolando a capo i mondi possibili. La speranza sembra essere diventata illusione, e il cassetto dei sogni appare irrimediabilmente chiuso. Se uno spiraglio rimane aperto è che la forma interrogativa se da un lato appare mera domanda retorica, dall’altro assume pure l’aspetto d’un interrogare ancora aperto. Luigi Fontanella, dalla sua nuova patria, gli Stati Uniti, dove vive da decenni, all’immaginazione sostituisce la percezione del tragico dato sconfortante fornito dai sensi. Attraverso il diaframma trasparente della finestra lo sguardo sembra spingersi ben oltre il suo “amato albero” e la scena, lo scenario sembrano diventare il tragico mondo dei nostri giorni. Se l’albero, che è la vita, è diventato suo fratello, non si può non pensare all’autodistruzione verso la quale invece corre lo svolgersi del nostro tempo: “E penso di colpo, per contrasto, / all’autoannientamento / di tutto ciò che abbiamo costruito, / al cadavere oramai rattrappito / di quella madre in fuga / con l’umile sporta / delle sue bagatelle, / a quei due figli stramazzati a terra, / ai rigagnoli di sangue rappreso / sul suo viso contratto”. Sono “visioni incrociate”, come le “stagioni incrociate” di cui in precedenza Fontanella ha scritto, due realtà diverse, quella pacificata e rasserenante che vede dallo schermo della propria finestra, quella tremenda e perturbante che proviene dai monitor televisivi, di oggi ma anche di ieri. Di sempre. La musica è l’arte del tempo, non c’è musica senza lo scorrere del tempo, ma non ci sarebbe neanche la vita in un punto fisso nell’atemporalità, ci dice Sonia Giovannetti; ma anche la poesia musicalmente è arte del tempo: la puoi trovare fissata per sempre sulla pagina, ma è nata dal movimento della scrittura, della mano sul foglio, e vive nel tempo della lettura, del movimento degli occhi sulla pagina. Ma, sinesteticamente, la musica è anche luce che fuga le ombre: “C’è un bordo oscuro nelle cose / ma c’è chiarezza nelle note che / muovono il suono: non morirà / così il verso nel percorso del dire”; “Eppure resta il suono / dei panni stesi al sole, / musica di un rimpianto / che non si estingue”. La musica che ci vibra dentro e vibra nelle cose riaggancia anche il passato: “Mio padre è ancora là, / col bastone in mano / a tracciare linee sulla polvere rimasta”. L’immaginario per Vincenzo Guarracino s’insinua nella disposizione stessa dei versi sulla pagina, non solo: entra nelle parole e le spezza, le deforma, ne trae altri echi. La Pagina è un Telaio che tesse e disfa parole e frasi (“verifica l’ans(i)a del fiume la ferita / la rotta segnata l’ombra conosciuta, per / es(empio)…”) lasciando incompiuto il senso che si ricompone – se si ricompone, se è necessario che si ricomponga – al di là della pagina stessa. Il segno diventa un sogno che ha le regole apparentemente anarchiche del sogno (che pure ha una sua normatività): “discende l’occhio è reale (altrove) / alterni golfi che ora (a cerchio) (in sogno) / il segno registra in volo (inventa) ap- / punta il centro”. E si lascia tronco il famoso assioma scolastico fatto proprio da Locke – “nihil in intellectu nisi prius in” – e integrato da Leibniz: nisi ipse intellectus. E qui infatti l’intelletto gioca con sé stesso e in sé stesso trova un immaginario verbale. Narrazione surreale, quella di Giorgio Linguaglossa, polifonica e a tratti sincopata: non a caso, il riferimento alla musica attraversa tutto il testo, una musica killer che uccide uccelli e fiori. E un finale noir inatteso (ma forse non tanto) in chiusura. L’atmosfera straniante è introdotta da un misterioso K. che non si sa se identificare con il più famoso K. della letteratura mondiale, ma il fatto che fumi un sigaro cubano smentirebbe l’ipotesi: “K. esce dal tempo. Rientra nel tempo. Nel presente. / Notte. Pioggia. Ombrello. Sotto l’ombrello, il cappello. K.” Ma non si sa di cosa essere sicuri: “«Le parole tradiscono le parole», disse K”. E l’autore si fa chiamare in causa da una delle voci che interloquiscono nel testo: “È un peccato che Lei non abbia stile caro Linguaglossa”. Cosa che certo non si può dire di questa particolare scrittura poetica. In una sorta di incubo ci trascina soprattutto il secondo dei due testi di Roberto Lombardi. Ma già il primo, “dedicato” alla pubblicità, ci proietta in un mondo in fondo irreale: “di cosa parla? d’illusione. la sua. / l’ha detto la pubblicità / che può essere magra e grassa / non importa l’importante è che / sia libera. libera da che da che cosa? / non lo dice. la pubblicità non lo dice / non dice da questo o da quello. libera”. Pubblicità che incontriamo anche nel secondo testo: “una mucca morta in una pubblicità giammai / una fetta di sangue sì una fetta sola con parsimonia e meglio se cotta / se ben cotta / ma l’intero animale l’intera morte no”. Ma la morte della mucca introduce al tema dell’inevitabile scomparsa personale, tutti destinati a nuotare nello stesso lungo e interminabile sogno, che è appunto un incubo, un insostenibile immaginario. Ai cigni di New York, appunto Swans, s’intitola il testo di Eugenio Lucrezi dedicato alla moglie Paola. Ma che il musicista Eugenio non alluda anche alla band omonima attiva dal 1982 sulla scena newyorchese? Alla fine scrive infatti “Un gruppo Gothic / così vola / Tra lacrime, / the Swans”, e la loro music fu pure detta gothic rock: quindi l’autore confessa. Musicalmente, il testo si articola in una serie di haiku – almeno li chiamiamo così perché tutti di tre versi brevi – nei quali i cigni effettivamente compaiono (“Cigno ritagli / L’acqua e l’aria / Senza ferire foglia”) in una serie di fotogrammi, fenomenologia della grande mela vista attraverso piccoli scorci che pure spingono a trovare altro senso negli spazi bianchi tra una stanza e l’altra del testo essenziale e raffinato: “Il cigno veglia / Dorme l’eme / La clorofilla sogna”. Immagini di giovani ragazze attraversano i testi di Angelo Manitta: “seni fanciulli”, “lo sguardo diafano della ragazza / che trasforma in pura luce / deserti di miraggi”, “fanciulle inebriate / da vaghi corteggiamenti”. Un’atmosfera soffusa pervade i versi, talvolta inquietante, talaltra malinconica. Se troviamo “labili oscurità”, c’imbattiamo anche nella “carezza d’una mamma” e ci muoviamo tra un che di fiabesco e la tenera quotidianità. Uno scarto è rappresentato dall’ultimo testo, dove domande senza risposta s’interrogano sul perché d’una scomparsa prematura di una bambina: eppure è come se fosse ancora tra noi: “Ma tu vivi e corri / e sorridi e mi abbracci: immagine / sciolta in un bacio”. La serie delle “e” congiunzione è come se rafforzasse questa presenza assommandone le manifestazioni.
