mercoledì 11 ottobre 2023

Rosanna Cracco, Ritorno alle origini: tra mito e realtà, Genesi Editrice, Torino, 2023

 

 

L’originalità di questa silloge poetica sta nell’aver riportato alla luce quello che più intrinsecamente appartiene al cuore umano: la capacità del sogno per nulla estraniata dalla realtà. In tal modo la poesia assume un ruolo di sfida: innanzitutto col tempo, ricollocandosi al di là e al di sopra della pura materialità, e in secondo luogo con il sentimento, divenendo ipso facto non solo pensiero astratto bensì luogo di verità e realismo. Ecco allora che il lettore si sente rapire l'anima, si solleva, verso orizzonti di pura fantasia, vivendo e respirando, in una specie di evasione mistica. “Come un canto ai piedi del sogno / tra le inquiete ombre della sera / Nel catturare di fantasia la giovinezza / divoravo con le parole le vicende arcaiche dell’epos”. L’opera di Rosanna Cracco sembra quasi divisa in due parti: le liriche e le spiegazioni. Ma non dobbiamo farci ingannare. L’una e l’altra hanno un’intima correlazione e non si capirebbe la lirica senza le annotazioni così come le annotazioni non avrebbero senso in mancanza delle poesie. Il “ritorno alle origini” allora vuol essere un percorso tutto teso al recupero della universalità dell’esperienza umana, in un erlebnis poetico che compie il suo passaggio alla ricerca del sé e del hic et nunc. “Oggi, libera dalla paura, / sono donna che innova / il fuoco della vita / Pianto un seme e attendo / che germogli Demetra / nello strato primitivo / della Grande Madre Terra”. È così che la poesia dà vita al mito, risveglia l’immaginazione, ricrea eroi ed eroine, ci affascina con storie egregie e coinvolgenti. I dolori, le gioie, le speranze, le difficoltà di ogni giorno si trasformano nella parola poetica e parallelamente si ricollegano a leggende che ormai fanno parte della nostra cultura. “Come Thalassa la feconda / divinità primordiale del mare / incolpo i venti di tradimento / per lo sconforto del naufragio”. “Quel dolore taciuto / fisso sulla mia gioventù / implorava la vita”. Nelle liriche della Cracco, quindi, mito e realtà si abbracciano, creano un ponte tra ciò che è stato e ciò che è. E giustamente nella prefazione il critico Sandro Gros Pietro ci fa notare come il tema centrale della silloge sia la bellezza. Ma attenzione: “il marchio di fabbrica della bellezza è la donna.” “Un mirare congiunto di sensi e pensieri / come lo sguardo assorto di fronte / alla Primavera del Botticelli / Venere e Flora divino fiorire, / le Grazie in girotondo, / vesti fiorite di api e colori di seta / in cui versare il nettare dei pensieri” (…) “Beata la bellezza che attraversa i secoli: / un gesto sacro ricongiungerla / alla salvezza del mondo”. Non per nulla buona parte dei miti che la Poetessa suggerisce appartengono al mondo femminile: da Demetra a Venere a Leda a Penelope. Certo non mancano miti riferiti al maschile, tuttavia prevalgono le immagini di donne, protagoniste e non solo nelle leggende, bensì nella vita reale. Perché, comunque, è la vita che va analizzata e decostruita, attraverso l’esperienza del reale e la conoscenza del mito. Davanti al lettore, quindi, si svolge la realtà, e la poetessa si addentra nell’osservazione, la indaga in rapporto ai miti del passato ed in rapporto alla propria personale esperienza, in una specie di husserliana epochè, in una riflessione sospesa in attesa di qualcosa che verrà. Un miracolo, forse. O la conoscenza, visto che come Ulisse si è optato per il folle volo. “Stregata dalla follia del viaggio /fino alla fine del nutrimento / inseguo, creatura ibrida, /l’ombelico del mondo / prima dell’ultimo inganno / Prima di altra silenziosa / definitiva partenza”. Aristotile sosteneva che la poesia fosse il frutto dello stupore e della meraviglia. Per questo è importante non dimenticarne la magia. Sebbene al giorno d’oggi siamo distratti da altro e la meraviglia e lo stupore li abbandoniamo ai bambini, questo ritorno alle origini ci suggerisce di non dimenticare la vera realtà. Per riuscire in ciò un’importanza enorme assume l’amore. Un altro tema caro ai poeti. L’amore che trasforma, l’amore che si fa desiderio, l’amore che avvince e convince. “Come una Penelope capovolta / nella notte intreccio ciò / che al giorno sciolgo davanti al mare” e ancora “Solo ora, sacerdote del tempo, / contemplo l’amore / come perenne creazione / Solo ora comprendo / quello sfiorare d’assoluto / anche se biga alata l’amore / con l’auriga che non ne governa / sogni e desideri, / troppo si avvicina al sole”. Da ultimo, ma non ultimo, è interessante il dialogo che la poetessa incontra con il Tempo. Se oggi siamo immersi in una società che Zygmunt Bauman definisce liquida, non possiamo non soffermarci sulla natura immanente della temporalità del nostro esistere. Non possiamo sfuggire al tempo che ci lega e sovrasta, che ci seduce e ammalia, che ci stringe nella morsa della morte. “Solo ora mi par di toccare / lo spazio sacro del tempo / un presente interiore, reversibile / che al futuro si consegna / rivestito di umana comprensione”. “Ora che urla la sete del tempo / Thanatos ‘cuore di ghiaccio / e  budella di bronzo’, avanza arrogante / e contende ad Eros il suo arrivo.” Ecco il rinnovo della dualità Amore/Morte, un legame di angosce e disperazione appena sopito da un senso religioso non del tutto compreso razionalmente, ma solo attraverso l’accettazione della fede. “Dio, i preti, i padroni vivono / per fregare la povera gente” “Ma no, la fede non è un crampo / Dio è mio amico e mi spiega la vita: /Lui sa ascoltarmi / Padrona del tempo, / non ho bisogno d’altro”. In questo contesto la poesia sfida il tempo, oltrepassa i confini del pensiero, rapisce l'anima e la solleva verso orizzonti diversi, con parole che intrecciano storie antiche e vicende contemporanee di vita quotidiana, di amori persi, di persone care scomparse e speranze di nuove felicità. In tal modo, tra mito e realtà, la poesia vive e respira, concedendo forse un'evasione sospesa in un attimo di serenità.

