domenica 21 aprile 2024

Enea Biumi, La sumènza du la nòcc, Il seme della notte, Scrittura Creativa Edizioni, Borgomanero, 2014


 

Le semplici cose della vita nella poesia del primo Biumi

Una poesia, quella del primo Enea Biumi (nom de plume di Giuliano Mangano), più precisamente la poesia di una raccolta risalente a qualche tempo fa, Il seme della notte (Scrittura creativa edizioni, 2014), che presenta in primo piano le semplici cose della vita; una vita povera, ma autentica: le monachine del focolare, le lucciole, “la gazzosa”, il paiolo per la polenta, “il cortile dove si giocava con la palla”, la canna della bicicletta, dove il bimbo veniva trasportato dal padre.  La poesia si scarnifica, si riduce a una secca enumerazione, si fa oggettuale, fermandosi a un passo dal silenzio: (“il lampadario/ il tavolo/le sedie”).

Anche le similitudini sono prese dalla vita di ogni giorno; il tempo è “come un panno di bucato”.

Lo sfondo è dato dall’universo familiare, dall’ambiente paesano, dagli spettacoli naturali, che destano una meravigli attonita davanti al sensibile; si tratta a volte anche di notturni di placida bellezza, contemplati in solitudine, ma anche in una solitudine a due (p 15). Spettacoli che la natura offre gratis, perché tutte le cose che “valgono” sono gratuite. Una natura che ha qualcosa di sacro; e infatti l’abbattimento di un albero è qualcosa di esecrabile non solo da un punto di vista eco logico; la condanna però resta implicita, senza bisogno di alcun commento e perciò risulta più netta.

Già la prima lirica è una traduzione libera dalle Bucoliche virgiliane e quindi ci offre l’humus, la cornice da cui la sua poiesis muove.  L’ambiente campagnolo si respira quasi nella puzza “di letame”; perché la vera poesia interessa spesso tutti i sensi, non solo la vista. E quest’odore di letame è l’equivalente olfattivo di un senso terragno e corposo delle descrizioni, che il dialetto favorisce, come ben sanno i lettori di Carlo Porta. Senza contare che il dialetto conserva anche capacità allusive che la lingua della comunicazione ha cancellato. E perciò meritoria è l’opera dei poeti che proprio per questo usano quella che una volta era la lingua materna, così contribuendo anche a preservarne l’esistenza. Perché il libro di Biumi è scritto in dialetto, con traduzione, se così si può dire, a fianco

Spesso si tratta di un quadretto nitido, che ha la purezza di un idillio, con coda gnomica nell’explicit.

A volte la breve opposizione non è incrinata da alcun sentimento. Si presenta in un presente eterno, fissato in gesti quasi ieratici.

A volte il quadretto è incrinato dalla nostalgia e allora si ha l’uso dell’imperfetto, il tempo appunto della nostalgia, accompagnata da un desiderio di pace, per una coscienza “sempre in guerra”.

Non manca l’amore nelle corde del poeta ed è visto come “qualcosa che vale”, simbolizzato “nei due occhi neri”, in un “angelo. E infatti con una dichiarazione, anzi con una doppia dichiarazione  d’ amore termina il libro.

Il futuro appare a volte come un” “sentiero in mezzo a un bosco”, ma, sembra dirci Enea, bisogna andare avanti. L’inverno diventa Il correlativo oggettivo o, la metafora  della vecchiaia. La  morte aspetta tutti e ciascuno, come in una “gran piazza/ dove una mano sorteggia il tuo destino”. Allora sembra prevalere la paura,  il desiderio di fuga, ribadito in martellanti anafore. Ma la paura non riguarda il Matto, il diverso, che il poeta sente, simile in questo ad Hanno dei Buddenbrook, come amico, come fraterno, e rappresenta forse la poesia, l’alterità.

Della fine l’io lirico ha una coscienza acutissima, dolorosa, che lo porta, in un’atmosfera da Sera del dì di festa, a chiudersi, ascoltando “i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno e quasi prendere congedo anticipatamente dalle gioie effimere del vivere.

