Seracchi come
blocchi di ghiaccio di metri vari d’altezza a forma di guglia o torre; morene
quali accumuli di materiali rocciosi disgregati da un ghiacciaio delle pendici
montuose poi trascinato a valle; così i significati letterali portano a
“Seracchi e morene” appunto, esito poetico di Mauro Ferrari, autore, editore,
critico, operatore culturale. L’opera si suddivide in quattro sezioni: la prima
e la quarta caratterizzate dal rapporto con le vicende della storia, la
seconda, che offre il titolo al libro, e la terza espressamente rivolte al
rapporto con il mondo della natura. Un intreccio che è guida per una
consistenza riflessiva dominata dalla consapevolezza di muoversi poeticamente
su di un terreno che possa essere tracciabile, quasi calpestabile nella sua
realtà ontologica. “L’approdo deve essere cauto/ le rotte scelte con cura, ché
poche/ hanno correnti amiche e dèi benigni”; l’insidia è opprimente condizione
che impone la veglia e l’attenzione irta verso l’episodio diurno capace di
svolta e operosa mediazione propositiva in opzione di luce. Molto infatti è per
Mauro Ferrari nel senso della vista, nella decisione acuta di volgere il passo
verso un tempo civile che si fa spazio, luogo da abitare così come i versi
scolpiti abitano lo spazio stesso della pagina. Qui si parla della follia del
nulla che davvero è tale poiché, come insegna il principio di Parmenide,
sussiste sempre l’essere che non può non essere; d’altra parte, se il nulla
esistesse non sarebbe nulla ma qualcosa. E il ritrovare frammenti in abbandono,
oggetti quali rifiuti e depositi di ansie, tormenti fisici e morali, segni
bellici, ordini caotici e graffi insistenti, conduce alla necessità della responsabilità
etica, al cosa devo fare di una ragion pratica...”e poi di nuovo quella
trasparenza/ che nasconde e illude,/ il tempo che fugge/ e l’attrazione del
fondale”. Ancora giungono echi di pandemie ed azzardi, di macerie e abusi; così
la netta necessità del poeta posto di fronte al dovere di risolvere il nitido
senso percepibile della domanda. Sembra, a questo punto, davvero una svolta
l’affidarsi allora a ciò che di natura rappresenta elemento di resistenza come
montagne, ghiacciai, rocce. Tracce di solidità a cui aggrapparsi in una
soluzione d’ordine che apre ad una possibilità forse non illusoria, anche se
vediamo “il vento e la pioggia che rodono/ istante su istante/ mentre il
muschio appone la firma/ su contratti in bianco”; come tempo che si sottrae
nelle sue creature all’azione di Shiva distruttore. Si esprimono trame e tregue
che Ferrari insegue alle foci di una contaminazione che è ferita, quesito e
tracciato inquieto. Il ciclo di rinascite e morti, l’integrarsi degli elementi
nei versatili asserti vegetali e animali ove l’esergo anticipa la veduta sulla
persistenza minerale. Il poeta, in uno slancio intimo, concede l’alternativa,
“posso fingermi altrove/ un attimo a sussurrare al vento” in una partizione
spaziale visivamente costruita sulla pagina nella breve distanza del distico
dalla terzina: “fiore lichene zampe che vagano/ sotto un cielo vuoto e sereno/
senza squarci né voci”. Il tono aurorale e panico incide con determinazione
l’asciuttezza rigorosa del verso compiuto all’interno di un equilibrio solido
tra strofe composte nella geometria del dettato, quando “solo la pietra non
soffre la sua logica”, tra spuntoni ed abissi, “sistri e cimbali”. Gli elementi
attirano lo sguardo, la svolta dell’osservatore nel dramma della verifica,
nell’innesto magmatico dove l’accesso è dimenticanza, oblio inesausto. La terza
sezione è rapidissimo e fugace confronto con tempo e spazio, per “contemplare
il tutto che noi siamo”, forse risposta all’ipotesi del nulla. L’ultima parte
ripropone il poemetto “la spira” che, affrontando una tematica industriale, la
sua crisi, pone il nucleo relativo alle disillusioni, alla caduta delle utopie
coltivate da una generazione: “in questi giorni brevi fra due notti/ la spira
sale dietro al cimitero/ e azzurra il cielo grigio/ salendo a pena per
sfaldarsi in nulla”. Mauro Ferrari in questo suo lavoro riavvolge le segnature
contratte che si materializzano in versi posti a ridestare una matura e
partecipe presa di coscienza intima e civile, dura e avvertita, consapevole
delle sconfitte ma non arresa alla dicitura della dispersione; piuttosto
concentrata sulla consistenza delle ustioni e rivolta alla forza desiderante di
un disgelo.
Andrea
Rompianesi
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