Il profilo del Rosa è un viaggio nel tempo, un reisebilder a ritroso, in cui l’autore rievoca luoghi e situazioni del suo vissuto, senza però abbandonarsi a sterili ed inutili sentimentalismi. Anzi. I versi non sono altro che un racconto introspettivo della propria esperienza di crescita e di maturità. Nulla di nostalgico. Niente rimpianti. Nessuna lamentela sul passato. Solo un percorso che richiama luoghi frequentati e particolari situazioni.
E
io che vivo da ottant’anni quasi
È
stata vita dico alzando le braccia,
Sotto
di me e sotto la mia barca
Le
trote oscillano guizzano tra i cardi
Discendono
allo scafo azzurro capovolto,
Verso
già capofitto il mio contrario
A
due tre metri.
Premesso ciò, è
chiaro che la silloge diventa un’interessante fotografia entro la quale il
poeta si riflette e si rivede, bambino, adolescente, adulto attraverso anfratti
di paesaggi, dettagli domestici, echi letterari. Di per sé è una panoramica di
vita che sancisce le caratteristiche di un esame e che ripropone, in chiave
poetica, un mondo che sta a metà tra l’immagine della grandezza della natura –
evidente in questo caso la metafora del Rosa – e l’esistenza quotidiana
dominata da oggetti che ricorrendosi e rincorrendosi nel tempo assumono
connotati differenti. I versi inziali
offrono l’incipit di quello che avverrà poi.
Una radice ha
rotto il vaso
Nell’atrio della
casa riaperta
La pianta è sempre
stata bagnata
Dal vetro rotto
dal vento.
Nel ritornare
all’antica abitazione il poeta scopre che qualcosa si è rotto (il participio
del verbo rompere è presente due volte in soli quattro versi), ma non
completamente, perché la pianta è sempre stata bagnata, quindi la vita
nonostante le intemperie è potuta proseguire, sia pure con affanno.
Il viaggio, si sa,
(reale o fittizio che sia) è un topos letterario (dall’Ulisse di Omero
alla strada di Kerouac) e ha l’attrattiva di una crescita e di una presa di
coscienza mano a mano che si avanza e in relazione con chi si incontra e con
chi ci si confronta.
Nelle religioni
misteriche antiche si otteneva salvezza, e quindi consapevolezza, dopo aver
percorso le vie più impervie e pericolose cha annullavano la personalità del
neofita. Era necessario conoscere il male per poi rinascere nel bene. Ne
abbiamo un esempio significativo nella Commedia di Dante, o ancora nella più
divertente novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia che per capire la
realtà deve prima cadere dal chiassetto per poi precipitare nel pozzo e
rimanere chiuso in un sepolcro.
Ma dove sta il
male in questo profilo del Rosa che apparentemente non ha nulla a che
spartire con le cadute e l’annientamento di se stessi prima di una definitiva
risurrezione? Bisogna leggere questi versi come un incatenarsi di tanti
rimandi, una serie di metonimie o metafore che collegano il luogo al
sentimento. Se Montale utilizzava il correlativo oggettivo per spiegare (o
meglio per tentare di spiegare) il male di vivere, Buffoni impiega
parametri di implicita diairesi.
Me ne
nutro, ci sguazzo in questa faccia
Ancora
da ragazzo che mi vedono, e agglutino
Nel
sacco insieme a un cane e a un gallo,
Senza
vipera e serpente.
Non
ho ucciso niente.
Certo è che il
viaggio non è lineare o senza ostacoli. Non lo fu quello di Odisseo né quello
di Sal Paradise. Ma non di meno gli ostacoli che si frappongono contribuiscono
a sviluppare una presa d’atto: rinsaldano radici, rafforzano la consapevolezza
dell’io, l’immagine del sé nei confronti dell’altro.
E
comincio a riconoscere stagioni
Dalle
vene dei mobili, i rumori
Che
fanno assestandosi di notte
La
temperatura delle ossa
Questione
di coperte e di verande.
Si tratta in
sostanza di un Bildungsroman in versi, che si snoda attraverso rivelazioni sapientemente
correlate ad avvenimenti quotidiani che diventano ipso facto testimoni
del vissuto del poeta. Sembra un incontro con un armonicista in grado di
accordare strumenti diversi per intonarli all’unisono in uno spettacolare
assolo esemplare.
La sinfonia che ne
sorte ha l’andamento simile al poema musicale Eine Alpensifonie di
Richard Straus: un inizio quasi in sordina che si avvia poco a poco, e senza
che noi ce ne accorgiamo, ad esaltarci con la sua potenza e maestosità. La
maestosità delle Alpi, per l’appunto – o del Rosa nel nostro caso – e in
generale della natura.
Il desiderio di
orchestrare i ricordi diventa allora come un polittico che si apre e si chiude
a seconda delle occasioni e che fa intravedere alcune specificità, disvelando
chiari e scuri, che racchiudono ricchezze da esplorare o commentare.
Come
un polittico che si apre
E
dentro c’è la storia
Ma
si apre ogni tanto
Solo
nelle occasioni,
Fuori
invece è monocromo
Grigio
per tutti i giorni,
(…)
In
definitiva il polittico assume il valore della metafora della vita: una sorta
di finestra donde guardare avvenimenti e persone, ed esplicitare sentimenti,
desideri, angosce, dubbi, storicizzando come in un diario intimo i momenti
salienti che ci hanno permesso di crescere e maturare.
Enea Biumi