Il titolo
della raccolta poetica di Enea Biumi, Sfulcìtt (Inganni), può essere preso a
manifesto di una precisa posizione, etica ed estetica, che l’autore dipana nei
suoi testi: gli inganni di cui si parla in questo libro sono infatti i frutti
di una disposizione al sogno e alla fantasia, sono gli effetti di una
delicatezza interiore, di una trepidazione costante, per cui occorre, al
soggetto, proteggersi dai mali e dalle cattiverie della storia. La pena del
vivere non è taciuta, è anzi ammessa esplicitamente, e tuttavia essa viene
arginata e forse anche sconfitta per effetto di un’energia proveniente dal
cuore, che corregge o allontana la superficie cattiva del mondo con la carica
positiva dei ricordi, dei desideri, dei pensieri talvolta persino strampalati,
dei piaceri intimi e domestici. L’esistenza porta il peso delle fatiche che
tutti conosciamo e scontiamo, e a questo, in fondo, si riduce per l’anima –
come scrive Biumi - «ul pecà de vèss al mùnd rivàa» (il peccato di essere
venuta al mondo). I giorni, le settimane, gli anni passano «in d’un bòff » (in
un soffio), e se ne resta come sbalorditi, schiacciati, constatando,
quotidianamente, il principio elementare di ogni filosofia: il mistero della
morte che ci attende, comunque e sempre «impruvìsa» (improvvisa, cioè
umanamente non prevedibile benché certa), e dalla quale, consapevoli o meno,
tanto spesso ci illudiamo di poter scappare. Eppure, dal fondo del proprio
esserci, Biumi percepisce la vibrazione, il sentimento di qualcosa di diverso,
ulteriore, che impedisce al negativo di avere l’ultima parola. È la
rivelazione, l’epifania che si impone di una bontà, nonostante tutto, quale può
dedursi fermandosi ad osservare: «i nìvur sùra ’l Tisìn» (le nuvole sopra il
Ticino), «la man d’una màma / ca la cùmpagna ’l tùus» (la mano di una madre /
che accompagna il figlio). E così, tra i laghi di Monate e Comabbio, di Varese
e Maggiore, nei cortili e nei chiostri dell’alta Lombardia, nel dialetto di
queste poesie tornano a fare capolino non soltanto Pascoli (con le sue civette,
i suoi panni di bucato, la sua nebbia e i suoi mesi di novembre, le sue culle,
e la sua ossessione per la morte), ma persino Hegel («il cielo stellato sopra
di me, la legge morale dentro di me»). Come inganni, come capricci si leggono
queste poesie, che l’autore appende intorno a sé, metaforicamente, perché in
esse si rispecchino e raccolgano quegli istanti di gioia vera, che parlano al
cuore e lo commuovono.
La Giuria del Premio
(Franco Buffoni, presidente, Uberto Motta, Fabio Pusterla, Luigi Crespi, segretario)
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