La composizione di Irene Marchegiani, Metamorfosi,
risulta come sviluppo immaginario della terzina iniziale, dove l’angelo,
oggetto di fede dell’ava, costituisce la base di ogni rapporto d’amore.
L’angelo “laico”, infatti, con la sua luce per la poetessa è fonte di ogni
valore vitale e umano: fortezza, gentilezza, gioia, affetti imperituri,
rinnovamento ad ogni svolta della vita. Tra luci ed ombre, con l’aiuto
dell’immaginazione, e sforzandoci di scandagliare i meandri della memoria,
possiamo cercare di capire i vari risvolti della realtà e della vita. Infatti,
secondo Adriana Gloria Marigo nel gruppo di sette poesie ancora
inedite, non è facile neppure cogliere il significato delle parole e delle
frasi: bisogna spesso osservare le movenze degli sguardi per interpretare e
capire l’esistenza delle persone; è necessario ricorrere alla fantasia e
all’intuito per percepire il mistero dei movimenti del sole e della luna e per
trovare una spiegazione al crescere e al morire degli alberi, per cogliere il
senso del differenziarsi dei fregi nei blasoni e negli stemmi dei casati e dei
raggruppamenti umani. Il rumore prodotto dallo scorrere di un fiume (nella
lirica Le fronde di un salice) o l’infrangersi delle onde sulla riva del
mare (nella lirica La spuma del mare) risvegliano nell’animo della
poetessa, Manuela Mazzola, sensazioni e immagini varie. Presso il fiume la
vicinanza di un salice frondoso evoca l’affollarsi delle vane illusioni
giovanili mentre la spuma marina, sciogliendosi, rappresenta l’evanescenza dei
sogni, che, come corpi perduti per sempre negli abissi, non avranno nessuna
possibilità di realizzarsi. Le due liriche si fondono in un’unità poetica per
l’affinità della tematica. Come la mangusta, animale carnivoro, un tiranno è
capace di stritolare un gran numero di persone. Nell’Ode alla Mangusta
Occidentale Vincenzo Moretti ricorrendo all’immaginazione ci offre la
metafora di questa micidiale bestiola per denunziare i casi di varie dittature,
quale quella cinese, che ha fatto milioni di vittime, o quella attuale operata
dal russo Putin aggressore della Georgia e dell’Ucraina. I mass-media, afferma
l’autore, tuttavia, pur mostrando ostilità, attenuano i toni per il timore
dello scoppio di conflitti atomici, anche se c’è da augurarsi che prima o poi
la mangusta volga contro “Vlad” i propri denti. Nella composizione poetica, in
verità di sapore un po’ prosastica, Adolescenza, di Giampiero Neri,
si riscontra un tuffo nella lontana adolescenza. Adesso l’autore non dà molto
spazio all’immaginazione, ma rivive lucidamente diversi risvolti di quell’età,
anche se allora una certa visione fantastica o bizzarra della vita non gli
mancava. Vengono rievocati i vari rapporti con un amico coetaneo già compagno
di scuola, con la madre e con il padre: il tutto tra un diffuso senso di
insoddisfazione e di voglia di cambiamenti. La lirica Sacrilegio, di Emanuele
Occhipinti, denunzia la malvagità di gran parte degli uomini e, portando il
discorso sul piano religioso, immagina persino che essi sarebbero anche capaci
di ricattare il Padreterno. Infatti, dopo aver martirizzato e messo a morte
Gesù Cristo, se Egli non avesse portato in cielo il proprio corpo certamente lo
avrebbero usato per escogitare ricatti a Dio al fine di ottenere introiti in
denaro. Il guadagno economico, pertanto, è considerato dall’autore il movente
più rilevante dell’ingordigia e della corruzione nell’ambito dell’umanità. In
un gruppo di sette brevi poesie (L’inesistenza della morte, Vorrei vederti tu,
Sul bordo del libro, Uno che mi somigliava, Un bel cervello, Inzuppo gli errori
fatti, Autostrade interrotte) Ernesto Ponziani dà sfogo alla propria
immaginazione. Ora c’è la speranza di non morire mai, ora l’illusione di vivere
senza essere osservato, ora lo spargere petali di ortensia al passare di una
bella donna, poi l’illusione dell’incontro con una persona che gli somiglia
perfettamente, poi ancora il desiderio di un’intelligenza superiore, quindi la
rassegna degli errori commessi, infine la considerazione che parte dalle unghie
maltenute. Enzo Rega ripercorre le riflessioni di Jean-Paul Sartre
sull’immaginario, un tema che ha affascinato il filosofo francese fin dai suoi
primi passi nella filosofia: ben due opere si susseguono negli anni che
precedono l’uscita del suo capolavoro, L’essere e il nulla. Non stupisce
questa precoce attenzione di Sartre per l’immaginario se si considera che ha
accompagnato la riflessione filosofica con la scrittura di romanzi e drammi e
con l’analisi della musica. Rega concentra la breve nota proprio sul rapporto
che Sartre individua tra arte e immaginazione, considerando l’opera d’arte non
una mera realizzazione dell’immagine mentale dell’artista: anzi,
l’oggetto dell’arte, come tout court quello dell’immaginazione è un
oggetto irreale che sì, si serve della realtà materiale per oggettivarsi,
ma trascendendo il reale stesso.