             Fabio Dainotti

 

mercoledì 10 aprile 2024

Paolo Di Paolo “Romanzo senza umani” (Feltrinelli Editore, 2023)


Evidente il cursore che opprime, attende voce di un passato da interpretare, lo struggente redimere i fatti avvenuti o mancati attraverso un’ironia a volte cinica ma indifesa. Mauro Barbi è uno studioso solitario, ricercatore di storia moderna senza cattedra. Il lago di Costanza è luogo di una glaciazione avvenuta nel 1572. Al presente, l’uomo decide di recarsi sulle sue rive per ricostruire una successione di impressioni attraverso il concetto cardine di gelo e disgelo. Dal desiderio di recuperare qualcosa forse andato perduto. L’occasione che convince a rispondere a messaggi ignorati da anni. Il tutto converge verso una domanda esistenziale a cui non si sfugge: “che cosa ricordano, gli altri, di noi?”; da qui si sviluppa la prosa davvero, in questo caso, eccellente di Paolo Di Paolo nel suo “Romanzo senza umani”. Non conviene anticipare gli esiti di una narrazione attenta ma fermarsi anche arbitrariamente su qualcosa di talmente raro, in particolare sul fronte della grossa editoria commerciale, da evidenziarsi oltre i segnali delle storie, e cioè il vero e proprio, autentico, capace “esercizio di stile” sul piano specificamente narrativo. La scrittura incide su pagina l’equidistanza empatica tra aspettativa descrittiva sapientemente indirizzata verso la peculiarità di un’accensione cromatica e la riflessione sensibile ai precisi mutamenti delle stagioni climatiche ed anagrafiche quali specchio deformante il nostro stesso percepirci quali astanti nelle strade degli accadimenti e appartati protagonisti di azioni in atto, mai coerenti con lo sforzo previsto o adescati da interiezioni mobili. Il flusso narrativo disegna il senso della perdita, l’emergente connubio implicante la limitazione temporale che accenna alle volubilità delle epoche. La contraddittorietà propria di uno sguardo che si riconosce multiforme assiste passiva all’esuberante approccio scritturale dell’autore in uno scorrere che avvolge l’attenzione concessa al descrittivo profilo di una veggenza introversa, del non più “io è un altro” ma identità riconosciuta nel limite dell’altro; così come Di Paolo affonda il bisturi letterario nella personalità del limite proprio di ciascuno, enumerando l’aggettivazione calibrata sulla composta semantica delle articolazioni verbali. Questa volta diventa implicito, in questo “Romanzo senza umani”, riconoscere davvero la massima presenza invece degli umani stessi nel recitativo confronto delle parti, nella costruzione dell’immagine di sé che si vorrebbe oggetto del ricordo di coloro che abbiamo frequentato o anche solo sfiorato nei molteplici movimenti della nostra piccola storia. L’intransigenza dei rapporti interrotti, finiti, lasciati all’erosione di un tempo asettico, numericamente ridotto alla spoliazione del conto degli anni. Di Paolo, in questo suo esito, è fine psicologo, accurato biografo, prezioso distillatore di fascinosi paesaggi dove i colori sono vocaboli coltivati nella grazia inattesa di una tenda illuminata al neon, rigorosamente fuori da quei locali che abitano le memorie della nostra giovinezza. Il confrontarsi esigente con l’alternarsi della freddezza climatica, rievocata nello specifico evento storico, e di quella antropologica che ha ghiacciato i rapporti personali, è materia di una riflessione che imbarazza la nostra presunzione assertiva. Poniamoci allora di fronte alla evidenza del dato; scrive l’autore: “il vento insiste, squarcia lo strato basso di nubi e fa piovere quel poco di luce che ricolora di azzurro la superficie ghiacciata del lago. I cumuli di neve fresca brillano come piccole colline di sale”; mentre i capitoli si collegano in volo, fluendo da pagine aperte tra passato e presente, osservazione dell’ambiente e recupero delle voci. Ma la solitudine del protagonista è innesto di un esame di coscienza condotto dalla spinta degli appuntamenti mancati, di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Nel romanzo di Paolo Di Paolo soccorre l’ansito del significare possibile ma arduo nella condizione dell’offerta esprimibile ai mutamenti che caratterizzano il vissuto ma che, ad un certo punto, ci impongono le soste. Cosa realmente intende dirci il testo? Forse, sembra tra le righe di cogliere una risposta soltanto parziale con alcuni versi di Elio Pecora: “Quieti sediamo nell’ombra/ fra oggetti usati da tanto/ né conosciamo risposta,/ solo teniamo l’istante:/ il poco o niente che siamo”.