 Enea Biumi

 

Imperia Tognacci, Nel passo del tempo (poesie 2001-2022), Genesi editrice, Torino, 2023

 



Si tratta di un’opera omnia che riassume il percorso poetico di Imperia Tognacci rivelando una capacità introspettiva prodiga di esempi, mai stanca di indagini e di infiniti perché. Ma andiamo con ordine. Perché se è vero che tra i dieci libri che qui rappresentano tutta la produzione della poetessa esiste un filo conduttore, esplicitato nel titolo dell’opera e che potremmo parafrasare “il viaggio attraverso un tempo materiale e uno spirituale”, ogni silloge costituisce un nucleo a sé che va considerato e ponderato singolarmente. La prima opera, edita da Cannarsa nel 2004, che qui viene presentata si intitola “La notte del Getsemani” in cui la Poetessa immette il suo senso religioso della vita molto affine all’eredità di Francesco. La Natura che attornia il Cristo si fa consapevole del dramma che viene rappresentato, mentre l’uomo ancora ignora la salvezza che il Signore apporterà. “Sullo stupito salire della luna / pesava il cielo. Senza vincoli / né censure, il vento discorreva / tra i campi invasi di gramigna” (…) “Negli artigli del freddo / sempre il Signore sarà // con i poveri e scorrere sentirà / nella gola i loro gemiti, / Infonderà vigore ai fuochi / che alleggeriscono la notte”. Con “Natale a Zollara”, edito da Bastogi nel 2005, invece, Imperia Tognacci si immerge nel personale, ritorna ai luoghi e alle persone a lei care. Qui la memoria si fa consapevolezza del grande mistero dell’essere rimarcando, da una parte, la sua vicinanza non solo geografica a Giovanni Pascoli e rivelando, dall’altra, la propria cultura poetica che spazia dai classici ai contemporanei. La silloge è costituita da una serie di poemetti che paiono costituire le pagine di un diario in versi. “Risalgo la corrente per un rinnovato / battesimo in nicchia di sorgente. / Ritrovarmi, cadermi dentro, / perlustrare colli, calanchi / e fondali, per rinnovare / la fedeltà a questa terra feconda”. Ed a Pascoli ritorna esplicitamente con il suo terzo libro dal titolo “Odissea pascoliana”, edito nel 2006 da Bastogi. Si tratta di un excursus poetico che rievoca vita e opere del poeta romagnolo in un’ottica del tutto originale, legata alla medesima terra ed anche, per alcuni tratti, al medesimo sentire. Le affinità tra la Tognacci e Pascoli sono ben sottolineate in una nota finale in cui viene affermata l’attenzione che la Poetessa ha nei confronti del suo, sebbene lontano nel tempo, conterraneo. “Al di là dei ritmi nuovi – dichiara l’autrice – la poesia del Pascoli non è un monumento che rappresenta l’epoca storica in cui il poeta visse. Essa continua a scorrere nel tempo, perché coglie le radici ontologiche dell’uomo. Una poesia, infine, che non registra il silenzio del nulla, bensì la voce dell’uomo in tutta la sua complessità.”  Con il quarto libro “La porta socchiusa”, edito da Bastogi nel 2007, la Poetessa ritorna al tema religioso, ma in maniera più filosofica rispetto alla “Notte del Getsemani”. In questo contesto si fanno più esplicite le tematiche escatologiche con domande apparentemente destinate a non avere risposte se non nella fede. E bene fa Mario Landolfi a sottolineare nella prefazione al volume “una costante (…) un’istintiva volontà di rapportarsi ai massimi sistemi di pensiero ricercando in essi risposte all’insensato scorrere della nostra esistenza.” Interessanti, oltre ai capitoletti che li accompagnano, sono pure gli esergo. “Infinita genesi” ha una citazione tratta dai Pensieri di Pascal; “L’arco sulle nubi” è preceduta da un motto di Camus; “Leggere la mappa” contiene dei versi di Mario Luzi da Epifania; di Novalis leggiamo una citazione dai Frammenti per il capitolo “Dall’archivio della memoria”; “Tra le sponde del tempo” riferisce il pensiero di Miguel Unamuno; “Verso l’ora nona” si rifà ai versi di Ungaretti in Cristo pensoso palpito; “Nel nulla del tutto” riprende una citazione dei Pensieri di Pascal. Se guardiamo agli autori contemplati e alle loro parole riprese dalla Poetessa notiamo la volontà di Imperia Tognacci di accompagnare il lettore in una ben precisa direzione: che è quella di una ricerca profonda della verità. Con “Il lago e il tempo”, edito nel 2010 da Genesi editrice, l’autrice prosegue quella investigazione continua e pervicace dell’esistenza attraverso parallelismi tra la propria esperienza e quella collettiva. Come se la poetessa declinasse la sua vita con quella dell’umanità. “Nel mio essere, l’eredità / dell’umano sangue racchiude / nomi inabissati nel silenzio, / cancellati da pietre e marmi / scolpiti su lapidi d’ombra”.  Il poemetto viaggia nel tempo e ha l’andamento delle onde, come quelle che adornano il lago essendo parte essenziale del suo grembo, e si infrangono erranti, e si agitano mentre il vento le spezza per poi ritornare al loro ritmo consueto. Il lago e il tempo fanno da padroni ai versi della silloge tanto che non si può non ricordare quel “lago del cuore” di montaliana memoria, e i versi del primo Canto della Commedia dantesca dove per “lago del cor” si intendeva la “secretissima camera” o, come rifletteva Boccaccio, “la parte interna del cuore” dove abitano gli spiriti vitali. Tra l’altro per questa quinta pubblicazione c’è da notare ciò che Gros Pietro già sottolineava nella prefazione: “La concezione poematica sta divenendo sempre più la poetica predominante di Imperia Tognacci”. Vale a dire l’uso preferenziale più simile all’epica (anche se di epica vera e propria non si può parlare) e cioè più espositivo ed analitico che non sintetico. Veniamo così a “Il richiamo di Orfeo”, edito da Laterza l’anno successivo. Dedicato alla memoria di suo marito, il libro richiama la funzione del poeta e del poetare. Certo non è facile né semplice essere o dichiararsi poeta. La società è altro dalla poesia. Spesso il poeta è deriso, vilipeso, incompreso. Ciò non toglie che è necessario esserci, presenziare, richiamare. “Nelle nuove, avariate