Con tutta una serie di figure allusive Davide Riccio espone la condizione dell’esistenza umana, soprattutto nella composizione poetica Cascame. C’è, innanzitutto, l’ingresso nella storia fra trasformazioni e metamorfosi, tra speranze e delusioni, in un alternarsi di ferite paragonate alle punture dei tafani e la fede nella sopravvivenza dell’anima dopo aver lasciato il corpo. L’altra lirica, Pareidolie, pur nella conferma delle varie traversie esistenziali, rivela l’accettazione della vita così com’è. L’espressione è allusiva e metaforica. Al di là del semplice significato che a prima vista esprimono, le parole spesso rivelano concetti ben più profondi e inaspettati. Nella Magia dell’immaginazione Paolo Ruffilli mette in rilievo che ciò può avvenire grazie alla sonorità e alla varietà delle sfumature che i vocaboli possono assumere nell’ambito del discorso scritto o parlato tra pause, silenzi, allusioni, che costituiscono il lievito dell’immaginazione in chi legge o ascolta. Emerge, così, la vera natura delle parole, che vengono qualificate come “assetate di libertà”. Eugenia, probabilmente vittima quindicenne di un assassino di cui non si conosce il volto, dà il titolo alla composizione poetica di Laura Sagliocco. La poetessa si sofferma sui tratti della ragazza a cominciare dall’infanzia, magari aiutandosi con l’immaginazione: gioie semplici, spontanee, il flusso dei capelli e le movenze delle labbra carichi di eleganza e di fascino; tutti elementi che denotavano un’alta spiritualità protesa verso valori celesti. Quelle di Eugenia erano qualità che rappresentavano il meglio della natura, e la poetessa si augura che i suoi versi ne proteggano il fulgore. Antonio Spagnuolo nella composizione poetica divisa in quattro titoli (Richiami, Misteriosa, Candore, Storia), evoca la compagna della propria vita tra silenzi, tremiti, paure e ricordi. Il poeta riflette sul mistero del silenzio eterno che caratterizza la morte, sulle promesse della giovinezza, sui momenti incantevoli trascorsi sotto il chiaro di luna, sul rinnovarsi dei rapporti amorosi, tra carezze occasionali, anche nell’avvicinarsi della vecchiaia. Ora, conclude il poeta, non mi rimangono che rari ed evanescenti desideri passionali. Le tre liriche di Imperia Tognacci (Germogliano sogni, Nel respiro della notte, Verso la sconosciuta riva) ci accompagnano attraverso il nascere della vita e lo scorrere del tempo. Con la nascita “si apre la porta del tempo”, lungo il quale se ci guardiamo allo specchio osserviamo come mutano via via le fattezze del nostro viso. Le singole vite sono come delle piccole luci che si accendono nel buio profondo, dove si muovono innumerevoli galassie e “rosari di stelle”. Nell’ambito di questa immensità si verificano misteriosamente “amori, trionfi e sconfitte”. Cesare Vergati nella composizione D’inavventura secondo natura ci propone tre pagine di parole in libertà, senza punteggiatura e senza concordanze, in assenza di nessi sintattici e grammaticali; insomma, un gioco di immaginazione, che affida alla fantasia del lettore più che al suo gusto personale. Anche sul piano logico tutto sembra affidato al caso e alla successione di espressioni e vocaboli, talvolta di originale invenzione (a cominciare dal titolo), che fanno pensare a un puro divertimento, anche se dal sottofondo è possibile captare una profonda preoccupazione esistenziale. Il tutto sembra voler riprodurre il disordine che misteriosamente esiste nella natura, cui già sembra alludere il titolo.
Per Matteo Veronesi, l’immaginario risiede in sé stessi, plotinianamente
si diventa visione in un gioco ossimorico: “accesa cecità, tenebra ardente”. È
appunto una visione cieca, persa nel nulla: “Nulla intorno ha più senso – /
spettro ogni corpo, larva / ogni moto di vita”. Ogni vita sembra ripetersi in
un eterno ritorno dell’identico, come in un cerchio senza uscita, in
un’ontogenesi che non è che mera e stanca ripetizione della filogenesi: “Perché
se non per ripetere l’orma con l’orma – / eco / il passo al passo che precede e
segue – / cammino senza tempo, prigioniero e danzante / che se stesso ripete,
nel suo cieco cerchio…”. Alla fine non sembra esservi un immaginario, un
altrove. È disponibile a far rotta verso l’immaginario Giuseppe Vetromile anche
se il viaggio sarà difficile e poche le luci a indicare la rotta. Entusiasmo e
amara consapevolezza sembrano alternarsi nello sguardo del viaggiatore: “E
intanto cerco luce / cerco la fiamma della vita / quella che lasciai sfinire
dentro le zolle / in una notte d’apocalisse”. Agli interminati spazi
dell’infinito fa da contraltare l’immagine di un anonimo e quotidiano
condominio, uno di quelli che spesso abbiamo visto comparire nella sua poesia.