                              Andrea Rompianesi

 

 

lunedì 8 aprile 2024

Salvatore Smedile “La volontà dell’ovest” (Book Editore, 2024)


 

Ci sono sonni esposti ai mutamenti e veglie che intensificano lo sguardo. Oltre l’approccio del dire c’è un ritmo cadenzato che naviga in versi brevi assunti a struttura verticale, nella composta essenzialità dei rimedi. C’è un muoversi sul suolo non distratto che identifica una meta fisica da raggiungere attraverso il sentire della percezione. In questo caso la meta è Santiago di Compostela e il poeta/viandante Salvatore Smedile che con il suo “La volontà dell’ovest” ci accompagna attraverso le tappe di un procedere e, allo stesso tempo, riassumere l’esperienza rivolta a Finisterre, là dove l’orizzonte del mare comincia e la fatica della terra finisce. Certo “le ore cadranno dalle tasche/ piene di memorie/ che non si potranno/ raccogliere con una mano”; l’incontro scandisce il repertorio dei frammenti colti dal poeta nel caleidoscopio di figure, correnti, discese, soste, passaggi...”a volte tutto fugge/ senza lasciare tracce;/ a volte tutto rimane/ senza che si perda nulla”. L’autore sembra non voler limitare il suo dire alla necessità di un esito univoco ma, come nella migliore tradizione dello spirito del viaggio, in realtà il cammino stesso, osservante e pensoso, è già risposta e significato. Qui però sembra che un sottile strato d’inquietudine rivolga la sua attenzione alla presenza del timore; quello di confondere la caducità degli episodi con la frequenza insorgente della pulsione; la separazione implica sensibilità della cura, tremito operoso, dove le questioni dell’anima hanno estensioni impreviste, diciture incompiute, voci apprese che sono già echi. “Nelle orecchie una voce/ che cerca di svegliarmi/ da un oblio che dura/ da una vita” scrive il poeta “all’arrivo sarà/ più comprensibile/ questa opposizione”, ma è solo un auspicio che non inganna poiché l’arrivo è sempre e soltanto un nuovo inizio. Ad un certo punto, nel libro di Smedile, “il mare è nell’aria”: “Lo dicono le pietre/ i piedi, le scarpe/ i volti, i profumi/ i rumori”. L’elemento, la sua grandezza accoglie e sembra che davvero, come ha espresso in un suo titolo Giuseppe Conte, non si possa finire di scrivere sul mare. Non può mancare, comunque, l’ansia metafisica del “come tornare con la mente/ dove siamo stati con il corpo?/ Dove eravamo quando ancora/ non eravamo noi?”. Forse potremmo osare dire che eravamo negli occhi dei figli, i doni lungo il cammino sacrale, distaccato ed unito ai sussulti delle domande che nutrono la poesia. Ecco perché, scrive Salvatore Smedile, “E’ ora di andare/ di tornare da dove siamo/ partiti”, in un ciclo fertile che ci fa pensanti in tumulto, anche quando “sembra impossibile/ essere stati il cammino/ che non abbiamo deciso”.

