Singolare esito questo volume antologico, curato da
Francesco Dalessandro, che ripropone l’insieme dell’opera poetica di Alessandro
Ricci (1943-2004), figura particolarmente appartata e di profonda espressione
stilistica. Il volume contiene i due titoli pubblicati in vita dall’autore (“Le
segnalazioni mediante i fuochi”, “Indagini sul crollo”) e i tre editi postumi
(“I cavalli del nemico”, “L’arpa romana”, “L’editto finale”). Come afferma
Michele Ortore nella prefazione, la scrittura di Ricci è complessa ma per lo
più “ragionativa”; aggiungerei particolarmente sofferta e attraversata da due
corsi che anelano alla partecipazione esegetica. Da un lato la memoria storica
e mitica che affonda le radici nei più articolati riferimenti all’antichità
classica, dall’altro il personale e privato sentire posto all’offerta della
pagina, l’io denudato da orpelli e svelato nel pudore del concesso; tale solo
perché combattuto come ogni amore lacerato. Una connotazione evidente lo porta
spesso all’uso calibrato del poemetto, ma sempre in una formula che riesce a
valorizzare la tenuta timbrica del verso anche nell’approccio discorsivo,
differenziandosi nettamente su questo piano da sviluppi e recuperi storicamente
evocati da nomi e voci come avviene ad esempio nelle formule del monologo in
versi proprio di un autore come Roberto Mussapi. Nella poetica di Ricci il tono
è totalmente autentico, a volte irritato per una postura in esistenza mai
scontata o prevedibile. L’appello della sua voce sulla pagina impone attenzione
e domanda, quella ricezione accorta che scorge il guizzo esponenziale dove
nasce inatteso. Al di là di un impianto ricco di sintagmi colti, latinismi,
grecismi, arcaismi e tonalità policrome, quindi anche tracciate da espressioni
più concrete e dicibili, una compattezza severa ed esigente conclude l’operato
sulla pagina nel momento definitivo della delimitazione di ciò che svolge e che
conquista inoltre il diritto alla vocalità immediata resa pensosa dall’uso
dell’enjambement, dal dubbio che chiede prove d’amore impossibili. Ricci sembra
quasi richiamare un dio a cui dice di non cedere, affacciandosi alla necessità
della bellezza nella sua peculiare presenza in ogni cosa, pensando che la
religiosità cristiana sostenga che bella sia l’anima sola. Tutto il contrario.
E’ proprio il Cristianesimo, in realtà, quello autentico, che trova la bellezza
nel concreto seme più piccolo, nella sua beltà creaturale ancora indifesa,
proprio perché il cuore del messaggio evangelico ci rivela che il Regno è già
tra noi, e qualsiasi intolleranza non può certo essere giustificata da chi ci
invita persino ad amare i nemici. La domanda del poeta, allora, affonda nel
solco della distribuzione di un bisogno emotivo, struggente e, allo stesso
tempo, culturale, che sia auspicio di una vertigine pagata col prezzo della
disputa, dell’irrequieto accadere dei crolli reiterati. Chi legge è spinto alla
voglia di dialogare con l’autore, di soffermarsi su parentesi di trattato alla
luce di una esigenza esistenziale misurata nella solidità di una figurazione
mai gratuita, scontata; sempre acuta, invece, interrogativa, esigente perché
mossa da quel rovello interiore e perenne che rivela l’intimità dell’artefice,
lo nutre di squarci quotidiani e mitici che s’intrecciano. Particolarmente
suggestivo anche l’uso del verso breve: “Nel golfo balenavano/ le correnti
soltanto,/ in mosse pigre di nuvola”; quando è accorto il sentire di ciò che
scuote, agita, “ed è già ieri, dilaga/ l’appena stato”, e ancora: “Poi
ricomincia./ E’ una fine potente,/ spettacolare, da/ vergognarsi”. Il luogo, la
topografia romana in particolare emerge in tratti estremamente nitidi e incisi,
a volte quasi scolpiti da perizia nomade, perciò indocile: “Come hai fatto a
estrarre un cielo/ dai tetti e rondini valorose e il colore/ ocra della città,
o le conversazioni...”. Una maestria poietica concentra strutture lessicali in
imprevisti innesti che rendono acuti e profondi i confini della versificazione
e positivamente stupisce il tocco maturo del rimando: “Già dunque oltreautunno
è arrivato qui,/ è carica la strada di gente calda/ sotto i cappotti e che
chiasso bene o male/ si leva, tamburo assai più di pifferi cresce/ e sale ma
non sbarazza/ questo freddo improvviso...”. Il tono di Alessandro Ricci è
temerario, le sue strofe sanno dirsi pensanti e variabili nella lunghezza, in
una conduzione abile e attenta del periodo; riavvolte nell’abdicazione a ciò
che imprime l’usuale, scegliendo il recupero accolto nelle trepidazioni che
guardano a storie e cenni proponenti le peculiarità dei riflessi classici di
miti trascinati sulla strada randagia del vissuto, e quando le parole si fanno
più comuni e transitabili è allora, in quel momento, che l’avvenuto rilascio
pone i vocaboli in una successione imprevista. Li mischia nella concretezza del
loro essere scrittura di pensiero. A volte, in lontananza, sembra di cogliere
echi della poesia di Leopardi e Pascoli, annunci di un cammino nella vanità del
tutto sul far della sera. Ricci è autore che incide i suoi versi sulla pelle
del vissuto, in una partecipazione che non può dirsi mai parziale, ma
interamente testimoniata dalla stessa forza di una corporeità gettata nello
spazio della pagina quale luogo da abitare nella consapevolezza dello stesso
rischio esistenziale. “Vissi della corona sul picco,/ il tempio nell’astratta
nube/ di devozione che saliva, scoprendo poco/ a poco la linea di confine
errante/ fra mare e rena, nella stagione nata/ insieme al giorno, all’ora...”;
è l’erranza quindi in una visione duplice del vagare e del poter sbagliare, in
una profonda domanda che incunea e svolge inquietudini agostiniane. C’é poi un
senso di rimpianto diffuso echeggiante figure femminili, amori che hanno
deluso; domanda sulla possibilità di trattenere qualcosa che inevitabilmente
sfugge o non mantiene la peculiarità della promessa. I tempi si avvicinano,
s’intrecciano; la sofferenza di Catullo è quella del contemporaneo sentire che
ridisegna le agnizioni e ripete i timbri inagibili del rifiuto, dell’attardato
ritrarsi, dell’inappagato contorno. Molto evocata la figura del padre, un
riferimento di forte ausilio, una memoria esperita nella disanima del legame
apparentemente perduto, scrive Alessandro Ricci: “E poi mai, mai/ potrò dirtelo
e toccarti di nuovo”. Ma noi sappiamo che ogni bene consacra, rimane; così
confidiamo in un incontro avvenuto, presente, notando che ancora “laggiù si leva/
il fumo delle colazioni”.
Andrea Rompianesi