Ma qui è abbandonato in una terra livida e buia che ci ricorda il mondo
popolato di macerie nel quale viviamo. Ma non tutto sembra perduto: “vedo lo
zampillare di un’antica vita / quella che fluiva nelle mie vene / prima di
quest’addobbo finto / che è la mia pelle // viaggerò di notte / dissetandomi
alla fonte del perdono”.
La Redazione
Unicuique suum: i testi che vanno da Affinito a Di Legge sono stati commentati da Carlo Di Lieto. Quelli da Di Mineo a Dzieduszycka da Fabio Dainotti. Quelli da Fagnano a Manitta e quelli di Veronesi e Vetromile sono stati commentati da Enzo Rega, che ha redatto anche la parte generale della premessa. Da Marcheggiani a Vergati sono stati commentati da Emanuele Occhipinti.
L’originalità di questa silloge poetica sta nell’aver riportato alla luce quello che più intrinsecamente appartiene al cuore umano: la capacità del sogno per nulla estraniata dalla realtà. In tal modo la poesia assume un ruolo di sfida: innanzitutto col tempo, ricollocandosi al di là e al di sopra della pura materialità, e in secondo luogo con il sentimento, divenendo ipso facto non solo pensiero astratto bensì luogo di verità e realismo. Ecco allora che il lettore si sente rapire l'anima, si solleva, verso orizzonti di pura fantasia, vivendo e respirando, in una specie di evasione mistica. “Come un canto ai piedi del sogno / tra le inquiete ombre della sera / Nel catturare di fantasia la giovinezza / divoravo con le parole le vicende arcaiche dell’epos”. L’opera di Rosanna Cracco sembra quasi divisa in due parti: le liriche e le spiegazioni. Ma non dobbiamo farci ingannare. L’una e l’altra hanno un’intima correlazione e non si capirebbe la lirica senza le annotazioni così come le annotazioni non avrebbero senso in mancanza delle poesie. Il “ritorno alle origini” allora vuol essere un percorso tutto teso al recupero della universalità dell’esperienza umana, in un erlebnis poetico che compie il suo passaggio alla ricerca del sé e del hic et nunc. “Oggi, libera dalla paura, / sono donna che innova / il fuoco della vita / Pianto un seme e attendo / che germogli Demetra / nello strato primitivo / della Grande Madre Terra”. È così che la poesia dà vita al mito, risveglia l’immaginazione, ricrea eroi ed eroine, ci affascina con storie egregie e coinvolgenti. I dolori, le gioie, le speranze, le difficoltà di ogni giorno si trasformano nella parola poetica e parallelamente si ricollegano a leggende che ormai fanno parte della nostra cultura. “Come Thalassa la feconda / divinità primordiale del mare / incolpo i venti di tradimento / per lo sconforto del naufragio”. “Quel dolore taciuto / fisso sulla mia gioventù / implorava la vita”. Nelle liriche della Cracco, quindi, mito e realtà si abbracciano, creano un ponte tra ciò che è stato e ciò che è. E giustamente nella prefazione il critico Sandro Gros Pietro ci fa notare come il tema centrale della silloge sia la bellezza. Ma attenzione: “il marchio di fabbrica della bellezza è la donna.” “Un mirare congiunto di sensi e pensieri / come lo sguardo assorto di fronte / alla Primavera del Botticelli / Venere e Flora divino fiorire, / le Grazie in girotondo, / vesti fiorite di api e colori di seta / in cui versare il nettare dei pensieri” (…) “Beata la bellezza che attraversa i secoli: / un gesto sacro ricongiungerla / alla salvezza del mondo”. Non per nulla buona parte dei miti che la Poetessa suggerisce appartengono al mondo femminile: da Demetra a Venere a Leda a Penelope. Certo non mancano miti riferiti al maschile, tuttavia prevalgono le immagini di donne, protagoniste e non solo nelle leggende, bensì nella vita reale. Perché, comunque, è la vita che va analizzata e decostruita, attraverso l’esperienza del reale e la conoscenza del mito. Davanti al lettore, quindi, si svolge la realtà, e la poetessa si addentra nell’osservazione, la indaga in rapporto ai miti del passato ed in rapporto alla propria personale esperienza, in una specie di husserliana epochè, in una riflessione sospesa in attesa di qualcosa che verrà. Un miracolo, forse. O la conoscenza, visto che come Ulisse si è optato per il folle volo. “Stregata dalla follia del viaggio /fino alla fine del nutrimento / inseguo, creatura ibrida, /l’ombelico del mondo / prima dell’ultimo inganno / Prima di altra silenziosa / definitiva partenza”. Aristotile sosteneva che la poesia fosse il frutto dello stupore e della meraviglia. Per questo è importante non dimenticarne la magia. Sebbene al giorno d’oggi siamo distratti da altro e la meraviglia e lo stupore li abbandoniamo ai bambini, questo ritorno alle origini ci suggerisce di non dimenticare la vera realtà. Per riuscire in ciò un’importanza enorme assume l’amore. Un altro tema caro ai poeti. L’amore che trasforma, l’amore che si fa desiderio, l’amore che avvince e convince. “Come una Penelope capovolta / nella notte intreccio ciò / che al giorno sciolgo davanti al mare” e ancora “Solo ora, sacerdote del tempo, / contemplo l’amore / come perenne creazione / Solo ora comprendo / quello sfiorare d’assoluto / anche se biga alata l’amore / con l’auriga che non ne governa / sogni e desideri, / troppo si avvicina al sole”. Da ultimo, ma non ultimo, è interessante il dialogo che la poetessa incontra con il Tempo. Se oggi siamo immersi in una società che Zygmunt Bauman definisce liquida, non possiamo non soffermarci sulla natura immanente della temporalità del nostro esistere. Non possiamo sfuggire al tempo che ci lega e sovrasta, che ci seduce e ammalia, che ci stringe nella morsa della morte. “Solo ora mi par di toccare / lo spazio sacro del tempo / un presente interiore, reversibile / che al futuro si consegna / rivestito di umana comprensione”. “Ora che urla la sete del tempo / Thanatos ‘cuore di ghiaccio / e budella di bronzo’, avanza arrogante / e contende ad Eros il suo arrivo.” Ecco il rinnovo della dualità Amore/Morte, un legame di angosce e disperazione appena sopito da un senso religioso non del tutto compreso razionalmente, ma solo attraverso l’accettazione della fede. “Dio, i preti, i padroni vivono / per fregare la povera gente” “Ma no, la fede non è un crampo / Dio è mio amico e mi spiega la vita: /Lui sa ascoltarmi / Padrona del tempo, / non ho bisogno d’altro”. In questo contesto la poesia sfida il tempo, oltrepassa i confini del pensiero, rapisce l'anima e la solleva verso orizzonti diversi, con parole che intrecciano storie antiche e vicende contemporanee di vita quotidiana, di amori persi, di persone care scomparse e speranze di nuove felicità. In tal modo, tra mito e realtà, la poesia vive e respira, concedendo forse un'evasione sospesa in un attimo di serenità.