 

                                                       Andrea Rompianesi

domenica 31 marzo 2024

Alessandro Assiri “Abitarmi stanca” (Puntoacapo Editrice, 2023)

 

                   


 “Una volta mi bastava poco, spostavo/ quattro mobili e credevo di aver compiuto una/ rivoluzione”; così si avvia la prima strofa, seguita poi da una seconda parte che si struttura formalmente quasi fosse un poemetto in prosa (in realtà tale ad una prosa poetica), di “Abitarmi stanca”, libro di Alessandro Assiri, “poeta di cose” come definito da Ivan Fedeli nella prefazione. Il senso effettivo della mobilità esausta, di una certa tensione alla rinuncia riscattata dalla immaginazione volitiva, comporta una visiva “occupazione della pagina” che rende molto stimolante lo sviluppo di una versificazione ibrida. Il verso che allunga il passo nella discorsività ritmica coniuga assonanza mite, ponderata, nella consapevole attenzione rivolta ai filtraggi di luce, ai chiaroscuri espressivi insediati nella tracciabilità delle imposte socchiuse, in una scolpita asimmetria dicibile perché pensata attraverso il rigore pervasivo dell’interpretazione capace di “significare” gli oggetti emersi. La quotidianità è altra e sospesa; di più, levigata nell’incisione scritturale, testata dalla modulazione pregnante dei termini nella loro solidità trattenuta, “da questa finestra che non si apre”. E’ certo esigibile l’oberato lavoro di spoliazione tra passi inseguiti e sensi di colpa accorpati in una vigilanza estrema, controllata, perché inerente al desiderio proposto di sollievo. Il “tu” è altro con diversa assenza; emerge una raffigurazione d’interni con gli elementi stessi posti a rievocare un vissuto, un pensato, in alterno susseguirsi dove le vicende sono granuli dispersi. Assiri contiene con una modulare esattezza l’involucro testuale in anticipo sul precluso, disposto agli accolti tratti levigati in spazi, in pause cognitive a dirsi opzioni per rielaborare il correlativo, l’attesa ciclica dell’ente fatto voce, condotto nella visibilità fruibile ma non esauribile. Azzarderei nel tracciato poetico una evocativa ontosofia laica diradata nelle flessioni di una quotidianità in frammenti dove l’episodio si fissa nella caratteristica percezione che si fa, appunto, sapienza delle cose. “Il mio azzurro ha una voce cruda non ha onde, è/ un reticolato/ un suono senza pace” scrive Alessandro Assiri “ E’ l’azzardo di uno scarto/ la terapia a scalare da un mezzo a un quarto”. Anche il verso lungo percepisce un richiamo prosastico ma, allo stesso tempo, si fa intriso di sospensioni a sua volta, non ammette prevedibilità di scansione. Il “tu” rivive negli enti, nei pensosi ancoraggi alla solidità esigua delle condizioni, negli anfratti percepiti e misurati dove, in diversi casi, scatta l’effetto sonoro della rima, sempre equilibrata. Poetare adulto, quello di Assiri, nella responsabilità del dire e del cogliere le fattezze misurabili di un esilio terreno. A volte l’intervento si fa estremamente contingente, quotidiano, volutamente concreto: “E’ così che tutto termina domenica come i divani/ senza nessuna certezza di esserci domani”. Certo la poesia va vista direttamente nello spazio della pagina per coglierne la sua natura anche grafica e visiva, il suo abitare attraverso lo specifico uso degli spazi, l’architettura dell’impianto testuale. Allora lo sviluppo porta davvero ad una dimora linguistica tangibile e dicibile, nell’acuta osservazione delle parti, nel retroscena attento del pensiero; comprendendo che il tentativo del poeta è di costruire, nell’evidenza dei particolari, un’autobiografia collettiva; così scrive : “Segno il tempo che manca in grovigli come nostalgie il corpo stanco di sbadigli dove davanti alle cose belle// ci si prende per mano”.

