Perché blu l’ora? Perché l’attesa nel frastuono muto degli elementi, della condensazione accumulante effetti percorribili e tardi? Così incespica l’accorrere ai dettagli, ai disadorni passaggi delle travi. Ma poi è ondivaga risposta la permeante postura che incide il solco nella traccia dell’ora. “L’ora blu”, appunto, è il titolo dell’esito poetico di Davide Racca. Le corrispondenze si accumulano in un tentativo linguistico arduo e distinto, materico e abissale. Attonito conduce il mirabile esordio della domanda inesausta, d’accenno e riprova, a desiderio d’intero. E l’intero, per sua natura inalienabile, non può esserci restituito dalla morte, in quanto essa è assenza e l’intero invece richiede ed esige una presenza assoluta...”le dita aperte/ scheggiate/ la morsa, le lunghe stasi/ (e si comincia sempre/ a ricominciare)”. Davide Racca chiede una direzione d’alba, una distrazione dai cardini, gli estremi riproposti in sentenze acquisite, nello iato sospeso, “o un punto qualsiasi/ fuori del mondo”. Attraverso la solidità dei frammenti, il percorso tende al senso, vocazione dell’ortodossia filosofica che non può certo ignorare la tensione all’essere e, quindi, la domanda metafisica (da troppi fronti messa a lato per deformazioni ideologiche). Certo la luce individuata da Racca è “rabbiosa tra i solchi”, imprime sonorità di sinestesia occhieggianti il diradarsi di mutamenti nella peculiarità dei corpi fisici. Così “un brivido sul dorso dell’acqua/ rompe la linea degli argini”; come zone sottratte ai deserti se non per accumulo di sedimenti e rilasci, cedimenti perturbanti in odore di miscele fonetiche essenziali nella verticalità dei versi. “Quando lo spazio si spezza/ e tutto finisce (come tutto/ finisce) nell’eco// ecco/ steli ricrescono...”; l’ora acconsente al blu della sera che inoltra la persistente richiesta in dimora costante e caparbia. Quell’attenzione alla reiterante analisi di partizione in essenza ed esistenza, in possibilità e attualità, continuamente riaffermata e ridisegnata in ulteriori accezioni (un riferimento è, ad esempio, la riflessione di Giorgio Agamben). Davvero, in questa fase, nel lavoro di Racca, è ben visibile il senso del fare poesia e la natura più intima della poesia stessa quale ricerca nel linguaggio. Realtà che abita lo spazio della pagina e coniuga le espressioni significanti. Oltre il dato percepito, l’accumulo sonoro è intarsio nello sforzo scritturale coniugato alla vocazione evocativa che si libera di scorie superflue e seleziona, nella dimensione assertiva, l’intelaiatura minerale. C’è un silenzio di ere, di conduzioni memorabili, di “un tocco di cosa o/ cosa non sai”, attraverso la costante percezione del pensiero. E ci si muove all’interno di uno spazio indefinito del prima o del dopo; in evenienza solitaria e fragile nei risvolti del protrarsi, quando “del corpo della lingua/ non resta che mutamento/ e pietra”. Ma Davide Racca immette nei versi un sibilare accorto, sapiente, composto nella postura dell’osservatore silente che detiene l’opzione di un correlativo prosciugato ma non inerme, capace di tratteggiare in tale esito un imprevisto, riuscito e convincente effetto dove lo stato in luogo è maturo tracciato linguistico; composizione che sembra filtrare elementi e atmosfere quasi fosse avvenuto un precedente passaggio nella prosa di Jean-Philippe Toussaint.
Andrea Rompianesi