corti, / polverosi di inutilità, noi corriamo / nel caso degli eventi mondani, / mentre, padrone delle strade / e dei vicoli, ulula il vento / della solitudine”. La silloge diventa quindi un inno alla poesia e al poeta, che nonostante le innumerevoli difficoltà non deve perdere la capacità di affrontare il mondo. I poeti devono continuare a cantare, sembra suggerire l’autrice, e non appendere le proprie cetre ai salici, devono combattere soprattutto in questo tempo in cui trionfa la tecnica ed assistiamo alla hegeliana morte dell’arte. “Tendi l’arco, / poeta, per scoccare la freccia / del tuo amore verso l’altra (….)” perché in fondo la poesia è una “finestra aperta sull’assoluto”. Nel 2012 ecco un nuovo libro di poesie “Nel bosco, sulle orme del pastore” per le edizioni Laterza di Bari. L’opera rievoca atmosfere virgiliane e lucreziane ed ha un incipit che raccoglie la memoria proustiana del tempo “Risalgo a ritroso il sentiero / del tempo e mi smarrisco / nelle ombre senza confine / degli anni”. Originale è il dialogo che nel poemetto avviene tra Aristeo, il pastore per antonomasia, e la poetessa. Imperia Tognacci sembra voglia riportarci al clima primevo in cui l’uomo era parte integrante della natura. Ma quel tempo si è ridotto ad uno scontro. Non esiste più l’armonia. C’è solo desolazione e distanza abissale tra l’uomo e la natura. “Tramature caliginose nell’affanno / d’aria soffocano trasparenze / e voli. Nuvola gravida di polveri / e maree nere in agguato chiudono / varchi e spazi all’uomo tecnosapiens”. “Ma io, indifeso come il bosco: / non trovo barriera agli artigli / dell’ingordigia umana, mentre polveri / di veleni porta, sibilando, il vento / tra le turbate penombre / e su di noi ricade la cenere / di boschi incendiati”.  Sempre edito da Laterza e sempre in forma poematica esce nel 2015 “Là dove pioveva la manna”, con una interessante prefazione di Andrea Battistini e altrettanto istruttiva postfazione di Angelo Manitta. Si tratta di una silloge nata da un viaggio in Giordania. Un topos, quindi, della e nella letteratura. Ad iniziare da Ulisse per arrivare al virgiliano Enea, dal boccaccesco Andreuccio da Perugia fino al manzoniano Renzo, e giungere nel secolo scorso a On the road dello statunitense Kerouac. Il viaggio diviene una ricerca interiore per conoscere se stessi attraverso un’esperienza odeporica attiva che farà crescere e maturare il protagonista. “(…) dalla profondità / del nostro essere riaffiori / il Verbo che ci indica la strada”. Il viaggio è la coscienza del proprio essere, è la ricerca di una spiegazione valida all’esistenza. “Dei saggi voglio ascoltare le voci, / annusare spezie e profumi / orientali, su venature di rocce / leggere lo scorrere dei millenni. (…) Batte alla porta del cielo una nuova / alba, mentre, vestite di sole, / si dileguano le coste di Aqaba.” La teatralizzazione dell’opera, già iniziata con “Nel bosco, sulle orme del pastore” prosegue negli ultimi due poemetti che costituiscono un’ulteriore riflessione sul mondo, sull’esistenza, sul valore e sul perché della vita. Ne “Il prigioniero di Ushuaia” che ha visto la luce nel 2021 presso la Genesi editrice di Torino, la poetessa riproduce la propria esperienza di un viaggio presso la colonia penale della città di Ushuaia nel sud dell’Argentina, Terra del Fuoco. “Lungo i fiordi della fine del mondo / sono giunta, lungo lo snodarsi / dei torrenti, l’ingolfarsi dei fiumi, / gli occhi torbidi di nuvole, / tra fulmini che fendono / il cielo della pace”. Il libro, come dichiara la stessa poetessa, è ispirato da un’anonima poesia di un anonimo prigioniero e ha l’aspetto di una metafora della vita. Anche noi siamo prigionieri su questa terra in attesa di giudizio e di morte. Ne “La meta è partire”, edito da Genesi editrice nel 2022, un titolo tratto da un verso di Ungaretti, la scrittrice vuole innalzare un monumento alla Poesia, unica vera fonte di ispirazione per la vita, unica possibilità di sopravvivenza, unica prospettiva d’amore. La silloge appare accorpata in capitoli, come fosse un breve romanzo, e non in canti come ci si aspetterebbe in una versione poetica. In effetti, a ben leggere, c’è uno scambio abbastanza evidente tra prosa e poesia. Si potrebbe parlare di prosa in versi o, viceversa, di poesia in prosa. Al di là della connotazione chiaramente poetica poiché la scrittura ha un ritmo musicale evidente, si percepisce una trama, un discorso che si struttura in un andamento logico per sovrapposizioni e avvenimenti. Qui l’aspetto teatralizzante si fa più netto e complice dei dialoghi diventa la stessa autrice che rivendica il proprio ruolo di poeta. Anche se “Non so, Musa, se io sono poeta. / Sto nell’angolo, dietro la lavagna. / Uso l’uncinetto del cuore e della mente / per continuare la trama / iniziata nel buio dei millenni”. Ed ecco riapparire l’oggetto per cui vale la pena lottare, vivere, partire: l’amore. Sono varie le figure che riaffiorano alla mente della poetessa e che di conseguenza interloquiscono con lei conducendo il lettore in atmosfere al di fuori del tempo, sebbene il tempo, come tale, sia ben presente e accentuato. Allora il colloquio con la Musa, con Psiche, con Eva e altri, procede in un crescendo mozartiano tra interrogativi, dubbi, incertezze. Ma soprattutto precede il finale, quando il poeta ha davanti a sé Caronte che “in una mano stringe un remo, / con l’altra ti fa segno di salire.  / Tu esiti, tremante gli domandi: / «Andata e ritorno?» / «No, andata per poi ripartire.»”  Questa opera omnia è un’analisi perfetta del pensiero poetico di Imperia Tognacci, della sua filosofia, della sua idea di letteratura, della sua passione per la cultura occidentale dei classici latini e greci, della sua sincera spiritualità, della sua attenzione alla Natura e all’uomo, della sua sensibilità culturale. La poesia diventa allora il momento più altro e sublime per trasmettere e tramandare ciò che l’uomo ha conseguito ed è in grado di raggiungere. Ben inteso: nel passo del tempo.