Enea Biumi
Questo poemetto di Gianfranco Galante ha il sapore dei ricordi dell’infanzia. Tutte le estati l’autore ritornava ai luoghi natii, attraversando da nord a sud l’Italia, in un viaggio complicato ma allo stesso tempo leggero. Complicato perché i treni in quei tempi non procedevano a 300 all’ora come avviene oggi, e leggero perché c’era la speranza di un incontro con gli amati nonni.
E in quel tragitto ne avvenivano di cose! Si
presentavano, infatti, mano a mano sul treno tanti e tali personaggi di varia
natura che, a ben osservarli, partorivano graziosi e simpatici aneddoti.
Il libro è scorrevole come il viaggio che viene
raccontato e descritto, colmo di emozioni
ed episodi unici nel loro genere. Si tratta in fondo di una specie di reisebilder
che narra l’ansia dell’arrivo e l’appagamento di un ritorno felice. Naturalmente
il percorso non è totalmente privo di piccole traversie che rivelano l’amore
per la terra che lo ha visto nascere e crescere in quel turbinio di esistenza
fanciullesca ed adolescenziale.
Si rimembrano luoghi, profumi, rumori, umori, sentimenti, sguardi
e aspettative raccolti in versi teneri e gioiosi nell’attesa di incontri con vecchi
amici e nella speranza di nuove e intense emozioni.
A volte il linguaggio è forse un po’ troppo aulico, o per meglio dire poco attuale e meno vicino alla parlata comune, ma si tratta comunque di una peculiarità di Galante, già nota in altre poesie, e che non stona affatto nel complesso dell’opera, anzi la vivacizza, così come è vivace il ritmo impresso, pagina dopo pagina.
I versi, in tal modo arieggiati, appaiono,
alla fine, la metafora del viaggio, nonché di un ritorno all’infanzia
spensierata e felice di un tempo ormai passato e che si vorrebbe recuperare,
per lo meno nella memoria.
Enea Biumi
I
poeti e gli scrittori qui rappresentati sono colti nei loro passaggi più
squisitamente indicativi in concomitanza con gli avvenimenti della loro vita.
Buffoni indaga lo spirito, talvolta inespresso, che ha indotto alcuni letterati
ad assumere determinati atteggiamenti e precise prese di posizione. Non per
nulla l’Editore nella Prefazione parla di poetica. Una poetica certo che
si concretizza nella vita degli autori stessi, una poetica rivisitata tramite
gli scrittori rappresentati, una poetica sicuramente specchio e riflesso di
quella di Franco Buffoni.
Si
tratta di una importante operazione culturale che l’autore ci offre in maniera
piana, spesso ironica, a volte sarcastica, in una ripresa di storiche invettive
e distopie (o cacotopie) che vanno ad aggiungersi alle informazioni che, a
livello scolastico, già sono presenti nel lettore medio. È un approfondimento
necessario, e direi dovuto, per meglio comprendere il mondo della letteratura
sviluppatosi in occidente e allo stesso tempo è un ritratto dell’uomo che con
la sua malvagia ignoranza uccide l’arte o la deturpa in nome di arcaiche e
inconsce sottomissioni a fedi, religioni, superstizioni e gestioni
scandalosamente incompetenti. La storia, ci rivela Buffoni, abbonda di tutto
ciò. Numerose sono le ingiustizie dovute a classificazioni razziste, misogine e
omofobe degenerate in roghi, carcerazioni, deportazioni, a causa di pregiudizi
sociali, religiosi, politici. Il primo capitolo (Su Dante, Cecco, Marsilio.
E Lorenzo) ne è una testimonianza esplicita.
Cecco
d’Ascoli, ovvero Francesco Stabili, arso vivo nel 1327 a Firenze per le sue
opere, aveva osato criticare, o lanciare invettive - per stare al titolo del
libro - contro Dante, reo di non aver usato la Ragione, bensì la pietas.
La diatriba nata nel lontano Medioevo permette a Buffoni di parlare dell’oggi,
e di quel clima culturale che ha imposto nelle scuole ideologicamente Dante e
Manzoni generando “Padre Pio nel portafoglio e il Gratta e vinci in mano”.
