In una nota finale ed
esplicativa di questa silloge Fabio Scotto ci ricorda la sua idea di poesia,
che rivela poi il suo modus operandi,
e cioè: “costante fedeltà all’autoascultazione
del corpo, della sua voce e dei luoghi del mondo”. Che didascalicamente
tradotto significa privilegiare il campo dei cinque sensi, come insegna la
lezione leopardiana. In effetti non c’è pagina in cui non si presenti la
materialità ontologica che si trasmuta, per magia di parola, in una visione
meramente pura, scevra dai ceppi illusori della semplice realtà, la cui
scaturigine sperimenta un’idea totale della scrittura intesa come poetica,
teatrale, lirica. Si innesta così una specie di non-luogo, di non-tempo (o
meglio: oltre-tempo), che si dipana nel duplice binario antipodale: hic et nunc, da una parte, e ascesi inesprimibile,
dall’altra: al pari di quella zattera
gremita d’invisibile di Raboni.(1)
Il trait d’union che
agisce da stimolo, sia di lettura che di scrittura, è il sentimento (desiderio,
voglia, urgenza, tensione) d’amore. Si potrebbe nel concreto partire da questi suoi
due versi, inclusi nella lirica Le parole,
come ex ergo o incipit di critica al volumetto: “Ti dico ‘amore’, rispondi ‘amore’/ E già la sera è più serena”. Sì,
perché l’amore la fa da padrone (mi si permette la semplicità di questa
espressione), risultando il dominus indiscusso
e riconosciuto di tutta la raccolta poetica, l’elemento centripeto e
centrifugo, colto in ogni suo spessore, nella sua poliedrica consistenza e
nella sua necessaria ambiguità.
Nel pezzo iniziale,
altamente drammatico, e che dà il titolo a tutta l’opera “Storia di Emma C.”, la protagonista, Emma appunto, racconta la
propria vita di fanciulla povera, dove la fatica del quotidiano e la miseria si
accumulano di anno in anno. Mentre i genitori non tralasciano di azzuffarsi,
anche per un nonnulla, Emma si ritaglia uno spazio tutto suo, un recinto di
protezione che sarà alla fine spezzato, una volta raggiunta la pienezza di
donna, dalla violenza e dallo stupro del padre su di lei. “Io che ti amavo se mi tenevi in braccio/ se mi donavi bambole di
pezza, o un gelato/ eccomi lacera e vuota/ qui tra la latta e il vetro/ nel
silenzio del sangue…”. Il padre verrà denunciato e portato in galera, ma la
povertà costringerà la protagonista a prostituirsi. “Il mio corpo è altrove/ persa
ne è la chiave/ Così Emma C. muore…/ Cercatemi nella gola di mio padre/ Nelle
tomba degli elfi/ Nella bava del sole”.
Questo monologo teatrale(2)
mette in luce, come in un metaforico caleidoscopio, l’ambiguità dicotomica insita
nel concetto d’amore, rivelando (è il suggerimento dello stesso autore) un non lieto fine, quell’impossibile su cui insiste la filosofia di Georges Bataille.(3)
E non c’è chi non veda che la realtà si trasforma, oltre che in denuncia, in
intensa riflessione sui comportamenti
umani. Ecco lo scarto di cui parlavo inizialmente. I luoghi, i personaggi, le
azioni diventano ipso facto universali.
Sforano in un oltre, immateriale, dove la carne si fa coscienza e la parola
assume la probità della ricerca della verità.
Allo stesso modo possiamo
intendere gli altri capitoli del volumetto, forse meno drammatici ma comunque
sinceramente vitali e di interesse. Così il “Diario
di Ciutadella” diventa l’occasione per un dialogo d’amore con il padre. Qui
l’elemento autobiografico prevale chiaramente, tuttavia non pregiudica la prosa
poetica, rimanendo sempre in un ambito “alto”, come se Fabio Scotto ritraesse
se stesso e il proprio padre, in una sorta di linea d’ombra del ricordo, non
tanto per speculum in aenigmate
quanto dentro lo specchio medesimo. “Carrer
del Portal de la Font/ Carrer del Dormidor de las Monges/ Una panchina riflette
la mia ombra/ Basta poco, purché la vita duri”. In tal modo la meditazione
non è solo sul rapporto d’amore fra padre e figlio, sui loro gesti, sulle loro
aspettative o intenzioni, bensì uno scoprire che al di là del muro, che li ha
separati, la vista si spalanca su nuovi orizzonti, offre infinite letture. E
c’è un passaggio, nel diario, da non sottovalutare, perché rinforza l’immagine
di un poeta non astratto, non lontano dalla realtà, anche quando parla di se
stesso. Lo cito nella sua completezza perché dimostra, se ce ne fosse bisogno, come
la poesia, quando è veramente tale, non è né cieca né sorda. “Altri pianti di bambini meno udibili e meno
visibili solcano in queste ore il Mediterraneo su vecchie barche sovraccariche
di carne umana votata al macello, la cui vita conta ormai meno di nulla e non
godrà della misericordia dei pescecani (i peggiori sono quelli umani). Ecco
la vita in tutta la sua complessità, con tutte le sue ferite, nei suoi momenti
più brutali di una morte ingiusta. Forse per questo si rende necessario
proseguire, continuare, ridisegnare nuovi spazi, nuovi progetti, nuovi
dialoghi. “La vita è un hangar dal quale
spicchiamo voli senza senso./ Il senso, se c’è, padre, sta nel volo, non nella
meta, né nel consenso (maestra fu da sempre in tal senso l’Itaca di Kavafis)”.
