lunedì 7 giugno 2021

Carlo Zanzi, Sassolungo, Robin Edizioni, Torino, 2020


 

Come una doppia cartina di tornasole potrebbe essere letto questo nuovo romanzo di Carlo Zanzi. Da una parte emerge la storia di Varese, che scorre nel cosiddetto secolo breve, attraverso l’evolversi dell’aspetto architettonico, urbanistico, perfino toponomastico; dall’altro si assiste al rapporto nonni nipoti alla cui ombra affiorano amori, dissapori, difficoltà del vivere quotidiano, soddisfazioni e risultati ottenuti. Al di sopra di ciò, come fosse un inedito falso scopo, la passione per la montagna, non solo quella dolomitica, ma anche quella prealpina. Sebbene morfologicamente differenti i due gruppi alpini possono considerarsi simili per come si impongono all’animo umano, per come ne forgiano lo spirito e ne equilibrino la mente. Non a caso l’opera si apre con il protagonista intento a scalare la vetta del Sassolungo e termina con lo stesso protagonista al Campo dei fiori. Almeno, questo è ciò che appare leggendo il romanzo. Non due realtà di montagna, bensì una. Ma andiamo con ordine.

Parlavo di secolo breve. In effetti il racconto si snoda dal 1910 al 1987 e ci indica il percorso di una famiglia varesina, ben radicata nella propria terra e soprattutto ben addentro nella storia generale dell’Italia e del mondo. Non c’è pagina, o quasi, infatti, che non faccia riferimento esplicito o implicito a Varese. Si può affermare senza ombra di dubbio che sia proprio la città la coprotagonista del romanzo. Una città che si muove nel tempo e nello spazio e che l’autore accompagna, passo passo, prendendole la mano come fosse una persona, accarezzandola, dipingendola, vestendola e svestendola, orgogliosamente con amore. La storia e le vicissitudini della famiglia Frigerio si intrecciano con Varese e ne fanno un tutt’uno indivisibile, anche quando il racconto parla della guerra, delle Dolomiti, dell’Albania, o altro. Il lettore che non conoscesse la città la può rivivere attraverso minuziose e realistiche descrizioni, oppure tramite il nome di vie – che cambiano nel tempo – piazze, Chiese, opifici – il Calzaturificio, in primis – o bar e pasticcerie. 

Il paesaggio quindi non è solo motivo di cornice, sfondo di abbellimento, bensì parte essenziale del romanzo. Ma non solo.

A un certo punto del racconto c’è una frase illuminante: “Scrivere è una liberazione e un conforto. Non ha mai provato la paura di essere dimenticata?” A pronunciare queste parole è Gabriele, che si rivelerà essere nel prosieguo dell’opera Guido Morselli. Lo scrittore varesino che si ritroverà vittima della sua scrittura proprio perché inascoltato e continuamente rifiutato dalle varie Case Editrici. Ma quella domanda è un po’ anche il centro del romanzo, ne costituisce una motivazione. Non voglio scomodare i classici della letteratura, italiana e non, è pur tuttavia chiaro che i maggiori autori, chi più chi meno, avevano preso in mano la penna oltre che per trasmettere un proprio messaggio anche per prolungare la propria esistenza al di là della morte. Ecco allora rivelarsi fondamentale e importante il rapporto genitori figli, e soprattutto nonni nipoti, dove si infrange o si tenta di infrangere la barriera del tempo.

Ogni capitolo del romanzo riassume grosso modo le vicende di un anno – alcuni anni si dilatano in più capitoli, altri anni non vengono menzionati. E sotto i nostri occhi trascorrono i cambiamenti di una città e quelli di una famiglia. Così le vie o le piazze possono cambiare nome e divenire più spaziose e più comode, e i personaggi cambiare lo status in bene o in male, essere fedeli al proprio partner oppure cercare altre avventure, magari anche omosessuali, diventare famosi architetti o fallire nel cercare consenso alla propria scrittura. Quello che rimane è comunque lo spirito varesino: la bottega, il lavoro, l’arte (dalla musica, alla pittura, alla scrittura). Non per nulla nel romanzo vengono rappresentate figure tipiche della cultura varesina: da Guido Bertini a Piero Chiara, a Morselli, tanto per citare i più famosi. In modo particolare rimane la vita, in ogni suo aspetto, con la sua sofferenza, con la sua instabilità, con le sue pur misurate gioie. Una vita che si dipana nel corso di tre generazioni, fermandosi alla soglia della quarta, come un’improvvisa frenata di bicicletta.