Mi
permetto, a questo punto, (non me ne voglia l’autore) una mia personale
esperienza nel mondo scolastico, avendo io stesso assistito ad uno svenimento
culturale – simbolico naturalmente – di un Preside quando, da insegnante di
italiano alle Superiori, ho osato proporre l’abbandono dei Promessi sposi
sostituendolo con Il nome della rosa.
Ecco
la distopia, già rilevata da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis
in cui insegnava “che la codificazione delle religioni rivelate, con i loro
dogmi, era strumentale alla necessità di controllare, attraverso le coscienze,
i comportamenti da mettere in atto nella vita civile, tenendo menti e coscienze
in soggezione”.
Mi
sovvengono, a tal proposito, madonne pellegrine e politici col rosario
in mano. Ma rimaniamo nel contesto del libro e ai vari esempi che l’autore
imposta sul binario delle invettive e delle distopie.
Riconducendosi
storicamente al significato etimologico di distopia, Buffoni richiama John
Stuart Mill, che usò questo termine al parlamento di Westimster, e ricorda
Tommaso Moro che aveva coniato il vocabolo utopia (in nessun luogo ovvero
luogo inesistente). L’accenno gli serve per spiegare quale sia il “tratto
distintivo profondo tra una narrazione utopica
e una narrazione distopica” che consiste principalmente, per quanto
riguarda il testo utopico, in una forma saggistica dispiegantesi “su un
amplissimo arco cronologico (appunto dalla Repubblica di Platone a Thomas More,
Campanella, Bacone)”, mentre quello distopico “tende ad essere
narrativo, pure fiction, ed è concentrato nell’Ottocento-Novecento, post
rivoluzione industriale fino ai totalitarismi e alle scoperte scientifiche
lette in chiave disumanizzante e fantascientifica”.
Ogni
capitolo di questo saggio è un alternarsi tra elementi che fungono da invettiva
e tratti di conclamata distopia.
Interessante,
a questo proposito, è sicuramente il raffronto tra Parini e a Leopardi. Il trait
d’union che li lega è una talare. Sappiamo tutti il perché della vocazione
sacerdotale dell’aio lombardo e il rifiuto categorico del buon Giacomino di
farsi prete disubbidendo alla volontà paterna. La talare diventa così il
pretesto per raccontare la Milano aristocratica settecentesca e la sua originale
e sontuosa architettura, come quella del Palazzo Castiglioni, o di casa Rasini
e di casa Fontana Silvestri. Nello stesso tempo la talare induce l’autore a
soffermarsi sugli amori tra Leopardi e Ranieri, nonché sulla viltà di
quest’ultimo che finge di non sapere “la ragione per cui Leopardi cercava
uomini giovani e scugnizzi che poi compensava con avarissime mance.”
Non
mancano, tra l’altro, approfondimenti di autori stranieri tra i quali possiamo
annoverare Ada Augusta Lovelace, figlia di Byron, la cui scrittura, afferma
Buffoni, è dotata di una “brillantezza di stile: accattivante, acuto,
intelligente.” La presentazione della figura di Ada Augusta Lovelace dà
occasione all’autore di raccontare la particolare passione di Byron verso
ragazzi e giovani uomini, passione, si direbbe oggi liaison gay, velata
da un matrimonio di convenienza. Per questo i Journals, in cui Byron raccontava
senza reticenza la sua vita privata, vennero distrutti. “Il risultato” –
commenta Buffoni – “fu un vero e proprio crimine commesso nei confronti
della letteratura”.
Tuttavia
le invettive non riguardano solo il mondo letterario. O meglio, analizzare il
mondo letterario non significa isolarlo in una campana di vetro. Il letterato,
l’artista, il poeta vivono in tempi e luoghi ben precisi entro i quali si battono
e dibattono. Ecco allora che la scrittrice Mary Ann Evans è costretta, a causa
di un’imperante misoginia, ad assumere uno pseudonimo maschile: George Eliot.
La sua opera fu anche una battaglia contro la ristrettezza morale e l’ipocrisia
della nobiltà agricola inglese. Dopo la sua morte il movimento di emancipazione
femminile si rafforzò fino a sfociare nel 1897 nel National Union of Women’s
Suffrage. Si tratta di una interessante annotazione storica che ci
riconduce alla nascita delle cosiddette suffragette.
La
storia, questa volta italiana, ritorna tra le pagine del libro con i poeti Elizabeth
Barret Browning e Robert Browning, giunti in Toscana dalla nebbiosa Albione. Viene
descritta la passione di Elizabeth per la libertà e conseguentemente la sua
adozione delle problematiche risorgimentali italiane (dalla guerra
d’indipendenza, alla morte di Anita Garibaldi e del Conte Camillo Benso di
Cavour). Rilevante è pure l’annotazione riguardante il suo amore verso il
marito, a dispetto di un padre arcigno ed egoista: “un amore totale,
concreto assoluto, per il giovane marito, con l’espressione della più pura
astrazione romantica”.
Come
si nota facilmente lo sguardo che Buffoni rivolge ai poeti non è mai a se
stante, distolto cioè da problematiche apparentemente lontane dalla
letteratura. La vita letteraria è indissolubilmente intrecciata con la realtà,
che l’autore indaga ed analizza utilizzando anche alcuni momenti personali da
lui dedicati a conferenze, interviste, amicizie.
Nel
capitolo consacrato al confronto tra Ibsen e Osborne, ad esempio, dove si narra
di un incontro tenuto con i maturandi gallaratesi, ci viene offerto uno
spaccato della società italiana che solo nel 1975 ha raggiunto la parità tra
uomo e donna, ancora purtroppo non completamente accettata visto i numerosi
femminicidi che si susseguono a regolarità impressionante. Mi sovviene a tal
proposito l’amore tra Coppi e la Dama bianca, l’uno tranquillamente libero e
applaudito, l’altra reclusa e dileggiata al pari di una prostituta.