 

               Andrea Rompianesi

 

mercoledì 13 marzo 2024

Gianfranco Galante, Ti "racconto" perché, Circolo Scriptores, Varese, 2024

 



Si potrebbe definire lo scritto di questo testo “Ti racconto perché” come un poema d’amore e sull’amore. Infatti, a mezzo tra una serie di racconti, di poesie e di saggio, ci stanno una riflessione importante ed un invito. La riflessione è appunto quella riguardante l’amore in ogni sua forma e dimensione, l’invito riporta il lettore ad un esame di coscienza su di sé e sul mondo che lo circonda.

Ora, i racconti si potrebbero paragonare a degli exempla(1) che supportano considerazioni e valutazioni dell’autore, mentre le poesie traducono in sintesi le più svariate emozioni dovute a storie e accadimenti inerenti l’amore stesso.

Variegate sono le situazioni, ma una sola è la soluzione. Essa si traduce nella consapevolezza che l’uomo è un animale pensante, cosciente, dotato di una propria volontà e di un libero arbitrio che lo distinguono e lo fanno unico al mondo. Per questo ontologicamente si rende necessaria un’educazione all’altro, alla sua comprensione ed accettazione, e per questo basta una parola semplice che tutto racchiuda: amore. E non è la prima volta in cui Galante ci dà lezione, attraverso le sue opere, di moralità, civiltà e buon costume. Attenzione: moralità e non moralismo.

Si tratta allora di un trattato sull’amore? Certamente, ma non in senso filosofico sebbene poetico. Come ebbe a sottolineare Kant in un famoso detto: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.

Alcune riflessioni qui inserite erano già presenti nel De amore di Andrea Cappellano, come ad esempio: Nei piaceri d’amore non sopraffare la volontà dell’amante, oppure Conserva la castità per l’amante, ed anche Nel dare e nel ricevere piaceri d’amore mai deve mancare il senso del pudore. Ma Cappellano fu un autore medievale, con tutti i limiti che noi sappiamo e che non starò a sottolineare.

A tal proposito mi sovviene l’episodio dantesco di Paolo e Francesca, condannati non perché si amano ma per il fatto di essersi lasciati trascinare dall’irrazionalità della passione. Ed è una testimonianza, che l’amore è un elemento principale della condotta umana: da lì parte il tutto. Come lo dimostrano anche le parole di Cristo, o di Agostino d’Ippona che sostenne: “Ama e poi fa’ quello che vuoi”, perché era sicuro che l’amore conducesse solo al bene.

Dante attraverso quell’episodio del V Canto della Commedia condannava i romanzi cosiddetti d’amore che conducevano i lettori ad una pedissequa imitazione dei protagonisti.(2) Oggi non è più così. E non so quanti leggano ancora romanzi rosa, appassionanti e appassionati (lontane sono Liala, Delly, Mura, Guido da Verona, Pittigrilli). Oggi è la stagione degli influencer: questi sì, imitabili ed imitati e forse pericolosi, su alcuni aspetti, come lo fu, secondo l’Alighieri, Chrétien de Troyes con i suoi Lancillotto e Ginevra. Di per sé lo svenimento alla fine del Canto del Poeta dimostra come l’equilibrio amore-passione e razionale-irrazionale sia labile e il loro confine indefinito e indecifrabile, cui nemmeno Dante, soprattutto in età giovanile, poté sottrarsi(3).

Ma esistono purtroppo anche comportamenti inaccettabili tra amanti, meglio tra marito e moglie, ben sottolineati dall’autore e del tutto condivisibili. Non so se Galante abbia visto il film della Cortellesi “C’è ancora domani”, tanto giustamente celebrato. Di sicuro, però, il modo in cui in questo racconto-saggio viene descritto il rapporto uomo-donna è una chiara esaltazione di una unicità di legame paritario, attraverso la gentilezza, la comprensione, la non sopraffazione dell’uno sull’altra.