Può anche trattarsi di un bildungsroman come si afferma nella quarta di copertina, sebbene le tappe di formazione riguardino più personaggi e più vicende tra loro intrecciantesi. Ciò che prevale però sul romanzo di formazione è il desiderio di dar corpo rappresentativo al sentimento dell’amore: amore per i luoghi nativi, amore per i padri e le madri, amore per le generazioni future. È probabilmente a quest’ultime che il romanzo si rivolge in maniera molto più forte e dirompente, offrendo loro un messaggio di verità. Non contano gli errori, i tradimenti, i cambiamenti voluti o non voluti. Ciò che non va dimenticata è la radice a cui tutti siamo aggrappati: figli, padri, nipoti, luoghi che ci hanno visto crescere e vivere, a volte nell’inconsapevolezza delle verità più ovvie che hanno riempito la nostra esistenza. Lo stesso uso, frequente soprattutto nella pima parte del romanzo, del dialetto dà l’impronta di un innato desiderio di continuità col passato, che la morte non può sopprimere. Anzi. Ne esalta e riproduce l’aspirazione. Come quell’anelito che conduce nonno e nipote a percorrere chilometri su chilometri in bicicletta in un sogno di eterna giovinezza.

 

Enea Biumi

mercoledì 26 maggio 2021

Andrea Rompianesi, La donna grassa, transeuropa, Massa, 2021

 


 


L’esergo introduttivo, (“La mujer gorda venia delante / arrancando las raices y mojando el pergamino de los tambores” “La donna grassa andava avanti a tutti / strappando le radici e bagnando la pergamena dei tamburi”) insieme con la breve ma didascalica nota inziale, traccia un percorso esegetico lungo il quale il lettore è portato a soffermarsi e a riflettere. Due sono gli elementi essenziali che preannunciano l’argomentazione testuale: da una parte il poeta Garcia Lorca, dall’altra il pittore Botero: l’uno e l’altro vincolati da una entelechia imprescindibile – che oltretutto dà il titolo alla silloge – : la donna grassa. Il contenuto transita quindi in un apparente realismo offerto per altro da segni di evidente oggettività (“le tracce scandite / incise su pietre selciato a terra ancorate”, “rilievi di / luce ancorate alla notte”; “vetture ai lati della strada”; “le belle luci a goccia / nitide / dei lampadari”). Ma il significato in poesia, e soprattutto nei versi di Rompianesi, non può prescindere dal significante, essendo strettamente complementare nel formare quell’unicum che dà senso alla scrittura. La verifica di ciò è data dalla musicalità che traccia la destrutturazione dei versi tra poesia e non-poesia, là dove, come giustamente afferma Massimo Scrignòli, esiste “la necessità di un dire che fortunatamente esula dalla piattezza”. Ed è necessario affermare che il significante si colloca in due piani diversi, sia ben paralleli. Questa silloge poetica di Rompianesi, infatti, come un’opera teatrale, ha due tempi: nel primo si esplica il dramma, in una anamnesi meticolosa e passionale, nel secondo si risolve il conflitto. Allo stesso modo c’è un prima del tutto nominale, costruito per lo più in novenari-endecasillabi con le più svariate assonanze, ed un dopo in cui la scrittura simula la prosa in spazi scenici ben coordinati e precisi, come se la poesia appartenesse ad altro, come se il poeta volesse trasportarci in atmosfere da cinematografo o d’arti visive. Ecco allora che quella citazione iniziale ripresa da Garcia Lorca prende corpo e visibilità nelle forme delle donne di Botero. E bene ha colto nel segno Paolo Ruffilli quando sottolinea “Titolo felice, per di più all'insegna degli straordinari poteri della poesia di Garcìa Lorca (a me particolarmente caro) e nel riflesso a specchio delle donne di Botero.” La tela che di solito separa l’attore dallo spettatore si squarcia, la quarta parete si dissolve e il lettore-spettatore si immerge in un “cadenzato passo di ballo” o in una “tenue serale orazione”, seduto o sdraiato su “un divanetto bianco moderno / del locale notturno”, dove “la donna grassa coltivava ricordi allegri (…) a contendere assorta viavai di passanti”. L’incanto di questa donna grassa ci coinvolge, conducendoci oltre la realtà, in luoghi senza tempo né orologi, in passioni immaginate e mai terminate, là dove “il volo tra i fantasmi del gioco trascina me lettore – afferma Ruffilli – in mezzo ai lampi di luce e sciabordio di flutti dietro al ritmo dei versi". Ricordava Ungaretti in una nota alle sue poesie che la parola (cito a memoria) ha valore come suono. Questa raccolta di Rompianesi conferma ancora una volta la validità di quell’affermazione: la musicalità ottenuta attraverso i suoi versi avvalora la realtà e la percezione che di essa abbiamo.