Naturalmente
la conoscenza che l’autore ha della letteratura anglosassone e nord europea,
nonché la sua attiva presenza nel mondo della traduzione, lo conduce ad un
ampio panorama di nomi: fra questi possiamo ricordare Virginia Woolf, Osborne,
Ibsen, Yeats, Forster, Seamus Heaney, Pound, tra i più rappresentativi. E in
questa rassegna diventa notevole il lavoro riguardante la collocazione storico
geografica degli stessi. Degna di nota, in questa prospettiva, è la ricostruzione
dell’iter faticoso e tortuoso che si è avuto nell’Inghilterra, dal settecento ad
oggi, a proposito delle leggi sull’omosessualità (definita primariamente con
grande dispregio sodomia).
Nello
stesso tempo Buffoni non dimentica gli artisti italiani che hanno contribuito a
sprovincializzare la nostra letteratura. Fra i loro nomi non possiamo
dimenticare Fernanda Pivano, Pasolini, De Mauro. E accanto a questi personaggi noti,
l’autore registra poeti dimenticati o misconosciuti, come il palermitano Lucio
Piccolo, cugino del più famoso Tomasi di Lampedusa. A lui, e ad altri poeti
suoi conterranei, come Sinisgalli, Bodini, Matacotta, Lorenzo Calogero, mancò
un critico, sottolinea Buffoni, come l’Anceschi che “li catalogasse e
antologizzasse già negli anni cinquanta”, vale a dire “un accorto
sistematizzatore, un filosofo dell’estetica in grado di definirli”. Tra
loro Piccolo fu il più fortunato perché incontrò l’ammirazione di Montale, “ma
gli altri sono rimasti quasi sistematicamente nell’ombra”.
Molto
avvincenti sono le pagine in cui l’autore si espone maggiormente come persona
più che come studioso letterato. Mi riferisco in particolare al capitolo “Sereni
e mio padre” che parte subito da una confessione: “in lui (in
Sereni) vedo mio padre.” Forse per questo il poeta di Luino è stato per
Buffoni un maestro, colui che ha inciso maggiormente il suo percorso poetico. E
ancora una volta l’opera poetica non viene scissa dalla vita. Sereni, tenente
di fanteria, che si trova ad affrontare una guerra sbagliata dalla parte
sbagliata, fatto prigioniero in Nord Africa, racconta in versi il dramma di un
uomo a disagio col proprio tempo, umiliato e distrutto. Non si tratta solo di
una recensione all’opera del poeta luinese, bensì di una dichiarazione d’amore
e di stima, così come deve essere il rapporto fra padre e figlio: un
riconoscimento dovuto, un omaggio agli insegnamenti ricevuti.
Un
altro aspetto sicuramente importante è il pensiero di Buffoni a proposito del
tradurre. La traduzione, d’accordo, fa parte della sua professionalità, ma sono
sicuramente da non trascurare al riguardo le tante annotazioni sistematiche che
disvelano la puntigliosità e la fatica del suo operare. Ci sono capitoli
considerevoli che riportano pareri e confronti, come ad esempio le pagine che
parlano di Luciano Bianciardi dove viene sottolineato che “per tradurre da
una ex lingua di Chaucer e di Shakespeare nella ex lingua di Petrarca e Tasso
(…) occorrono l’incontro poietico e la concezione del movimento della lingua
nel tempo; e soprattutto occorre avere costantemente presente il concetto di
stratificazione del linguaggio.” Naturalmente il riferimento a Bianciardi è
un momento tra i tanti in cui l’autore esprime il proprio parere e la propria
poetica. Non posso in questa sintesi riportare tutto, ma una segnalazione su
due punti altrettanto necessari mi è d’obbligo. Uno è il richiamo al pensiero
di Céline, sempre riguardante la traduzione, l’altro ad una personale
riflessione sulla propria “ritraduzione” di Seamus Heaney con
l’avvertenza finale che chiosa: “L’importante è che – complessivamente – la
traduzione che in quel particolare giorno si è compiuta sia coerente, risponda
a un ritmo autentico, possegga una intonazione profonda.”
Quanto
specificato corrisponde pienamente anche alla poetica di Buffoni che trova
ampie spiegazioni nel capitolo “Pasolini e Byron: questioni di poetica”
nonché in “Piero Chiara: per una questione di poetica” dove ricompare la
figura di Anceschi, che con la collaborazione di Chiara ed Erba mette in piedi
una Antologia “Quarta generazione” riguardante giovani poeti di allora quali,
tra gli altri, Zanzotto, Spaziani, Cattafi, Merini. In queste pagine si
registra – almeno io la sento così, e mi scuso se interpreto male – una sottile
polemica da parte dell’autore nei confronti di Piero Chiara che pare avere una
certa “commiserazione” per i poeti contemporanei, perché in sostanza le
attenzioni del romanziere di Luino erano tutte rivolte alla narrativa e non tanto
alla poesia. Ciò è dimostrato dal fatto che lo scrittore del Piatto piange, quando
fu invitato a presiedere il Premio Tirinnanzi privilegiò l’anonimato e la
singola poesia, piuttosto che la silloge con nome e cognome. Aveva abbandonato
in tal modo le indicazioni del dedicatario del futuro premio, che prevedevano
invece una scelta tra i migliori libri di poesia editi nell’annata,
contraddicendo pure la poetica anceschiana che affermava che un poeta doveva
essere valutato nel suo complesso e non su una singola poesia.
In
definitiva, le tante pagine, che non ho ricordato per motivi di spazio, le
tante osservazioni, i tanti modelli critici di poeti, romanzieri, saggisti, i
tanti avvenimenti citati e presenti in Invettive e distopie aprono un
mondo e un modo di fare letteratura che possiede potenzialità da non
sottovalutare. Si tratta, in sostanza, di un’amplissima gamma con cui
confrontarsi e da confrontare in un fondamentale passaggio storico-culturale,
tutto da assaporare e rimeditare in continuazione per un arricchimento dello
spirito, laicamente inteso.