Nella seconda parte del testo, l’autore si sofferma sulla valorizzazione di altre culture, di altri saperi, di altri costumi. Ecco allora che da una prospettiva del singolo la visione offerta da Galante ci riconduce alla collettività. Un tempo, sostiene, gli emigranti eravamo noi italiani. Oggi noi siamo terra di immigrazione. Per questo dobbiamo saper accettare il diverso da noi.

Dalla “comprensione” empatica verso l’altro al discorso sulla guerra il passo è breve e naturale. La pace in fondo è un problema d’amore.

Così il libro diventa un vade mecum importante se non necessario da sistemare sul proprio comodino e sfogliare prima di addormentarsi, per un confronto con se stessi o per puro piacere intellettuale nella lettura di poesie e racconti come fossero favole o parabole divertenti oltre che esplicative e didascaliche.

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1)      Exemplum: racconto veridico a scopo didattico-religioso tipico della letteratura medievale, in cui il protagonista alla fine raggiunge la salvezza dell’anima. Nel corso dei secoli assunse un aspetto sempre più letterario, sino a confluire nella novella.

2)      “Quando leggemmo il disïato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante”.

3)      Si veda a tal proposito “La vita nova” in cui Dante tende a superare l’aspetto dolcestilnovista dell’amore cortese, portando l’amore a più elevata essenza e facendo della donna il tramite per raggiungere Dio.

   

Enea Biumi


martedì 5 marzo 2024

Lamberto Garzia “Live dealer” (Puntoacapo Editrice, 2024)

 

                                              

Croupier a vita inserito nelle interiezioni (intese come originate dal “gettare in mezzo”) estranianti per  passaggi focalizzati in piani narrativi che si alternano e si intrecciano attraverso salti temporali e cromatismi linguistici imprevisti. Assalti di personaggi estromessi da una finalità determinata per condurre inestricabili mutamenti al suono di luoghi e tentazioni ludiche o carnali, nella ricorrente sonorità dei rimandi a quella letterarietà che sviluppa una vera e propria prosa creativa. E’ “Live dealer” di Lamberto Garzia, testo-mondo forse postmoderno ma per lo più pagine gravitanti intorno a luoghi distanti e quindi comparabili nell’accezione dell’apporto, come la Liguria e il Messico. Terre di confine alla evanescente possibilità di determinare ogni spazialità tracciabile in multilinguismo a preziosa conduzione letteraria, quale garanzia ricevuta nel ricorrente riferirsi a spunti di rigore stilistico come quello espresso da Tommaso Landolfi. L’avventura di Garzia è nel corsivo delle incursioni tipografiche stesse; nelle proponibili infatuazioni dei gesti autoriali, nello stesso Lamberto che si pone autore e personaggio innestato nella non trama, come espediente ciclico nel vissuto occhieggiare generi impavidi e sottolineature erotiche apertamente provocatorie, senza escludere rigori critici quando è ferita l’incisione di un muro che divide un confine, che preclude l’orientamento libero. E di libertà l’autore avvolge le pagine dove il linguaggio perturbante e intertestuale coniuga celati rimandi ed estensioni liminari, digressioni fruttuose e proposizioni filmiche. L’intreccio delle arti suona dal fervore ammiccante di uno Sterne all’encomio latinoamericano di un Puig o di un Bolano. Un infrascritto che si azzarda, nell’azzardo stesso del giocatore, a pretendere l’emanazione del “mutuus dissensus” perché il contratto di lettura accolga possibilità di ricezione anarchica ed eversiva. Ogni singolo passo del testo è tutto il testo e, nello stesso tempo, non è se non frammento di tessitura dirompente, certo astutamente ludica. Misura di inconciliabile pregnanza sollevata dal contesto di una marcatura ambivalente, a inneggiare l’eclatante alternarsi dei toni stilistici determinanti la costruzione del possibile, quasi inteso come opzione e dicitura di una lettura del mondo nella sua più estesa realtà interrogante. L’espressione già tratteggiata di Lamberto Garzia in questo testo personalizza il sé ma non intende forse mai richiamare l’asserzione riconoscibile, piuttosto alludere ad una incisione nelle pieghe del tessuto vivibile, comunque empirico, di una opzione sempre accertabile, se non del nostro limitato fare, almeno in una coincidenza dove vita e scrittura possano coniugare la peculiarità creativa dell’avventura e dove la scrittura stessa interceda a sorreggere l’inesausta apprensione del nostro desiderio, così costante stimolo e reiterata pena. 