Enea Biumi


martedì 25 maggio 2021

“LA MAESTRINA DEL COPACABANA” di Enea Biumi a cura di Vincenzo Capodiferro

 

Mi permetto di pubblicare il commento di Vincenzo Capodiferro al libro di racconti "La maestrina del Copacabana" tratto dal sito  http://insubriacritica.blogspot.com/2021/05/la-maestrina-del-copacabana-di-enea.html.



Raccolta di racconti, misticamente realistici, di Enea Biumi

“La maestrina del Copacabana” è una raccolta di racconti di Enea Biumi, edita da Genesi, Torino 2021: risultata vincitrice a “I Murazzi per l’inedito 2020” (Dignità di stampa Narrativa). Riportiamo uno stralcio della motivazione della giuria: «I cinque racconti del noto scrittore varesotto Enea Biumi, riuniti nel libro… risultano ambientati nell’arco di anni che va dal fascismo fino all’affermazione in Italia della civiltà dei consumi e del welfare, ma mantenendo uno sguardo di particolare attenzione al ceto contadino e per lo più piccolo-borghese, con qualche eccezione riservata ai ceti più agiati e ristretti della società…». Ah ceto contadino! Nostalgia degli intellettuali di tutti i tempi! Chissà perché? Mi fa ricordare con affetto quella civiltà contadina che anche io ho vissuto nella mia fanciullezza, quella civiltà tanto celebrata da Carlo Levi nel suo “Cristo” e perché no? Da Pier Paolo Pasolini nel suo “Vangelo”, girato a Matera. Quel bucolico Tityre tu patulae…! Sandro Gros-Pietro ci dà una sintesi dell’opera di Biumi: «Il racconto iniziale fornisce il titolo all’intero libro e mette a fuoco … la bigotteria bacchettona… della vita provinciale»: la protagonista è una “maestrina” di scuola elementare, Nuccia, che si fa chiamare Schilly, quando fa l’«intrattenitrice di locali notturni». «Nel secondo racconto si assiste ai divertenti e tortuosi percorsi di avanzamento sociale dell’intraprendente e galante Serafino che da trovatello riesce ad emergere…». «Il terzo racconto si dipana intorno al fil rouge dei luoghi sacri al poeta Ungaretti…». Il quarto racconto si presenta come romanzo breve, come sottolinea il Gros-Pietro, ed ha come protagonista «(…) un vecchio che rivede la sua esistenza, fino all’ultimo respiro». L’ultimo racconto è l’unico ad essere ambientato in un contesto di personaggi decisamente agiati, nel quale il maestro di windsurf compie la sua scalata fra piaggerie, incantamenti e meschinerie». A dire il vero anche la borghesia è scomparsa come ceto, non c’è più, c’è solo la sua ombra che viene inseguita come un mito. Ed anche gli operai, dove sono? Oggi abbiamo una massa amorfa e “baumaniamente” liquida, sulla quale galleggiano solo i super-capitalisti, nascosta nei loro club fantasmagorici. Biumi ci sorprende sempre, tanto che non ci peritiamo se lo sentiamo definire il novello Chiara. Ci offre in questa raccolta la sintesi di modelli ideal-tipici - nel senso weberiano - sociali: la maestrina, il povero risalito, il vecchio, il nobile caduto. Il proverbio antico diceva: Dio ci liberi dal povero arricchito e dal ricco caduto in povertà. Questo forte disagio sociale lo ritroviamo riportato in questi personaggi senza tempo, i quali come maschere pirandelliane (e ben conosciamo la passione teatrale del Nostro) sono sempre attuali. Noi lasciamo al lettore di gustare questi fantastici cinque piatti letterari, ci vogliamo soffermare solo su alcune riflessioni. La prima è la figura della maestrina, egregiamente tratteggiata dal Nostro: «Schilly… era insegnante al Pio Istituto del Sacro Cuore di Gesù. Aveva scelto quel lavoro non per vocazione ma per imposizione. Non che le piacessero i bambini. Tutt’altro. Ma avrebbe preferito un altro impiego. Magari segretaria. O consulente. O hostess. O animatrice dei villaggi vacanze. E invece… fu subito assunta… Sua madre, un tempo maestra… le fece da garante. Nonostante ciò il suo