Enea
Biumi
Il profilo del Rosa è un viaggio nel tempo, un reisebilder a ritroso, in cui l’autore rievoca luoghi e situazioni del suo vissuto, senza però abbandonarsi a sterili ed inutili sentimentalismi. Anzi. I versi non sono altro che un racconto introspettivo della propria esperienza di crescita e di maturità. Nulla di nostalgico. Niente rimpianti. Nessuna lamentela sul passato. Solo un percorso che richiama luoghi frequentati e particolari situazioni.
E
io che vivo da ottant’anni quasi
È
stata vita dico alzando le braccia,
Sotto
di me e sotto la mia barca
Le
trote oscillano guizzano tra i cardi
Discendono
allo scafo azzurro capovolto,
Verso
già capofitto il mio contrario
A
due tre metri.
Premesso ciò, è
chiaro che la silloge diventa un’interessante fotografia entro la quale il
poeta si riflette e si rivede, bambino, adolescente, adulto attraverso anfratti
di paesaggi, dettagli domestici, echi letterari. Di per sé è una panoramica di
vita che sancisce le caratteristiche di un esame e che ripropone, in chiave
poetica, un mondo che sta a metà tra l’immagine della grandezza della natura –
evidente in questo caso la metafora del Rosa – e l’esistenza quotidiana
dominata da oggetti che ricorrendosi e rincorrendosi nel tempo assumono
connotati differenti. I versi inziali
offrono l’incipit di quello che avverrà poi.
Una radice ha
rotto il vaso
Nell’atrio della
casa riaperta
La pianta è sempre
stata bagnata
Dal vetro rotto
dal vento.
Nel ritornare
all’antica abitazione il poeta scopre che qualcosa si è rotto (il participio
del verbo rompere è presente due volte in soli quattro versi), ma non
completamente, perché la pianta è sempre stata bagnata, quindi la vita
nonostante le intemperie è potuta proseguire, sia pure con affanno.
Il viaggio, si sa,
(reale o fittizio che sia) è un topos letterario (dall’Ulisse di Omero
alla strada di Kerouac) e ha l’attrattiva di una crescita e di una presa di
coscienza mano a mano che si avanza e in relazione con chi si incontra e con
chi ci si confronta.
Nelle religioni
misteriche antiche si otteneva salvezza, e quindi consapevolezza, dopo aver
percorso le vie più impervie e pericolose cha annullavano la personalità del
neofita. Era necessario conoscere il male per poi rinascere nel bene. Ne
abbiamo un esempio significativo nella Commedia di Dante, o ancora nella più
divertente novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia che per capire la
realtà deve prima cadere dal chiassetto per poi precipitare nel pozzo e
rimanere chiuso in un sepolcro.
Ma dove sta il
male in questo profilo del Rosa che apparentemente non ha nulla a che
spartire con le cadute e l’annientamento di se stessi prima di una definitiva
risurrezione? Bisogna leggere questi versi come un incatenarsi di tanti
rimandi, una serie di metonimie o metafore che collegano il luogo al
sentimento. Se Montale utilizzava il correlativo oggettivo per spiegare (o
meglio per tentare di spiegare) il male di vivere, Buffoni impiega
parametri di implicita diairesi.
Me ne
nutro, ci sguazzo in questa faccia
Ancora
da ragazzo che mi vedono, e agglutino
Nel
sacco insieme a un cane e a un gallo,
Senza
vipera e serpente.
Non
ho ucciso niente.
Certo è che il
viaggio non è lineare o senza ostacoli. Non lo fu quello di Odisseo né quello
di Sal Paradise. Ma non di meno gli ostacoli che si frappongono contribuiscono
a sviluppare una presa d’atto: rinsaldano radici, rafforzano la consapevolezza
dell’io, l’immagine del sé nei confronti dell’altro.
E
comincio a riconoscere stagioni
Dalle
vene dei mobili, i rumori
Che
fanno assestandosi di notte
La
temperatura delle ossa
Questione
di coperte e di verande.
Si tratta in
sostanza di un Bildungsroman in versi, che si snoda attraverso rivelazioni sapientemente
correlate ad avvenimenti quotidiani che diventano ipso facto testimoni
del vissuto del poeta. Sembra un incontro con un armonicista in grado di
accordare strumenti diversi per intonarli all’unisono in uno spettacolare
assolo esemplare.
La sinfonia che ne
sorte ha l’andamento simile al poema musicale Eine Alpensifonie di
Richard Straus: un inizio quasi in sordina che si avvia poco a poco, e senza
che noi ce ne accorgiamo, ad esaltarci con la sua potenza e maestosità. La
maestosità delle Alpi, per l’appunto – o del Rosa nel nostro caso – e in
generale della natura.
Il desiderio di
orchestrare i ricordi diventa allora come un polittico che si apre e si chiude
a seconda delle occasioni e che fa intravedere alcune specificità, disvelando
chiari e scuri, che racchiudono ricchezze da esplorare o commentare.
Come
un polittico che si apre
E
dentro c’è la storia
Ma
si apre ogni tanto
Solo
nelle occasioni,
Fuori
invece è monocromo
Grigio
per tutti i giorni,
(…)
In
definitiva il polittico assume il valore della metafora della vita: una sorta
di finestra donde guardare avvenimenti e persone, ed esplicitare sentimenti,
desideri, angosce, dubbi, storicizzando come in un diario intimo i momenti
salienti che ci hanno permesso di crescere e maturare.
Enea Biumi
La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...