 

Enea Biumi

 


lunedì 9 ottobre 2023

Paesaggi d'estate di Gianfranco Galante

 





Questo poemetto di Gianfranco Galante ha il sapore dei ricordi dell’infanzia. Tutte le estati l’autore ritornava ai luoghi natii, attraversando da nord a sud l’Italia, in un  viaggio complicato ma allo stesso tempo leggero. Complicato perché i treni in quei tempi non procedevano a 300 all’ora come avviene oggi, e leggero perché c’era la speranza di un incontro con gli amati nonni. 

E in quel tragitto ne avvenivano di cose! Si presentavano, infatti, mano a mano sul treno tanti e tali personaggi di varia natura che, a ben osservarli, partorivano graziosi e simpatici aneddoti.

Il libro è scorrevole come il viaggio che viene raccontato  e descritto, colmo di emozioni ed episodi unici nel loro genere. Si tratta in fondo di una specie di reisebilder che narra l’ansia dell’arrivo e l’appagamento di un ritorno felice. Naturalmente il percorso non è totalmente privo di piccole traversie che rivelano l’amore per la terra che lo ha visto nascere e crescere in quel turbinio di esistenza fanciullesca ed adolescenziale.

Si rimembrano luoghi, profumi, rumori, umori, sentimenti, sguardi e aspettative raccolti in versi teneri e gioiosi nell’attesa di incontri con vecchi amici e nella speranza di nuove e intense emozioni.

A volte il linguaggio è forse un po’ troppo aulico, o per meglio dire poco attuale e meno vicino alla parlata comune, ma si tratta comunque di una peculiarità di Galante, già nota in altre poesie, e che non stona affatto nel complesso dell’opera, anzi la vivacizza, così come è vivace il ritmo impresso, pagina dopo pagina. 

I versi, in tal modo arieggiati, appaiono, alla fine, la metafora del viaggio, nonché di un ritorno all’infanzia spensierata e felice di un tempo ormai passato e che si vorrebbe recuperare, per lo meno nella memoria.

 

Enea Biumi


domenica 20 agosto 2023

Franco Buffoni, Invettive e distopie, Interlinea, Novara, 2023


 Ancora una volta Franco Buffoni ci conduce attraverso un viaggio nel tempo. Se nel “Profilo del Rosa” il percorso era dettato da un reisebilder che andava dall’infanzia all’età adulta, ruotando in luoghi geografici della memoria, in queste pagine l’autore ci accompagna più esplicitamente nel mondo e nella storia della letteratura con alcuni scrittori tra i più rappresentativi, registrando episodi, lettere, testimonianze che ne rivelano peculiarità e significatività: il tutto senza dimenticare il loro rapporto e apporto con la realtà  contemporanea, sia letteraria che sociale.

I poeti e gli scrittori qui rappresentati sono colti nei loro passaggi più squisitamente indicativi in concomitanza con gli avvenimenti della loro vita. Buffoni indaga lo spirito, talvolta inespresso, che ha indotto alcuni letterati ad assumere determinati atteggiamenti e precise prese di posizione. Non per nulla l’Editore nella Prefazione parla di poetica. Una poetica certo che si concretizza nella vita degli autori stessi, una poetica rivisitata tramite gli scrittori rappresentati, una poetica sicuramente specchio e riflesso di quella di Franco Buffoni.

Si tratta di una importante operazione culturale che l’autore ci offre in maniera piana, spesso ironica, a volte sarcastica, in una ripresa di storiche invettive e distopie (o cacotopie) che vanno ad aggiungersi alle informazioni che, a livello scolastico, già sono presenti nel lettore medio. È un approfondimento necessario, e direi dovuto, per meglio comprendere il mondo della letteratura sviluppatosi in occidente e allo stesso tempo è un ritratto dell’uomo che con la sua malvagia ignoranza uccide l’arte o la deturpa in nome di arcaiche e inconsce sottomissioni a fedi, religioni, superstizioni e gestioni scandalosamente incompetenti. La storia, ci rivela Buffoni, abbonda di tutto ciò. Numerose sono le ingiustizie dovute a classificazioni razziste, misogine e omofobe degenerate in roghi, carcerazioni, deportazioni, a causa di pregiudizi sociali, religiosi, politici. Il primo capitolo (Su Dante, Cecco, Marsilio. E Lorenzo) ne è una testimonianza esplicita.

Cecco d’Ascoli, ovvero Francesco Stabili, arso vivo nel 1327 a Firenze per le sue opere, aveva osato criticare, o lanciare invettive - per stare al titolo del libro - contro Dante, reo di non aver usato la Ragione, bensì la pietas. La diatriba nata nel lontano Medioevo permette a Buffoni di parlare dell’oggi, e di quel clima culturale che ha imposto nelle scuole ideologicamente Dante e Manzoni generando “Padre Pio nel portafoglio e il Gratta e vinci in mano”.

Mi permetto, a questo punto, (non me ne voglia l’autore) una mia personale esperienza nel mondo scolastico, avendo io stesso assistito ad uno svenimento culturale – simbolico naturalmente – di un Preside quando, da insegnante di italiano alle Superiori, ho osato proporre l’abbandono dei Promessi sposi sostituendolo con Il nome della rosa.

Ecco la distopia, già rilevata da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis in cui insegnava “che la codificazione delle religioni rivelate, con i loro dogmi, era strumentale alla necessità di controllare, attraverso le coscienze, i comportamenti da mettere in atto nella vita civile, tenendo menti e coscienze in soggezione”.