Un altro capitolo di
questa raccolta poetica si intitola “Trittico
lericino”. In esso il poeta, di origini spezzine (importante sottolinearlo),
ritrova i colori e i sapori della sua terra natale e soprattutto si congiunge
idealmente alle orme di artisti che di quei luoghi hanno valorizzato il nome. “Qui sono nato/ nel Golfo dei Poeti/ dove
ogni hôtel/ si chiama Byron o Shelley” Per continuare nei versi successivi
con una nota di melanconica autobiografia, come se, magari inconsciamente,
volesse stabilire quasi un confronto con l’esperienza di chi, poeta, l’ha
preceduto: “E la Venere che invoco ogni
mattina/ ancora tarda/ ancora non risponde”.
Molto più esplicito,
invece, è il rapporto con la sua Venere (F.) nel capitolo intitolato Movenze. Si tratta di una sequenza di
amore erotico che il verbo poetico sublima ed isola in istanti di fermo
immagine, dove però non viene meno la consapevolezza che qualcosa forse domani
potrà mancare: il tempo, l’anima, il corpo? “Prendimi
il sangue delle labbra/ la febbre feroce che mi salva/ Domani poi saremo nulla/
Ora cullami nel volo/ lubrica tua fanciulla.”
Nella sezione successiva Flamenco l’amore s’intreccia alla danza,
s’incontra nel canto, si abbandona al ritmo sensuale delle chitarre. È un
turbinio d’immagini sempre in movimento, un accumulo di sensazioni uditive e
visive che trascinano il lettore entro le tipiche taverne spagnole dove il
flamenco è il re della serata. Rivivono suoni e movenze: afrodisiaci momenti. “Non tori, né banderillas/ solo lei che
fugge/ o lui che non la piglia/ il cerchio si stringe/ tintinnano caviglie/ e
palme sulle cosce/ tonfi di pece sul costato.” La bravura poetica di Scotto
in questo caso, ma non solo, si rivela in tutta la sua dimensione. L’andamento
della lirica segue l’andamento del flamenco, il trasporto è immediato, non c’è
tempo per respirare o per pensare: esiste solo quel momento, immerso nel ritmo
incessante dei suoni e della danza. “Ma tu
danza/ sul mio cuore ferito/ danza, danza, danza,/ sul mio cuore rinato/ danza,
danza, danza/ contro il freddo che sento/ nel silenzio del mondo/ con la voce
del vento/ tu sia amato tormento/ Flamenco.”
L’ultimo segmento della
raccolta, Nostos, rievoca i luoghi in
cui l’autore è stato, le sensazioni avute, il rapporto con gli altri e in
particolare con l’altra. Le città visitate diventano àncora di salvezza, forza
per proseguire, invitano alla coscienza di un sé intelligente nella conoscenza
del mondo. “Sapermi solo/ Ma è solo un’ombra/
nel blu del tuo bel riso/ Wisla, viso, vivo, scrivo”. Questa, dunque, la
consapevolezza del poeta che, immerso nelle contraddizioni inquietanti della
vita, riporta alla luce ciò che spesso non vediamo e non udiamo perché le
parole che quotidianamente sentiamo sono distanti dalla verità e non ci permettono
di percepire la realtà. Per questo il ritorno, non solo fisico bensì
spirituale, non è mai inutile o scontato: è la percezione che qualcosa di umano
ancora rimane: è la forza della poesia. “Nostos
l’amore/ Nostos ogni primo fiato/ l’esilio espiato/ tra orde di aguzzini in
foia/ e gente che muore in strada/ d’inedia e di freddo/ frollata dal vento
della storia”.
Enea Biumi
1)
Giovanni Raboni, Quare tristis, Mondadori, Milano, 1998
2)
Storia
di Emma C. è stato rappresentato dall’attrice Eugenia Marcolli,
con adattamento e riduzione, al Teatro Santuccio di Varese, il 24 novembre
2019, per la regia di Nicola Tosi.
3) “Il progetto di raccontare il
desiderio umano diviene un ricettacolo del torbido che spalanca una rivelazione
inedita delle nostre esperienze interiori, il loro dialogo con la violenza, il
gioco, il teologico e l’ateologico”. (….) “….la speculazione di Bataille si dispone
intorno alle privilegiate esperienze di naufragio dentro cui l’uomo può
sperimentare una differente versione di sé, aliena ai codici razionali dentro
cui la storia lo ha adeguato. L’indocilità della nostra parte sacra e maledetta
coinvolge Bataille in un inseguimento dell’impossibile fatto di silenzi,
ingorghi concettuali e poetiche esplosioni di riso che erodono le norme discorsive
e l’autenticità stessa delle strategie con cui invano tentiamo di disciplinare
definitivamente la nostra inquietudine erotica.” Tratto da: Georges Bataille: la mistica
dell’osceno, tesi di Laurea di Diletta Caimmi, anno accademico 2016-2017, Università
di Bologna, relatore prof. Vittorio D’Anna.