comportamento era irreprensibile. Nessuno avrebbe mai potuto avere alcunché da ridire. Mai la si era vista civettare con uomini, mai un alterco con chicchessia, mai un atteggiamento ambiguo… Anche il suo abbigliamento …». Che dire? Magistrale introspezione psicologia di una figura cardine che ha deformato intere generazioni. Inutile ribadire che maestrina era la madre di Benito Mussolini, Rosa Maltoni, e che lo stesso Benito era un maestro di scuola. Il fascismo deriva da questa malattia. L’altra riflessione che volevamo fare su quest’opera di Biumi concerne naturalmente il grande Ungaretti: è il terzo racconto, “Una corolla di tenebre”. È un omaggio al grande, vero, autentico maestro, che si contrappone alla figura della maestrina. Tra l’altro in una nota sottolinea: «Queste pagine, a firma di Giuliano Mangano, si salvarono dalle rovine della Casa editrice milanese «La Mentira», una volta domato l’incendio che nell’ottobre del 2017 la devastò quasi totalmente». È una parafrasi narrativo-esistenziale de “I Fiumi”: «Se Ungaretti nel torbido della Senna si è rimescolato e conosciuto, anch’io con il mio itinerario, dal Nilo alla Senna, come il Poeta, ho compreso chi fossi, in quei fiumi ho ritrovato me stesso». Un commento che Faceva Francesco Puccio a “I Fiumi” di Ungaretti: «L’immersione nelle acque, secondo il simbolismo che è ad esse proprio, comporta una morte iniziatica, cui segue una rinascita, una riconquista dell’identità perduta ed un’espansione dell’Io a tutte le modalità dell’esistenza» (Testi e intertesti del Novecento, Lecce 2000, p. 441). Così per il nostro Enea questa immersione nel fiume eracliteo (Panta Rei) dove l’acqua non è mai più la stessa, è un battesimo vero e proprio, una purificazione, una catarsi, che si sviluppa – aristotelicamente – attraverso l’arte, soprattutto l’arte tragica. Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, è nato a Varese nel 1949, si è laureato in Lettere all’Università Statale di Milano. Ha insegnato per tanti anni nelle scuole superiori, dove ha diretto anche un laboratorio teatrale. Ha pubblicato diverse opere: le raccolte di poesie “Viva e abbasso” (1985); “Le rovine del Seprio” (2010); “Il seme della notte” (2014); il romanzo “Bosinata” (2014). È presente nell’antologia degli scrittori varesini “I stràa d’ra Puesìa” con la raccolta “Quàtar vèers tiràa de sbièss” (2012). Ha collaborato a diversi volumi, come: “Consorzio Casa di Milano: 1962-1972” (1973); “Il movimento cooperativo italiano”, Baldini e Castoldi 1975. Ha scritto opere teatrali. Ha tradotto poeti in lingua castigliana di area sudamericana in collaborazione con Maria Luz Loloy Marquina. È stato direttore con Martin Poni Micharvegas della rivista “I poeti nomadi”. Fa parte del “Cenacolo dei poeti e prosatori varesini e varesotti”. 


Vincenzo Capodiferro

giovedì 29 aprile 2021

Gianfranco Galante, La vita pretende dignità, Pietro Macchione Editore, Varese

 


Il leitmotiv che fa da trait d’union ai tre racconti (“Salto di gioia (lettera breve)”, “La vita non dimentica”, “Sopravvivere e rivivere”), rendendone un unicum come fossero un romanzo, è la vita che assurge a protagonista e, filosoficamente, si pone come specimen di questo nuovo e interessante scritto di Galante. Didascalicamente si potrebbe parlare di un saggio accompagnato dagli esempi, là dove l‘exemplum si traduce nella verità e veridicità della narrazione incanalata nell’ottica dell’etica e dello spirito sociale che guarda alla coscienza senza sconti per nessuno. Si avverte una frattura, netta e oserei dire incolmabile, tra la persona che ben agisce e quella invece che male si comporta, adagiandosi nell’alveo egoistico e spesso violento (per non dire omicida) di chi vuole tutto per sé e non concede nulla, ma proprio nulla all’altro, diverso da sé.