Mi sovvengono, a tal proposito, madonne pellegrine e politici col rosario in mano. Ma rimaniamo nel contesto del libro e ai vari esempi che l’autore imposta sul binario delle invettive e delle distopie.

Riconducendosi storicamente al significato etimologico di distopia, Buffoni richiama John Stuart Mill, che usò questo termine al parlamento di Westimster, e ricorda Tommaso Moro che aveva coniato il vocabolo utopia (in nessun luogo ovvero luogo inesistente). L’accenno gli serve per spiegare quale sia il “tratto distintivo profondo tra una narrazione utopica  e una narrazione distopica” che consiste principalmente, per quanto riguarda il testo utopico, in una forma saggistica dispiegantesi “su un amplissimo arco cronologico (appunto dalla Repubblica di Platone a Thomas More, Campanella, Bacone)”, mentre quello distopico “tende ad essere narrativo, pure fiction, ed è concentrato nell’Ottocento-Novecento, post rivoluzione industriale fino ai totalitarismi e alle scoperte scientifiche lette in chiave disumanizzante e fantascientifica”.

Ogni capitolo di questo saggio è un alternarsi tra elementi che fungono da invettiva e tratti di conclamata distopia.

Interessante, a questo proposito, è sicuramente il raffronto tra Parini e a Leopardi. Il trait d’union che li lega è una talare. Sappiamo tutti il perché della vocazione sacerdotale dell’aio lombardo e il rifiuto categorico del buon Giacomino di farsi prete disubbidendo alla volontà paterna. La talare diventa così il pretesto per raccontare la Milano aristocratica settecentesca e la sua originale e sontuosa architettura, come quella del Palazzo Castiglioni, o di casa Rasini e di casa Fontana Silvestri. Nello stesso tempo la talare induce l’autore a soffermarsi sugli amori tra Leopardi e Ranieri, nonché sulla viltà di quest’ultimo che finge di non sapere “la ragione per cui Leopardi cercava uomini giovani e scugnizzi che poi compensava con avarissime mance.”

Non mancano, tra l’altro, approfondimenti di autori stranieri tra i quali possiamo annoverare Ada Augusta Lovelace, figlia di Byron, la cui scrittura, afferma Buffoni, è dotata di una “brillantezza di stile: accattivante, acuto, intelligente.” La presentazione della figura di Ada Augusta Lovelace dà occasione all’autore di raccontare la particolare passione di Byron verso ragazzi e giovani uomini, passione, si direbbe oggi liaison gay, velata da un matrimonio di convenienza. Per questo i Journals, in cui Byron raccontava senza reticenza la sua vita privata, vennero distrutti. “Il risultato” – commenta Buffoni – “fu un vero e proprio crimine commesso nei confronti della letteratura”.

Tuttavia le invettive non riguardano solo il mondo letterario. O meglio, analizzare il mondo letterario non significa isolarlo in una campana di vetro. Il letterato, l’artista, il poeta vivono in tempi e luoghi ben precisi entro i quali si battono e dibattono. Ecco allora che la scrittrice Mary Ann Evans è costretta, a causa di un’imperante misoginia, ad assumere uno pseudonimo maschile: George Eliot. La sua opera fu anche una battaglia contro la ristrettezza morale e l’ipocrisia della nobiltà agricola inglese. Dopo la sua morte il movimento di emancipazione femminile si rafforzò fino a sfociare nel 1897 nel National Union of Women’s Suffrage. Si tratta di una interessante annotazione storica che ci riconduce alla nascita delle cosiddette suffragette.

La storia, questa volta italiana, ritorna tra le pagine del libro con i poeti Elizabeth Barret Browning e Robert Browning, giunti in Toscana dalla nebbiosa Albione. Viene descritta la passione di Elizabeth per la libertà e conseguentemente la sua adozione delle problematiche risorgimentali italiane (dalla guerra d’indipendenza, alla morte di Anita Garibaldi e del Conte Camillo Benso di Cavour). Rilevante è pure l’annotazione riguardante il suo amore verso il marito, a dispetto di un padre arcigno ed egoista: “un amore totale, concreto assoluto, per il giovane marito, con l’espressione della più pura astrazione romantica”.

Come si nota facilmente lo sguardo che Buffoni rivolge ai poeti non è mai a se stante, distolto cioè da problematiche apparentemente lontane dalla letteratura. La vita letteraria è indissolubilmente intrecciata con la realtà, che l’autore indaga ed analizza utilizzando anche alcuni momenti personali da lui dedicati a conferenze, interviste, amicizie.

Nel capitolo consacrato al confronto tra Ibsen e Osborne, ad esempio, dove si narra di un incontro tenuto con i maturandi gallaratesi, ci viene offerto uno spaccato della società italiana che solo nel 1975 ha raggiunto la parità tra uomo e donna, ancora purtroppo non completamente accettata visto i numerosi femminicidi che si susseguono a regolarità impressionante. Mi sovviene a tal proposito l’amore tra Coppi e la Dama bianca, l’uno tranquillamente libero e applaudito, l’altra reclusa e dileggiata al pari di una prostituta.

Naturalmente la conoscenza che l’autore ha della letteratura anglosassone e nord europea, nonché la sua attiva presenza nel mondo della traduzione, lo conduce ad un ampio panorama di nomi: fra questi possiamo ricordare Virginia Woolf, Osborne, Ibsen, Yeats, Forster, Seamus Heaney, Pound, tra i più rappresentativi. E in questa rassegna diventa notevole il lavoro riguardante la collocazione storico geografica degli stessi. Degna di nota, in questa prospettiva, è la ricostruzione dell’iter faticoso e tortuoso che si è avuto nell’Inghilterra, dal settecento ad oggi, a proposito delle leggi sull’omosessualità (definita primariamente con grande dispregio sodomia).