 Andrea Rompianesi


martedì 27 febbraio 2024

Angelo Manitta, Nel volto di Mirra, Il Convivio Editore, 2023

 


Rappresentare l’amore attraverso tutte le sue sfaccettature non è impresa facile. Tanto più se il racconto viene costruito in versi. Ciò evidentemente non ha spaventato Angelo Manitta che nel suo poema “Nel volto di Mirra” è riuscito a cogliere i vari gradi dell’amore trasportando il lettore in quel mondo sentimentale raccolto in personaggi mitologici e non, eroici o profani essi siano.

“L’amore è un fiore / nato dal nulla e nel nulla dissolto, // rinverdisce le giovinezze e smorza gli animi / nella vecchiaia inquieta, vissuta senza vita, / spenta senza morte, per reggere sulla croce / l’esistenza fredda dell’ultima parola”.

Il poema ha come un andamento di exemplum: un itinerario, tra finzione e realtà, che occupa una miriade di situazioni, luoghi, circostanze tra loro interagenti, animati e stimolati, sofferti e combattuti, immaginifici e verosimili. Il tutto in nome e per conto dell’amore.

Si sa che l’exemplum è un racconto veridico, tipico della letteratura medievale, a scopo didattico-religioso in cui il protagonista alla fine raggiunge la salvezza dell’anima. In questo poema rievocativo delle tragedie alfieriane gli exempla sintetizzano le più svariate emozioni causate da storie e accadimenti inerenti l’amore stesso. Eroi ed eroine affrontano il senso di vite tribolate, spesso contorte, sicuramente illuminanti ed illuminate da ardite metafore atte a dare il la a considerazioni e valutazioni che trasportano il lettore verso una analitica riflessione sull’oggetto amore. La salvezza dell’anima, contemplata negli exempla medievali, in questo caso, è la catarsi che alla fine di ogni episodio, dopo una delucidante e serrata dialettica, risulta essere la conoscenza del bene e del male.

“Dalle rocce dell’anima” grazie alla “figura ieratica d’un poeta” che “mescola la tragica verità con la vita” sgorga, come una magia e quasi per intervento divino (“Marte dal rosso viso d’azalea”, “impavidi profili che Antares ripercorre”, “nostalgie d’infanzie, curve soglie di mistiche gelosie”), una “eterna simbiosi” tra l’autore e il poeta che ha suscitato queste emozioni e   che ha fatto rivivere episodi e personaggi in una unità di sentire. Si scoprirà in seguito che il poeta influente è Vittorio Alfieri e lo sviluppo dei temi amorosi è la sequenza delle sue tragedie sulle quali emergerà il dramma di Mirra.

Prima ancora della rievocazione delle tragedie alfieriane, tuttavia, Angelo Manitta si sofferma sugli amori dell’Alfieri stesso: il primo, giovanile e folle, con Penelope Pitt (“La donna, dal manto di grano, appare / fugace baccante tra le braccia d’uno stalliere”); il secondo, non meno tumultuoso ma più duraturo, con la contessa d’Albany (“La trasparente figura d’Emmanuelle d’Albany / distrasse i miei occhi”).

