sabato 17 febbraio 2024

Mauro Ferrari “Seracchi e morene” (Passigli Editori, 2024)

 

Seracchi come blocchi di ghiaccio di metri vari d’altezza a forma di guglia o torre; morene quali accumuli di materiali rocciosi disgregati da un ghiacciaio delle pendici montuose poi trascinato a valle; così i significati letterali portano a “Seracchi e morene” appunto, esito poetico di Mauro Ferrari, autore, editore, critico, operatore culturale. L’opera si suddivide in quattro sezioni: la prima e la quarta caratterizzate dal rapporto con le vicende della storia, la seconda, che offre il titolo al libro, e la terza espressamente rivolte al rapporto con il mondo della natura. Un intreccio che è guida per una consistenza riflessiva dominata dalla consapevolezza di muoversi poeticamente su di un terreno che possa essere tracciabile, quasi calpestabile nella sua realtà ontologica. “L’approdo deve essere cauto/ le rotte scelte con cura, ché poche/ hanno correnti amiche e dèi benigni”; l’insidia è opprimente condizione che impone la veglia e l’attenzione irta verso l’episodio diurno capace di svolta e operosa mediazione propositiva in opzione di luce. Molto infatti è per Mauro Ferrari nel senso della vista, nella decisione acuta di volgere il passo verso un tempo civile che si fa spazio, luogo da abitare così come i versi scolpiti abitano lo spazio stesso della pagina. Qui si parla della follia del nulla che davvero è tale poiché, come insegna il principio di Parmenide, sussiste sempre l’essere che non può non essere; d’altra parte, se il nulla esistesse non sarebbe nulla ma qualcosa. E il ritrovare frammenti in abbandono, oggetti quali rifiuti e depositi di ansie, tormenti fisici e morali, segni bellici, ordini caotici e graffi insistenti, conduce alla necessità della responsabilità etica, al cosa devo fare di una ragion pratica...”e poi di nuovo quella trasparenza/ che nasconde e illude,/ il tempo che fugge/ e l’attrazione del fondale”. Ancora giungono echi di pandemie ed azzardi, di macerie e abusi; così la netta necessità del poeta posto di fronte al dovere di risolvere il nitido senso percepibile della domanda. Sembra, a questo punto, davvero una svolta l’affidarsi allora a ciò che di natura rappresenta elemento di resistenza come montagne, ghiacciai, rocce. Tracce di solidità a cui aggrapparsi in una soluzione d’ordine che apre ad una possibilità forse non illusoria, anche se vediamo “il vento e la pioggia che rodono/ istante su istante/ mentre il muschio appone la firma/ su contratti in bianco”; come tempo che si sottrae nelle sue creature all’azione di Shiva distruttore. Si esprimono trame e tregue che Ferrari insegue alle foci di una contaminazione che è ferita, quesito e tracciato inquieto. Il ciclo di rinascite e morti, l’integrarsi degli elementi nei versatili asserti vegetali e animali ove l’esergo anticipa la veduta sulla persistenza minerale. Il poeta, in uno slancio intimo, concede l’alternativa, “posso fingermi altrove/ un attimo a sussurrare al vento” in una partizione spaziale visivamente costruita sulla pagina nella breve distanza del distico dalla terzina: “fiore lichene zampe che vagano/ sotto un cielo vuoto e sereno/ senza squarci né voci”. Il tono aurorale e panico incide con determinazione l’asciuttezza rigorosa del verso compiuto all’interno di un equilibrio solido tra strofe composte nella geometria del dettato, quando “solo la pietra non soffre la sua logica”, tra spuntoni ed abissi, “sistri e cimbali”. Gli elementi attirano lo sguardo, la svolta dell’osservatore nel dramma della verifica, nell’innesto magmatico dove l’accesso è dimenticanza, oblio inesausto. La terza sezione è rapidissimo e fugace confronto con tempo e spazio, per “contemplare il tutto che noi siamo”, forse risposta all’ipotesi del nulla. L’ultima parte ripropone il poemetto “la spira” che, affrontando una tematica industriale, la sua crisi, pone il nucleo relativo alle disillusioni, alla caduta delle utopie coltivate da una generazione: “in questi giorni brevi fra due notti/ la spira sale dietro al cimitero/ e azzurra il cielo grigio/ salendo a pena per sfaldarsi in nulla”. Mauro Ferrari in questo suo lavoro riavvolge le segnature contratte che si materializzano in versi posti a ridestare una matura e partecipe presa di coscienza intima e civile, dura e avvertita, consapevole delle sconfitte ma non arresa alla dicitura della dispersione; piuttosto concentrata sulla consistenza delle ustioni e rivolta alla forza desiderante di un disgelo.

                                                                                Andrea Rompianesi





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