Nello stesso tempo Buffoni non dimentica gli artisti italiani che hanno contribuito a sprovincializzare la nostra letteratura. Fra i loro nomi non possiamo dimenticare Fernanda Pivano, Pasolini, De Mauro. E accanto a questi personaggi noti, l’autore registra poeti dimenticati o misconosciuti, come il palermitano Lucio Piccolo, cugino del più famoso Tomasi di Lampedusa. A lui, e ad altri poeti suoi conterranei, come Sinisgalli, Bodini, Matacotta, Lorenzo Calogero, mancò un critico, sottolinea Buffoni, come l’Anceschi che “li catalogasse e antologizzasse già negli anni cinquanta”, vale a dire “un accorto sistematizzatore, un filosofo dell’estetica in grado di definirli”. Tra loro Piccolo fu il più fortunato perché incontrò l’ammirazione di Montale, “ma gli altri sono rimasti quasi sistematicamente nell’ombra”.

Molto avvincenti sono le pagine in cui l’autore si espone maggiormente come persona più che come studioso letterato. Mi riferisco in particolare al capitolo “Sereni e mio padre” che parte subito da una confessione: “in lui (in Sereni) vedo mio padre.” Forse per questo il poeta di Luino è stato per Buffoni un maestro, colui che ha inciso maggiormente il suo percorso poetico. E ancora una volta l’opera poetica non viene scissa dalla vita. Sereni, tenente di fanteria, che si trova ad affrontare una guerra sbagliata dalla parte sbagliata, fatto prigioniero in Nord Africa, racconta in versi il dramma di un uomo a disagio col proprio tempo, umiliato e distrutto. Non si tratta solo di una recensione all’opera del poeta luinese, bensì di una dichiarazione d’amore e di stima, così come deve essere il rapporto fra padre e figlio: un riconoscimento dovuto, un omaggio agli insegnamenti ricevuti.

Un altro aspetto sicuramente importante è il pensiero di Buffoni a proposito del tradurre. La traduzione, d’accordo, fa parte della sua professionalità, ma sono sicuramente da non trascurare al riguardo le tante annotazioni sistematiche che disvelano la puntigliosità e la fatica del suo operare. Ci sono capitoli considerevoli che riportano pareri e confronti, come ad esempio le pagine che parlano di Luciano Bianciardi dove viene sottolineato che “per tradurre da una ex lingua di Chaucer e di Shakespeare nella ex lingua di Petrarca e Tasso (…) occorrono l’incontro poietico e la concezione del movimento della lingua nel tempo; e soprattutto occorre avere costantemente presente il concetto di stratificazione del linguaggio.” Naturalmente il riferimento a Bianciardi è un momento tra i tanti in cui l’autore esprime il proprio parere e la propria poetica. Non posso in questa sintesi riportare tutto, ma una segnalazione su due punti altrettanto necessari mi è d’obbligo. Uno è il richiamo al pensiero di Céline, sempre riguardante la traduzione, l’altro ad una personale riflessione sulla propria “ritraduzione” di Seamus Heaney con l’avvertenza finale che chiosa: “L’importante è che – complessivamente – la traduzione che in quel particolare giorno si è compiuta sia coerente, risponda a un ritmo autentico, possegga una intonazione profonda.”

Quanto specificato corrisponde pienamente anche alla poetica di Buffoni che trova ampie spiegazioni nel capitolo “Pasolini e Byron: questioni di poetica” nonché in “Piero Chiara: per una questione di poetica” dove ricompare la figura di Anceschi, che con la collaborazione di Chiara ed Erba mette in piedi una Antologia “Quarta generazione” riguardante giovani poeti di allora quali, tra gli altri, Zanzotto, Spaziani, Cattafi, Merini. In queste pagine si registra – almeno io la sento così, e mi scuso se interpreto male – una sottile polemica da parte dell’autore nei confronti di Piero Chiara che pare avere una certa “commiserazione” per i poeti contemporanei, perché in sostanza le attenzioni del romanziere di Luino erano tutte rivolte alla narrativa e non tanto alla poesia. Ciò è dimostrato dal fatto che lo scrittore del Piatto piange, quando fu invitato a presiedere il Premio Tirinnanzi privilegiò l’anonimato e la singola poesia, piuttosto che la silloge con nome e cognome. Aveva abbandonato in tal modo le indicazioni del dedicatario del futuro premio, che prevedevano invece una scelta tra i migliori libri di poesia editi nell’annata, contraddicendo pure la poetica anceschiana che affermava che un poeta doveva essere valutato nel suo complesso e non su una singola poesia.

In definitiva, le tante pagine, che non ho ricordato per motivi di spazio, le tante osservazioni, i tanti modelli critici di poeti, romanzieri, saggisti, i tanti avvenimenti citati e presenti in Invettive e distopie aprono un mondo e un modo di fare letteratura che possiede potenzialità da non sottovalutare. Si tratta, in sostanza, di un’amplissima gamma con cui confrontarsi e da confrontare in un fondamentale passaggio storico-culturale, tutto da assaporare e rimeditare in continuazione per un arricchimento dello spirito, laicamente inteso.

 

Enea Biumi

Franco Buffoni, Il profilo del Rosa, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2023


 

Il profilo del Rosa è un viaggio nel tempo, un reisebilder a ritroso, in cui l’autore rievoca luoghi e situazioni del suo vissuto, senza però abbandonarsi a sterili ed inutili sentimentalismi. Anzi. I versi non sono altro che un racconto introspettivo della propria esperienza di crescita e di maturità. Nulla di nostalgico. Niente rimpianti. Nessuna lamentela sul passato. Solo un percorso che richiama luoghi frequentati e particolari situazioni.

                                                           E io che vivo da ottant’anni quasi

                                                           È stata vita dico alzando le braccia,

                                                           Sotto di me e sotto la mia barca

                                                           Le trote oscillano guizzano tra i cardi

                                                           Discendono allo scafo azzurro capovolto,

                                                           Verso già capofitto il mio contrario

                                                           A due tre metri.

Premesso ciò, è chiaro che la silloge diventa un’interessante fotografia entro la quale il poeta si riflette e si rivede, bambino, adolescente, adulto attraverso anfratti di paesaggi, dettagli domestici, echi letterari. Di per sé è una panoramica di vita che sancisce le caratteristiche di un esame e che ripropone, in chiave poetica, un mondo che sta a metà tra l’immagine della grandezza della natura – evidente in questo caso la metafora del Rosa – e l’esistenza quotidiana dominata da oggetti che ricorrendosi e rincorrendosi nel tempo assumono connotati differenti.  I versi inziali offrono l’incipit di quello che avverrà poi.