Dopo la descrizione delle due donne che hanno trascinato con sé il cuore del grande astigiano, rivediamo Merope e la accogliamo tra le sue dubbiose riflessioni, “eternamente infelice (…) donna-oggetto, baratto / di sensualità, soprammobile abusato, / consumato da voglie malsane, / gettato nel letamaio d’una cloaca (…)”. Lo sguardo dell’autore poi si posa su Ottavia “che muore / tra fiamme inviperite d’una Roma incendiata”. Allo stesso modo si consuma la vita di Romilda, vittima d’una gelosia inconsulta, mentre “il vate impietrito si contrappose ai miei occhi” prosegue Angelo Manitta “Le sue immagini creaturali diventarono mie. / Una simbiotica osmosi fuse le emozioni”.

Il poema, ora, giunge al culmine dell’ispirazione trattando il dramma di Mirra. Inutile sottolineare come l’osmosi letteraria prosegua in un susseguirsi di immagini, riflessioni, metafore che coinvolgono l’emotività del lettore. Citerò solo alcuni punti che più mi hanno affascinato, rimandando il lettore alla scoperta di tutto il poema.

Sentite la delicatezza amorosa di questo passo in cui il padre, Ciniro, pensa e trasfigura l’immagine della figlia: “Il tuo volto di luna è sorto / ad oriente e il mio tenero cuore / luce imperlata di tristezza /evasa in arabeschi di libertà, // sussulta come un bambino danzante, / sorregge i tuoi occhi di perle, / incendia il mio senile tormento”. Oppure ammirate quegli spazi che Manitta dedica ai simboli e alle metafore come questi versi emblematici e che danno ulteriore vivacità al poema: “L’estate sorride a farfalle / esuberanti di luce e d’amore / sui rami inclinati dal vento, // sul volo delle rondini migranti. / I fiori occulti cercano / ardore di tombe. Vinceremo / il mare e le tempeste // per sfondare i battelli delle notti, inerpicarci a ruvidi orizzonti, / arrotare l’acqua coi coltelli / e spegnerci nel fragore delle onde”, dove si delineano sentimenti contrastanti d’amore, di morte, di tradimenti, di travagli, di sogni e speranze.

Insomma, si sovrappone in questo itinerario d’amore una miriade di impressioni che ora sembrano tempeste, ora dolce quiete. E le parole di Manitta diventano quelle dell’Alfieri, e quelle dell’Alfieri amplificano le parole di Mirra e di Ciniro, e la natura fa da sfondo e controcanto ad un dramma che diventa perpetuandosi eterno. Così che alla fine “i sensi si smarriscono tra le rughe degli anni, / rapide gocce di miele cospargono, / come lagrime amare d’una amata mirra, / il volto del vate che, statua di marmo, / accoglie, insensibile, venti e tempeste”. Ecco, allora, come il titolo stesso del poema viene di fatto recuperato. Nel volto di Mirra effettivamente vengono a specchiarsi Alfieri, i suoi drammi e, aspetto non del tutto scontato, anche Angelo Manitta.

Un ultimo e non meno importante commento va fatto a proposito della struttura del poema. I versi, come viene indicato dall’autore stesso, apparentemente sembrano liberi. Sono invece quadrimetri, cioè con quattro arsi principali e quattro parole portatrici di significato, oppure trimetri, vale a dire con tre arsi principali. Si tratta di una particolare forma che vuole evidenziare metrica e musicalità della poesia attraverso il recupero della parola chiave contenuta nel singolo verso. Alla fine di una accurata analisi attraverso esemplificazioni esaustive a supporto di quanto esplicitato sopra, Manitta sottolinea che “il lettore che si avventura nella lettura di questo poema, si troverà come in una foresta, rimarrà spaesato di fronte ad una poesia che esce fuori dagli schemi tradizionali e da un consolidato sistema letterario. Ma probabilmente, scoperta la chiave di lettura, si avventurerà con delizia, oppure poserà il libro sul tavolo per sempre.”

 

Enea Biumi




Anna Maria Scocozza - Floriana Porta, SIAMO FATTE DI CARTA, (Arte, Poesia e rinascita al femminile), Ventura Edizioni

  Davvero interessante e, oserei dire, originale questa raccolta che accomuna parole a oggetti fatti di carta, dando vita ad una ecfrasi che...