Lo si percepisce immediatamente dal primo racconto (“Salto di gioia (lettera breve”) in cui il suicidio finale non è altro che la conseguenza di piccoli e continui soprusi e incomprensioni, vale a dire una morte annunciata. Perché “la vita pretende dignità e quando questa ti venga sottratta, calpestata, umiliata e mai restituita, significa che ti è stato negato il “rispetto e la dignità che la vita merita”. Questo, la vita racconta!”. Allo stesso modo, il secondo episodio (La vita non dimentica”) riporta il caso di un’esistenza vissuta nello squallore più totale, in cui ogni possibilità di redenzione viene sempre meno per ignoranza, mancanza di educazione, bullismo. Il male che Sasà riceve fin da piccolo viene riversato da lui, ormai adulto, su due donne che subiscono violenze d’ogni genere. A sua volta però il male gli si ritorce contro. In fondo “la vita non si dimentica di te e, quando ne abusi, la vita se la riprende.” In “Sopravvivere e rivivere”, infine, sono narrate le tribolazioni di chi desidera dare una svolta alla propria esistenza cercando altrove il bene per sé e per la famiglia. Il dramma è specifico del nostro tempo che vede migliaia e migliaia di uomini e donne abbandonare il proprio paese per un destino meno avverso. Le vicissitudini che Laka, insieme con il neonato Gabriel, deve sopportare sono al di là di ogni possibile immaginazione. Eppure non le viene mai meno la speranza, piuttosto che il desiderio o l’aspirazione di raggiungere lo scopo prefissato, anche perché sul suo cammino (dal Perù all’Italia) la protagonista incontrerà, oltre ai soliti malvagi approfittatori, persone di buon cuore, non ultimo l’industriale che l’aiuterà a ricongiungersi col marito, rimasto lontano da lei per ben sette anni, così che alla fine potrà formare, o meglio riformare, la sua famiglia.

Un inno alla vita, dunque, che non prescinde dalle persone. Anzi. Le mette in primo piano come protagonisti di un mondo e di un modo di essere imprescindibilmente rispettosi: di se stessi e degli altri.

 Enea Biumi

 

 

 

 


lunedì 26 aprile 2021

Enea Biumi, La maestrina del Copacabana e altri racconti, Genesi editrice, Torino


 

Il racconto iniziale fornisce il titolo all'intero libro e mette a fuoco sia la bigotteria bacchettona sia la sensualità animosa caratteristiche della vita provinciale nelle quali viene coinvolta Nuccia maestra di scuola elementare, che ha una seconda vita col nome di Schilly, intrattenitrice di locali notturni. Nel secondo racconto si assiste ai divertenti e tortuosi percorsi di avanzamento sociale dell'intraprendente e galante Serafino che da trovatello riesce a emergere, conquistare l'amore della bella moglie e di un amante, ma a sua volta verrà tradito e tutto si concluderà nella più classica delle tragedie. Il terzo racconto si dipana intorno al fil rouge dei luoghi sacri al poeta Ungaretti, rievocati attraverso il percorso di iniziazione alla vita civile di un adolescente. Il quarto racconto possiede già lo spessore del romanzo breve, con intreccio prolungato nel tempo e con una trama di eventi raccontati tra analessi e prolessi da un vecchio che rivede l'intera sua esistenza, fino all'ultimo respiro. L'ultimo racconto è l'unico ad essere ambientato in un contesto di personaggi decisamente agiati, nel quale il maestro di windsurf compie la sua scalata fra piaggerie, incantamenti e meschinerie.

Enea Biumi è uno scrittore votato alla rappresentazione scenica dei suoi romanzi, nei quali il dialogo rappresenta sempre il nerbo narrativo più forte, capace di sviluppare una solida valenza di teatralità e marchiare le caratteristiche dei suoi personaggi, sempre tutti creati dalla fantasia dello scrittore, ma anche validissimi simboli dei caratteri umani più differenziati: sono sempre un poco segnati dalla disperazione che produce il male di vivere e allo stesso tempo sono sempre ineludibilmente combattivi e pertinaci nel correre con arresa voracità fino in fondo il loro destino. Abilissimo indagatore della psiche umana, Enea Biumi è certamente tra gli scrittori italiani oggi più validi a caratterizzare con efficacia la zona tipica del Varesotto, fino a farne un modello conoscitivo valido per l'intera collettività.