Una radice ha rotto il vaso

Nell’atrio della casa riaperta

La pianta è sempre stata bagnata

Dal vetro rotto dal vento.

Nel ritornare all’antica abitazione il poeta scopre che qualcosa si è rotto (il participio del verbo rompere è presente due volte in soli quattro versi), ma non completamente, perché la pianta è sempre stata bagnata, quindi la vita nonostante le intemperie è potuta proseguire, sia pure con affanno.

Il viaggio, si sa, (reale o fittizio che sia) è un topos letterario (dall’Ulisse di Omero alla strada di Kerouac) e ha l’attrattiva di una crescita e di una presa di coscienza mano a mano che si avanza e in relazione con chi si incontra e con chi ci si confronta.

Nelle religioni misteriche antiche si otteneva salvezza, e quindi consapevolezza, dopo aver percorso le vie più impervie e pericolose cha annullavano la personalità del neofita. Era necessario conoscere il male per poi rinascere nel bene. Ne abbiamo un esempio significativo nella Commedia di Dante, o ancora nella più divertente novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia che per capire la realtà deve prima cadere dal chiassetto per poi precipitare nel pozzo e rimanere chiuso in un sepolcro.

Ma dove sta il male in questo profilo del Rosa che apparentemente non ha nulla a che spartire con le cadute e l’annientamento di se stessi prima di una definitiva risurrezione? Bisogna leggere questi versi come un incatenarsi di tanti rimandi, una serie di metonimie o metafore che collegano il luogo al sentimento. Se Montale utilizzava il correlativo oggettivo per spiegare (o meglio per tentare di spiegare) il male di vivere, Buffoni impiega parametri di implicita diairesi.

                                Me ne nutro, ci sguazzo in questa faccia

Ancora da ragazzo che mi vedono, e agglutino

Nel sacco insieme a un cane e a un gallo,

Senza vipera e serpente.

Non ho ucciso niente.

Certo è che il viaggio non è lineare o senza ostacoli. Non lo fu quello di Odisseo né quello di Sal Paradise. Ma non di meno gli ostacoli che si frappongono contribuiscono a sviluppare una presa d’atto: rinsaldano radici, rafforzano la consapevolezza dell’io, l’immagine del sé nei confronti dell’altro.

                                               E comincio a riconoscere stagioni

                                               Dalle vene dei mobili, i rumori

                                               Che fanno assestandosi di notte

                                               La temperatura delle ossa

                                               Questione di coperte e di verande.

Si tratta in sostanza di un Bildungsroman in versi, che si snoda attraverso rivelazioni sapientemente correlate ad avvenimenti quotidiani che diventano ipso facto testimoni del vissuto del poeta. Sembra un incontro con un armonicista in grado di accordare strumenti diversi per intonarli all’unisono in uno spettacolare assolo esemplare.

La sinfonia che ne sorte ha l’andamento simile al poema musicale Eine Alpensifonie di Richard Straus: un inizio quasi in sordina che si avvia poco a poco, e senza che noi ce ne accorgiamo, ad esaltarci con la sua potenza e maestosità. La maestosità delle Alpi, per l’appunto – o del Rosa nel nostro caso – e in generale della natura.

Il desiderio di orchestrare i ricordi diventa allora come un polittico che si apre e si chiude a seconda delle occasioni e che fa intravedere alcune specificità, disvelando chiari e scuri, che racchiudono ricchezze da esplorare o commentare. 

                                               Come un polittico che si apre

                                               E dentro c’è la storia

                                               Ma si apre ogni tanto

                                               Solo nelle occasioni,

                                               Fuori invece è monocromo

                                               Grigio per tutti i giorni,

                                               (…)

            In definitiva il polittico assume il valore della metafora della vita: una sorta di finestra donde guardare avvenimenti e persone, ed esplicitare sentimenti, desideri, angosce, dubbi, storicizzando come in un diario intimo i momenti salienti che ci hanno permesso di crescere e maturare.

                                  

Enea Biumi

 

venerdì 14 luglio 2023

Antonella Doria “Conversazioni sull’Orizzonte” (Book Editore, 2023)


 

