Evidente il
cursore che opprime, attende voce di un passato da interpretare, lo struggente
redimere i fatti avvenuti o mancati attraverso un’ironia a volte cinica ma
indifesa. Mauro Barbi è uno studioso solitario, ricercatore di storia moderna
senza cattedra. Il lago di Costanza è luogo di una glaciazione avvenuta nel
1572. Al presente, l’uomo decide di recarsi sulle sue rive per ricostruire una
successione di impressioni attraverso il concetto cardine di gelo e disgelo.
Dal desiderio di recuperare qualcosa forse andato perduto. L’occasione che
convince a rispondere a messaggi ignorati da anni. Il tutto converge verso una
domanda esistenziale a cui non si sfugge: “che cosa ricordano, gli altri, di
noi?”; da qui si sviluppa la prosa davvero, in questo caso, eccellente di Paolo
Di Paolo nel suo “Romanzo senza umani”. Non conviene anticipare gli esiti di
una narrazione attenta ma fermarsi anche arbitrariamente su qualcosa di
talmente raro, in particolare sul fronte della grossa editoria commerciale, da
evidenziarsi oltre i segnali delle storie, e cioè il vero e proprio, autentico,
capace “esercizio di stile” sul piano specificamente narrativo. La scrittura
incide su pagina l’equidistanza empatica tra aspettativa descrittiva
sapientemente indirizzata verso la peculiarità di un’accensione cromatica e la
riflessione sensibile ai precisi mutamenti delle stagioni climatiche ed
anagrafiche quali specchio deformante il nostro stesso percepirci quali astanti
nelle strade degli accadimenti e appartati protagonisti di azioni in atto, mai
coerenti con lo sforzo previsto o adescati da interiezioni mobili. Il flusso
narrativo disegna il senso della perdita, l’emergente connubio implicante la
limitazione temporale che accenna alle volubilità delle epoche. La
contraddittorietà propria di uno sguardo che si riconosce multiforme assiste
passiva all’esuberante approccio scritturale dell’autore in uno scorrere che
avvolge l’attenzione concessa al descrittivo profilo di una veggenza
introversa, del non più “io è un altro” ma identità riconosciuta nel limite
dell’altro; così come Di Paolo affonda il bisturi letterario nella personalità
del limite proprio di ciascuno, enumerando l’aggettivazione calibrata sulla
composta semantica delle articolazioni verbali. Questa volta diventa implicito,
in questo “Romanzo senza umani”, riconoscere davvero la massima presenza invece
degli umani stessi nel recitativo confronto delle parti, nella costruzione
dell’immagine di sé che si vorrebbe oggetto del ricordo di coloro che abbiamo
frequentato o anche solo sfiorato nei molteplici movimenti della nostra piccola
storia. L’intransigenza dei rapporti interrotti, finiti, lasciati all’erosione
di un tempo asettico, numericamente ridotto alla spoliazione del conto degli
anni. Di Paolo, in questo suo esito, è fine psicologo, accurato biografo,
prezioso distillatore di fascinosi paesaggi dove i colori sono vocaboli
coltivati nella grazia inattesa di una tenda illuminata al neon, rigorosamente
fuori da quei locali che abitano le memorie della nostra giovinezza. Il
confrontarsi esigente con l’alternarsi della freddezza climatica, rievocata
nello specifico evento storico, e di quella antropologica che ha ghiacciato i
rapporti personali, è materia di una riflessione che imbarazza la nostra
presunzione assertiva. Poniamoci allora di fronte alla evidenza del dato;
scrive l’autore: “il vento insiste, squarcia lo strato basso di nubi e fa
piovere quel poco di luce che ricolora di azzurro la superficie ghiacciata del
lago. I cumuli di neve fresca brillano come piccole colline di sale”; mentre i
capitoli si collegano in volo, fluendo da pagine aperte tra passato e presente,
osservazione dell’ambiente e recupero delle voci. Ma la solitudine del
protagonista è innesto di un esame di coscienza condotto dalla spinta degli
appuntamenti mancati, di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Nel
romanzo di Paolo Di Paolo soccorre l’ansito del significare possibile ma arduo
nella condizione dell’offerta esprimibile ai mutamenti che caratterizzano il
vissuto ma che, ad un certo punto, ci impongono le soste. Cosa realmente
intende dirci il testo? Forse, sembra tra le righe di cogliere una risposta
soltanto parziale con alcuni versi di Elio Pecora: “Quieti sediamo nell’ombra/
fra oggetti usati da tanto/ né conosciamo risposta,/ solo teniamo l’istante:/
il poco o niente che siamo”.
Andrea Rompianesi
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