Sandro Gros-Pietro

 

giovedì 1 aprile 2021

"Vernice" anno XXVII N° 59, Genesi Editrice, Torino, 2021, € 20,00


 E' uscito il numero 59 della rivista di letteratura "Vernice".  La copertina è dedicata ad Aldo Sisto, che intervistato da Sandro Gros-Pietro racconta di alcuni episodi della sua infanzia, della sua passione teatrale, nonché della sua visione poetica. L'intervista è poi accompagnata da alcuni testi poetici di Sisto. A proseguire un omaggio a Lucia Macro e un'intervista a Eros Pessina, seguita da un omaggio a ad Antonio Vitolo. Interessante è anche l'articolo riguardante il poeta, .da poco scomparso, Franco Loi. Si tratta di un colloquio già pubblicato sulla stessa rivista anni fa, ma riproposto come sintesi della poetica di Loi che dà un'ampia panoramica  della produzione dialettale, non solo propria., a cui si aggiungono delle liriche dello stesso. Seguono successivamente pagine dedicate ad Antonia Pozzi, allo statunitense Ferlinghetti, a Carlo Di Lieto, a Sergio Zavoli ed altri.

mercoledì 31 marzo 2021

Luciano Nota “Destinatario di assenze” (Arcipelago itaca Edizioni, 2020)


 

L’assenza scava, esprime un’arte del levare, una essenzialità espressiva che determina l’accensione della necessità. Si fa altra; compie l’ineludibile proposito di solidificare lo spazio della pagina da abitare e cogliere visivamente nella tracciabilità versificata, nelle sue assonanze. Il verso breve connota la peculiarità della poesia di Luciano Nota,in questo suo “Destinatario di assenze”. Il bianco da cui emerge il tratto concede l’attenta partecipazione all’esito d’equilibrio e sostanza. Gli elementi naturali si fanno tessere eroganti l’accenno nominale, come destino che protegge il succedersi emblematico delle giornate: “Il tramonto che ti cade dalla bocca/ porta con sé una promessa d’aria”. I corsi d’acqua sono luogo d’incontro, episodi epifanici di una danza silenziosa, riflessi di bellezza nei dettagli. “L’acqua smuove il corpo./ Sale l’alba/ e il delta del tronco freme” scrive Luciano Nota, incidendo puliture e tessiture alla luce dei rimandi effusi poi sciolti in una partecipazione tersa che accoglie la liceità delle domande che non sfuggono; la musica delle cose che riabilita il percorso, lo libera dalle contaminazioni dei grovigli costretti. L’autore non insiste sulla volontà di una determinazione impositiva ma domanda lieve l’accostamento, il possibile avvicinarsi dei dati nelle densità del richiamo, di un suono articolato negli squarci rinsaldati. Oltre i tremori fallaci, le pensose rivisitazioni, le conduzioni sensitive; al di là di un corpo reinterpretabile da chi custodisce il nucleo dell’intesa. Ed è moto di acque appunto, sangue e terre; elementi dicibili nella limpida determinazione del verso a condursi quasi distillati entro i rivoli di un’attenzione calibrata e rigorosa, di un sentire che denota tratti di svelamento in tenore materno o nell’accenno alla terra lucana d’origine. Accostamenti imprevisti rilasciano accessi a volubili passaggi che ammettono svolte replicanti umori e accezioni direttamente assimilabili. C’è, in alcuni testi, un senso di domanda che appare tra le righe di una volontà atta quasi a provocare la fissità delle cose, a reclamare l’ipotesi del bivio. D’altra parte molto concede la ricezione perché anche la strada si fa straccio “ed è su quello straccio/ al dileguarsi dei lampioni/ che cavalco l’ombra” scrive l’autore, componendo così un ascolto interrogante l’ignoto cosparso di quei segni capaci di materiche rivelazioni quando “in ogni punto o nuvola/ il sangue è grano”.

 

                                                                                               Andrea Rompianesi


L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...