“C’è bisogno
degli altri, come di un’illuminazione-/ dalla volta del cielo non scurita/ e
non pronta alla sua notte:”; così inizia l’opera di Maria Pia Quintavalla,
figura decisamente significativa del panorama poetico contemporaneo, dal titolo
“Saudade”. Tono che di valenze s’accende nella compiuta attenzione di rimandi
ad un sentire indefinibile, una melodia nostalgica, una sensazione di mancanza
riferita a ciò che si è perduto ma più ancora a ciò che non si è mai raggiunto
e che rimane, quindi, come una sorta di desiderio. Il caso amoroso investe le
dinamiche prefissate, le rivolge alle possibili richieste, ottenendo almeno
l’ipotesi dell’ascolto, la plausibilità della domanda che fluttua, a volte
inerte, nella perturbabilità delle stagioni. “Amo Parigi/ quell’aria di
castello blu intessuto,/ intorno a nubi nude e mobili, striate/ intorno al
fiume”, dove l’esperienza di avvicinamento sensoriale ed emotivo al luogo si fa
intelletto e scelta di misura; organico compenso alla ragione accorta,
disciplina di attenzione allo sviluppo spesso incompreso delle fecondazioni
culturali nella forma di crogiolo e di mutamento. E’ un poetare sentito e
sofferto quello di Maria Pia Quintavalla, esposto in passaggi dicibili e
condotti con supporto di elementi fluidi ma, nello stesso tempo, di una
vocazione prosastica ad intervalli irregolari. L’ascesa o discesa ai bisogni,
alla rievocata sensualità che ha in dote il compito di supportare l’anabasi, ne
diviene consenso inquieto, insostenibile leggerezza, dando spazi ad acque e
promesse, a barche e mezzi urbani. Così come le ambientazioni esprimono lo
scenario molteplice che ospita la complessità esperita nella sofferenza
svelata, nella struggente mancanza che, però, non rinuncia ad indicare una
direzione che è progettualità nel verso. La drammatica considerazione
dell’umanità migrante certifica lo stato d’abbandono da cui insorge il bisogno
immite e la peculiare attenzione che può concedere. Allora nel paesaggio, le
case risultano già disabitate, “in un composita solvantur” che ci riporta al
magistero di Franco Fortini, attraverso fattezze in distinzione di misure, di
rapporti che sono decisivi, nel loro rivelarsi materni e filiali: “Avremo
bisogno di sorgenti vive, noi-/ di racconti dove/ la storia ci sistemi, intime
e care-“. E c’è un fluire di fiume che il Po racconta e destina ai prodigi dei
giorni e delle stagioni, nei mormorii di sogno e di sorgente, attraverso fuochi
e baluardi, acque e sentieri, campi e respiri. Segue poi una sezione di prose
indicate come testi di poesia in prosa; più specificamente definibili
nell’accezione di prose poetiche in alternanza di caratteri, quasi monologhi a
confidenza intima: “Se Dio mi ama io scrivo e se non scrivo muoio, peggio
beccheggio, e stono fino a sera le mie modestissime preghiere che, come tozzi
di pane restano là chiuse...” e il tono della scrittura di Maria Pia
Quintavalla si pone a saggiare il crepuscolo di un sentire in sapore di
ciottoli e di refoli, dove si accentuano i possibili regesti. Una prosa,
inoltre, che simula la poesia attraverso l’uso dello slash ricorrente a
incidere tagli e pause su una storia al femminile, densa di umori e accenti
verso età bambine, stagioni madri, luci di troppa, straziante, ossimorica
bellezza. E attese che si fanno “saudade”; “Materia nel liquido, carne che fu
ossa e sangue, e non gomma, e non blu morte, ma vita, ora”. La tragedia delle
morti in mare, contemporanei calvari e vie crucis devastate nell’algida
freddezza di un elemento che identifica con la diffusa indifferenza il proprio
orizzonte. La poesia allora testimonia come “fra il rumore di acque irreali...
questa notte al termine della notte gli accenti di tutte le lingue si fondano
in un salmo”, nella incalzante attualità delle migrazioni forzate dal bisogno e
dalla persecuzione.
Andrea Rompianesi

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