Forse davvero l’assenza torna presenza come negli spiragli delle citazioni; “Capita   a volte/ in un agosto come questo/ con il cielo azzurro/ corpi clandestini...”, forse ancora intaglia la percezione di una strategia che l’afflato civile denuncia nel ritmo volutamente franto, spezzato. E’ il segno della condivisione operante lo smottamento linguistico nell’esito poetico “Conversazioni sull’Orizzonte” di Antonella Doria. L’epicentro è nel tratto abilitato alla costruzione del verso, nella traccia che concede lo spazio bianco di pausa all’interno stesso del passo, nella deriva dell’interpunzione aderente ad una sillabazione materica, nei tratti d’interposti elementi a segnale d’interscambi fra detriti e corrispettivi stralci di dolore. E’ diceria di Luna che suona a condono e congedo, a insenatura talmente scolpita da risiedere in vento, in golfo, dove l’acquisizione della struttura nominale attende l’intervento dicibile del taglio a corrente, a flusso instabile, come “silenzio d’una polvere/ oro   inquieta frantuma/ pensieri   l’ora che dura/ nel passo   nel pianto”. Allora la danza è notturna; Antonella Doria compone le passioni operose, le tramature interroganti, gli slanci reiterati, attraverso la domanda cosmica a contatto con le arditezze del coraggio. Di nuovo l’iterazione si fa paziente e sapiente riverbero ritmico in contrazione di verso, in ritmo infranto sulla soglia di una dicitura esatta, compiuta e nello stesso tempo aurorale. Nel prima di tutto o nel dopo tutto le trabeazioni linguistiche accennano ad una compostezza raggiunta nell’equilibrio dei tempi, nell’esegesi dei rimandi, degli omaggi ai tanti autori, agli artisti che hanno sperimentato esili e travagli. E il corpo a corpo è intimo, intagliato nelle protuberanze formose della condizione terrena, nel viatico accenno alla esclusione, alle soffocate dimensioni del bisogno, della persecuzione. Il ritrovarsi è specchio di un umanesimo desto, percosso ma reattivo, episodico trauma adibito a scenario dove quella vita intestina rimuove filtri e ancoraggi, giungendo alla fonte del mito, alla quotidianità del passaggio. Comporta attenzioni empatiche il fondersi di parole qualora acuisca il segno l’evidenza dello slancio al rimando, alla evocazione nel riferirsi, ad esempio, ai destini di poeti come Mandel’stam e Achmatova, di artisti come van Gogh. L’osservazione sulla terra natale, costante riferimento dell’autrice, quello spasimo di Palermo, per citare Vincenzo Consolo, quella “materia corporea   fiumana/ viva inerme   (bocche aperte/ al grido) né   l’aria nera   stretta/ pure corse oscura   di bocca/ in bocca   la freccia la paura”; così la fiumara, i pendii, le fiamme mugghianti, l’acquachiara, l’appiglio, il ritmo e il rito. E’ un comprimersi linguistico d’inventiva strutturale ove due versi concedono quasi la fonetica solida di una sintassi segnaletica “pinimarittimieplumelie/ eucaliptipalmeoleandri”, nominazioni componibili in alternarsi di variabili. Anche le volumetrie vogliono evocare la possibilità, l’opzione di pagine mai scritte che si traduce in rilievi amari: “Destinazioni d’Uso/ Servizi   non conteggiati/ ma anche...pungoli/ Desideri   assilli persuasi/ Prestiti   a fondo perso/ (Indifferenze   metropolitane)”. C’è, nella poesia di Antonella Doria, quasi un desiderio mimetico, una capacità d’inserirsi nello stesso dettato della composizione linguistica, un rapporto intimo con le parole, come giustamente ha osservato Giulia Niccolai. Il testo si dice e ci dice la volontà dell’autrice: “cerco   fra   massimi sistemi/ qualcosa   proprio rasoterra/ uno sfogatoio   una turca   o/ latrina   una udienza pubblica/ una lingua arcaica   forse”. Se poi avevamo avuto come uno dei massimi esempi della poesia del secondo Novecento un “Paesaggio con serpente” di Franco Fortini, Doria ci propone ora un “Paesaggio con Figure”, un’architettura dove la dilatazione utilizza ancora l’interpunzione per assecondare cadenze nel significante, quando si racconta, quando la partecipazione emotiva si traduce “Per certi versi... ...meravigliosi/ gigli... nascono crescono da/ amori carnali   carni impastate”. Antonella Doria imprime allora al verso la direzione maieutica di una vera dichiarazione di poetica: “Per certi versi... ...pensieri/ nella notte   (zampettine.../ d’albanella pallida alla spiaggia/ al mattino)   quasi scrittura   serve/ una traiettoria   a seminare indizi”. Quegli indizi che portano alla esatta dimensione del poetare.

                                                                                                      Andrea Rompianesi

domenica 2 luglio 2023

Enea Biumi, Sfulcìtt - Inganni, Lupi editore, 2022


 La vita come affanno nella citazione da Lucrezio, autore amato da Enea Biumi che in questa sua opera poetica in lingua varesina, proposta con la relativa versione italiana, attinge dalle grazie inesauste della quotidianità esposta nel teatro della natura, quelle sensazioni accese nell’attimo del passacuore, nella dicitura limpida del presagio, attraverso la sedimentazione di una malinconia. E’ una osservazione liminare alle soglie di una funzione che abita l’espressione interrogante, al calmo sentire della brezza percepita; così l’andare della poesia stessa e il guardare i riflessi contingenti: “La vàrdi vugà via/ tutt a un bòtt/ senza paròll”, “La guardo volar via/ improvvisamente/ senza parole”. Una riscrittura in due lingue specifiche, quella di Biumi, più che una traduzione; quasi una mutabilità di accensioni sonore nella concentrazione delle sillabe, del ritmo anche notturno che evidenzia le incertezze e i dubbi rivisitati attraverso correlativi panici. Il vento anima le eccezioni, le conduce nello scorrere impassibile dei mesi e delle stagioni; acconsente nell’ambiente ad una osservazione che può essere lamento ma non ignaro di una ironia gentile e contemplativa. Il sogno ripercorre, a volte, l’insenatura del tempo per recuperare i minimi atti di un’era lontana che riemerge nella peculiarità di uno stimolo sempre sensitivo. Ancora sussurra l’anelito ungarettiano dell’essere creatura ma nel confronto della pietra con il pianto che non si vede, con le attese cadute, le stanchezze; nel verso che il poeta pone a chiusura di una sua poesia: “e sunt un sass”, “e sono un sasso”. L’istante fermo del silenzio che comporta tutta la serietà della scommessa che segue il dubbio, ma anche della dolcezza espressa dal sentimento amoroso che contrasta la fatica dei giorni, il male di vivere. Ci sono voci che giungono da suggestioni antiche e agresti, da estensioni seduttive e osservate nelle variazioni cromatiche dei tramonti, nell’accendersi delle parole, nelle titubanze che determinano il nostro procedere. Fiati di vento e cortili d’infanzia, “il sole nasconde il caldo/ dietro nuvole nere come corvi”, respiri emergono dalle stanze dell’ascolto, pergole e lacrime, tutta la dimensione esistenziale che Enea Biumi raccoglie, filtra ed interpreta con sensibilità acuta e ponendo quel punto di domanda che non esclude il timore della mancanza: “Uramài i campàgn/ hinn di sfulcìtt/ ca gìran a tùrna ai pòbi/ e ai scarpà di rùng”, “Ormai le campagne/ sono inganni/ che si aggirano fra pioppi/ e argini di rogge”. Inganni appunto, ma anche estreme aperture, ostinati aneliti nell’attimo in cui “Lusingano sempre/ i rami fioriti del ciliegio”.

 

                                                                     Andrea Rompianesi


Tommaso Giartosio “Autobiogrammatica” (Edizioni Minimum Fax, 2024)

 Le parole a noi care. Parole leggere e pesanti. Parole che possiamo amare o temere. Tommaso Giartosio, in questo suo titolo “Autobiogrammat...